Big Robot
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Pubblicato per la prima volta in Italia tra il 1980 e il 1981 dalle Edizioni Bianconi, Big Robot è un fumetto pionieristico, unico nel suo genere, diventato nell’arco di trent’anni oggetto di culto per chi ebbe la fortuna di leggerlo. Il protagonista è un gigantesco automa componibile, guidato dal giovane Antares, che funge da principale mezzo di difesa della Base Union, avamposto fortificato della civiltà terrestre (dopo che quasi tutto il pianeta è stato devastato da un conflitto nucleare), opposto alla minaccia di una razza aliena senza nome guidata dal misterioso imperatore Orkus.
La peculiarità principale che differenzia questo eroe dai tanti altri colossi d'acciaio di Manga e Anime è la sua origine al 100% italiana.
Sconosciuto soprattutto alle nuove generazioni di lettori, l’autore di Big Robot – Alberico Motta - è un nome storico del fumetto italiano; uno dei pochi, sapienti, artigiani della nostra editoria illustrata, autore di tante storie umoristiche per la mitica casa editrice Bianconi, delle quali firmava sia testi che disegni. Dopo aver curato per anni numerosi personaggi made in Italy come Geppo, Nonna Abelarda, Soldino, Provolino, Cucciolo e persino Tom & Jerry (serie italiana su licenza, che fu esportata in molti paesi europei), nel 1978 prese atto dell’incredibile shock culturale che la generazione di adolescenti e preadolescenti italiani affrontò con l’arrivo dei cartoni animati (e dei robottoni giapponesi): "Goldrake" fu il primo, trasmesso dalla Rai, seguito da altre creature di Go Nagai come "Jeeg Robot", "il Grande Mazinga" e "Getter Robot" (che fu intitolato "Space Robot"), andati in onda sulle reti locali.
Da grande appassionato di fantascienza, Motta fu affascinato dall’avanguardia tecno-narrativa degli Anime giapponesi, decidendo di cavalcare il trend ed ideare una serie nostrana di genere Mecha: Big Robot. Un esempio pressoché unico (al tempo) di “manga italiano”, ma anche coraggioso quanto ingiustamente misconosciuto fumetto che, se da un lato riproponeva con una certa elementare efficacia gli elementi della narrativa animata nipponica, dall’altro lo faceva con una precisa quanto tagliente impostazione fantascientifica, rimodulandone i concetti basilari con freschezza, senza limitarsi ad una banale imitazione.
Nel dettaglio, gli incipit principali della serie replicavano chiaramente quelli dei primi cartoni giapponesi dell’epoca: dagli invasori alieni al robot gigante, il cui design era a metà strada tra Goldrake e Jeeg Robot (del quale replicava anche l’assemblaggio delle parti del corpo); dalla base scientifica corazzata al giovane pilota motociclista (un mix dei celebri Actarus e Hiroshi Shiba), fino a characters secondari “classici” come il professore/scienziato/leader della base, il bambino amico del pilota, il robot scientifico, il cattivo inquietante e via dicendo. D’altro canto, però, nonostante l’esplicita derivazione nipponica, il risultato finale di Big Robot non era né scialbo né scontato, perché nelle sue storie non mancavano spunti originali né tantomeno elementi drammaturgici che non ci si aspetterebbe di leggere in un fumetto per ragazzi.
A riguardo, l’impostazione narrativa delle storie era semplice e lineare ma, a sorpresa, conteneva citazioni di fantascienza sia di origine letteraria (i romanzi dell’Urania) che cinematografica ("Guerre Stellari", "1975: Occhi Bianchi sul Pianeta Terra"), rappresentate dal contesto post-atomico e da personaggi come il villain alieno Fuher o gli androidi Luno e Trone (repliche nostrane di Lord Fenner, R2-D2 e C1P8). Erano poi presenti anche diverse tematiche adulte, come il senso di precarietà risultante dalla devastazione dell’ambiente terrestre, le conseguenze dell’inquinamento radioattivo, per non parlare di ardite riflessioni (per un fumetto di quegli anni) come quelle sul culto religioso e il potere che ne deriva nell’episodio ambientato nella preistoria; oppure, inquietanti dettagli riguardanti la tormentata figura di Fuher, comandante in capo delle forze di Orkus, che agiva sotto la minaccia di orribili mutilazioni in seguito a ogni eventuale insuccesso.
Sul fronte grafico, lo stile semi-Disneyano di Motta, dal timbro plastico e pulito, ben si prestava alle dinamiche e alle atmosfere “robotiche” del fumetto, schivando il rischio di scopiazzatura e conquistando una propria identità stilistica, anche in virtù di un discreto design che rielaborava con creatività gli archetipi degli eroi del Sol Levante, facendo sì che Big Robot sia ancora molto godibile da leggere nonostante gli oltre trent’anni di età.
Due parole, infine, sull’edizione di questo volume. Frutto di una coraggiosa iniziativa della Kappalab, casa di produzione multimediale ed editoriale fondata dal gruppo dei "Kappa boys" (ai quali si deve, praticamente, l’arrivo dei Manga in Italia), la ristampa di Big Robot ripropone il formato pocket della sua prima edizione, ma con un montaggio diverso delle tavole (quello originale prevedeva due vignette a pagina) e disegni restaurati.
Il volume contiene anche interessanti extra, costituiti da alcuni editoriali firmati dallo stesso Alberico Motta che con molta onestà ripercorre le origini del personaggio, rivelando episodi autobiografici e i dettagli del suo lavoro sul fumetto.