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Andrea Fiamma

Andrea Fiamma

Star Wars: The Clone Wars (5° stagione): recensione DVD

  • Pubblicato in Toon

clonewars5Se al cinema la creazione di George Lucas è riuscita a lasciare un segno indelebile del suo passaggio, non si può dire che si sia esibita con lo stesso mordente sul mezzo televisivo.
Eccezione fatta per Clone Wars, la serie del 2003 al limite dello sperimentale diretta da Genndy Tartakovsky, il resto delle esperienze televisive legata a Guerre stellari si sono sempre arenate, colpite dal peso della mediocrità - un eufemismo per coaguli trash come lo special natalizio del 1978 - o dall’abbassamento delle ambizioni degli stessi realizzatori (innocui bagatelle come Droids o i prodotti correlati agli Ewok). Con queste premesse non ci si poteva aspettare molto da Star Wars: The Clone Wars, serie in animazione digitale nata sotto i peggiori auspici: dapprima tridimensionalizzando il design piatto e spigoloso impostato da Tartakovsky, con un risultato votato a favore della sostenibilità dei costi più che a un’esigenza stilistica, e poi venendo anticipato da un film, fatto cucendo insieme i primi episodi, sbagliato in ogni sua parte.
In effetti i primi passi mossi nel 2008 si sono rivelati incerti, con una sequela di episodi monotematici dedicati ai personaggi di peso (Padmé, Yoda, Grievous) e un umorismo preso di peso dai momenti più imbarazzanti de La minaccia fantasma, nonché una dose generosa di Jar Jar Binks, imputabile in parte all’head writer Henry Gilroy.

La svolta è avvenuta con l’arrivo di un nuovo gruppo di sceneggiatori, migrati alla Lucasfilm da show come Six Feet Under che ha iniziato a strutturare le stagioni con un cipiglio votato al grande arazzo politico-militale e intelaiando in trasparenza singoli episodi autoconclusivi per offrire colore e varietà al pubblico. La virata verso il dramma politico e l’azione più tradizionale dato anche dal capo-sceneggiatore Christian Taylor in unisono con Lucas stesso ha permesso a Star Wars: The Clone Wars di spiccare il volo, diventando non solo uno dei migliori prodotti televisivi targati Guerre stellari ma anche uno show animato con grande dignità e in grado di rivaleggiare con le serie dal vivo. Nel corso delle quattro stagioni la bontà del cartone è stata a volte minate da scelte poco felici (l’arco di Mortis e molti episodi dimenticabili), ma è indubbio che la quinta sia a stagione con la tenuta qualitativa più alta, zeppa com’è di storie che riportano lo spettatore al cuore della saga e ai elementi basilari: dal piano di vendetta di Darth Maul perpetrato ai danni di Obi-Wan in I senza legge, alla ricerca iniziatica dei padawan del cristallo per le loro spade laser su Ilum, fino alla missione dei droidi, che assume un tono alla Moebius nel suo episodio più critico, Un giorno di sole nel nulla, sono tutti racconti in cui emerge l’azione, l’avventura, il senso di meraviglia e il grande conflitto tra personaggi carismatici e rotondi.
La stagione, che si conclude in maniera inaspettata con un procedural drama che vede protagonista Ashoka, presenta poi un tasso di brutalità esente da spargimenti di sangue ma tutt’altro che reticente a mostrare decapitazioni, arti amputati e morti plateali. Si parla di guerre, è vero, ma il tono ombroso della serie è una mossa audace che va premiata.

I contenuti del cofanetto, quindi, meritano senza riserve e, per essere un DVD, video e audio sono discreti, i colori sono saturi, l'audio cristallino e nel complesso non spiccano imprecisioni. Certo, la serie, per quanto ci siano stati dei progressi rispetto ai primi episodi, non brilla per varietà di consistente e texture e punta più sugli effetti speciali (le esplosioni, i laser) e sulla dinamicità della regia che sulla raffinatezza delle immagini, ma dobbiamo ricordarci che questa è una produzione televisiva che va (andava) in onda ogni settimana e che non si può permettere il lusso di sparare tutte le cartucce una tantum come fa la Pixar. Le tracce audio in inglese, italiano, tedesco, francese e olandese, tutte in dolby digital plus 5.1, offrono una buona tenuta in termini di immersione sonora, anche se nei grandi pezzi d’azione non ci si spinge a fondo come ci si aspetterebbe. Ovviamente la traccia inglese merita l’ascolto primario anche per sentire le guest star dello show, da Jon Favreau a Tim Curry fino al Doctor Who David Tennant, premiato con un Emmy per la sua interpretazione del droide archivista di spade laser Huyang.

Sui contenuti speciali poco da segnalare: brevi dietro le quinte per ogni episodio che vanno dai tre ai sei minuti e originariamente apparsi sul sito ufficiale della saga, etichettati con la fantasiosa dicitura “video commenti” per dare l’idea di un commento esteso alla puntata che qui manca (da un certo punto di vista è pure bene, visto che i commenti audio alle serie tv si riducono a sbrancate di risate, momenti di vuoto e dialoghi come “Ti ricordi questa scena? Che forte, l’abbiamo registrata un giovedì e poi siamo andati a mangiare a quel ristorante che ora non ricordo “Era quello sull’incrocio dal fioraio se non sbaglio” “Giusto, ora ricordo” “Io avevo preso la zuppa perché stavo costipato”). In questo senso, è un cofanetto ridotto all’osso, negli standard Warner, abituati a offrire la portata principale senza contorni di sorta, di cui non si può dire nulla di male ma nemmeno nulla di encomiabile. Niente a che vedere con la versione in Blu-ray, dove sono stati riversati tutti i contenuti speciali più polposi (dalle scene eliminate ai concept art fino alle interviste); tuttavia, essendo il mercato italiano di Star Wars: Clone Wars travagliato sia per quanto riguardo la messa in onda (a singhiozzo e mal programmata dal canale satellitare Cartoon Network) sia per l’home video, che ha visto sbarcare sul nostro paese soltanto il DVD, quest’ultimo diventa un acquisto obbligato nel senso peggiore del termine perché è l’unico formato in cui è possibile trovare la serie (a oggi, solo il film del 2008 è stato distribuito in alta definizione) se la si vuole avere sempre a portata di telecomando.
È dunque indicato per l’appassionato che non può fare a meno del feticcio starwarsiano; gli altri, spettatori casuali o fan scostanti della saga, trarrebbero dalla visione dello show solo una magra soddisfazione.

Serie TV: 4/5
Video: 3,5/5
Audio: 3/5
Extra: 1/5

13 annotazioni su Lot 13

  • Pubblicato in Nerd

- Il perché il fumetto si chiami Lot 13 si capisce solo alla fine. Colpo basso.

- L’annosa questione della diacronia. Il problema di molte opere è che vengono valutate in diacronia, ovvero inserite in un flusso storico che tiene conto delle cose che vengono prima e di quelle che vengono dopo. Sarebbe tutto più semplice se guardassimo un oggetto sincronicamente, paragonandolo cioè solo alle convezioni del genere a cui appartiene o a cui più si avvicina. La diacronia è ciò rende alcune cose dei capolavori, perché anticipatori, innovatori, di rottura, e altre degli anonimi prodotti arrivati fuori tempo massimo, già visti, pieni di cliché e incapaci di uscire dal seminato. Lot 13 è un fumetto che di sicuro ha caricato male l’orologio ed è arrivato all’appuntamento con qualche minuto di ritardo.

- In Italia lo pubblica la Lion. Confezione onesta, prezzo un po' meno.

- Fairfax non sembra un gran posto per le vacanze. La contea di Fairfax in Virginia, che funge da ambientazione alle macabre avventure di Ron e della sua famiglia, è il luogo di efferati crimini da cui provengono gli esseri in cerca di vendetta (li chiamo così per mancanza di altri termini e l’impressione è che si abbia voluto evitare di nominarli per non incappare nella figura iper-inflazionata dello zombie): processi ai suicidi, riti satanici e stupri soprattutto, in un lasso di tempo che va dal XVII secolo agli anni venti. Lo sceneggiatore Steve Niles deve avere dei parenti che odia da quelle parti.

- Non che il presente sia tanto meglio. Nella seconda linea temporale sviluppata da Niles ci viene presentata una classica famiglia a stelle e strisce, con tanto di figlia maggiore irrequieta, fratellino introverso e sorella minore senza la minima consapevolezza di quello che le sta capitando. Nessuno dei componenti ha una psicologia complessa, le dinamiche sono stereotipate e ridotte all’osso e l’intero cast di protagonisti sembra più una zavorra da spostare di scena in scena che il motore propulsore della storia.

- Usare canzoni in un fumetto. Sbagliato!

- Giustificazione: il cane m’ha mangiato le idee. Niles si impegna anche a buttare qualche spunto e dare consistenza al suo fumetto (discussioni sul genere gore, dibattiti sulla fertilità e la versalità delle figure horror di non-morti, vampiri e simili), ma è tutto alla buona, tirato via, un riempitivo in attesa delle scene più sanguinolenti, che costituiscono buona parte del suo materiale narrativo. Le premessa, la costruzione per arrivare all’orgia di sangue, mostri e cadaveri parlanti fanno acqua da tutte le parti. Perché Ron vede le presenze degli esseri ancor prima di essere arrivato a Fairfax? E perché si sprecano diverse pagine a imbastire una specie di sottotrama con il ragazzo di Donna, la figlia maggiore, se poi quel personaggio non viene più ripreso?

- Promemoria: proporre una moratoria sulle citazioni a Shining.

- Il riverbero degli anni. Leggere Lot 13 è un po’ come guardare un film degli anni settanta. Uno di quelli così e così. Tutto rimanda a quel mondo, sia nella scrittura, con scambi di battute estesi e dialoghi fermi, quasi legnosi, sia nella produzione dell’immagine, dalla scelte delle angolature alla resa dei colori, pescati dalla tavolozza monocroma di tonalità terrose del grigio, del giallo e del marrone. Perfino il rosso del sangue, che esce raggrumato e denso dai corpi, è spento e sabbioso.

- L’inevitabile bella pensata del colpo di scena finale. Sì, c’è un colpo di scena. No, non verrà rivelato in questa sede. Sì, non ha senso. Il finale dell’albo non brilla per originalità né per il suo essere spiazzante come un colpo di scena meriterebbe di essere. Dai video musicali alle pubblicità, lo scarto narrativo che si produce nel giro di due pagine è stato visto, letto e sentito un miliardo di volte, qui però c’è l’aggravante che non ha un senso logico nell’economia del racconto. È una mossa da quattro soldi, al limite della gratuità, per non far finire la storia come la gran parte dei lettori si aspetterebbe. Ma non è questo il senso di un colpa di scena, che per essere tale dovrebbe essere giustificabile in retrospettiva, ribaltando tutte le convinzioni e le false supposizioni instillate nella mente di chi ti ha letto fino a quel punto.

- La DC sta presa con le bombe. Decisioni editoriali non coerenti. Perché non pubblicare con l'etichetta Vertigo?

- Realistico ≠ efficace. Glenn Fabry è un artista dal tratto potente, dettagliato che ben si adatta alle atmosfere inquietanti e soprannaturali del fumetto. Seppure le sue idee visive siano gustosamente disturbanti (penso all’orrido mostro in splash page un po’ Dalì un po’ Schizoid Man) e la perizia di dettagli aggiunga disgusto all’estetica del volume, con badilate di vermi che fagocitano intestini e crani aperti come melagrane, un tratto realistico come quello di Fabry pone dei problemi nella sensazione di distacco e alienazione che crea, a causa del fenomeno comunemente soprannominato uncanny valley, quella simulazione delle fattezze umane che crea disagio invece che empatia. L’effetto è amplificato anche dalle pose e dalle espressioni congelate nello spazio, che fanno sembrare le tavole un fotoromanzo. La rigidità sta anche nella composizione: l’artista mostra poca varietà nelle scelte sull’impostazione della pagina, che si presenta comunque più dinamica nelle scene intense di quanto ci si aspetterebbe da una personalità da illustratore come quella di Fabry.

- Se le creature non-morte sono lì per come testimonianza delle ingiustizie subite, in una sorta di “conti rimasti in sospeso”, cosa ci sta a fare il cavallo in copertina?

L'ascesa di Thanos 1-2

Dati due punti A e B solitamente conosciuti il candidato tracci la linea che congiunge i due eventi in modo da rendere il percorso compreso nell’intersezione degli insiemi di fan della vecchia guardia e sbarbati che per loro Thanos è quello viola alla fine di The Avengers.
Immagino sia stato questo il memo che si è trovato sulla scrivania Jason Aaron, artefice de L’ascesa di Thanos, la cui idea di base è palese: raccontare le origini del titano e mostrare come sia diventato un efferato genocida impegnato a tentare di compiacere Lady Morte. In altre parole, un prequel, un esame quasi impossibile da superare. Alla meglio, non aggiunge nulla alla storia del personaggio; alla peggio, si manifestano sintomi come il vilipendio di anni di storie, continuity ingarbugliata, stipsi e Gabriel e Sarah Stacy.

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La sceneggiatura di Aaron è affetta dalle tipiche rigidità dei prequel: per produrre una storia che desti una qualche attenzione nel suo fruitore il personaggio va posto nella situazione più distante possibile da quella attuale, ma per quanto elaborato possa essere il teatrino messo in piedi il lettore saprà già dove determinate cose andranno a parare, ogni sorpresa morirà in partenza e il tutto si ridurrà a un giochino sterile; è lo scacco del prequel, il suo essere marcia verso l’inevitabile. Non c’è uno scossone, non c’è una svolta improvvisa, niente che faccia sobbalzare il lettore o che lo tenga sulle spine fino al numero successivo, anzi a volte si presentano fili annodati alla meglio o buchi rattoppati con poca grazia. Tralasciando le scelte di design, che per quanto radicali (A'lars, l’astronave di Thanos) rimangono pur sempre scelte stilistiche che non minano il contenuto delle storie, dove davvero L’ascesa di Thanos  mostra la sua natura di prequel è nelle screpolature, fatti che non collimano e che non si è riusciti a conciliare con la storia.
Jim Starlin ha raccontato l’origine di Thanos in un paio d’occasioni, tra cui la sfortunata serie eponima, e lo ha sempre fatto con accenni o tavole riassuntive, in cui non sono mai comparsi riferimenti alle psicosi della madre di Thanos né al fatto che quest’ultima sia stata la sua prima vittima (tant’è che nel primo numero della serie del 2003, Sui-San è disegnata tra le macerie del pianeta appena distrutto). Eros, il fratello di Thanos poi diventato Starfox, è appena menzionato e non ci è dato vederlo, una mossa che semplifica la trama per i neofiti ma alleggerisce l’opera dalle dinamiche tra i due, una componente fertile di spunti da tragedia sci-fi.

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Questo non significa che non ci siano momenti forti  o ben scritti (la rivelazione dell’identità dell’amata, le due pagine in cui un Thanos al suo nadir tenta il suicidio) e va riscontrato che gli anticorpi dell’opera in parte arginano i danni: non ci sono Jar Jar Binks di sorta, il tono è cupo fin dalle prime pagine e non lascia spazio a nessuno sfogo comico; ma ricade nell’obbligo di accontentare tutti, con un gusto referenziale per i lettori vecchi (dubito che quelli arrivati al fumetto per vie traverse riconosceranno la citazione nascosta nel terzo numero, quando uno dei personaggi cita la “galassia Starlin”), e con la presentazione di un contesto, a quelli nuovi, entro cui posizionare le varie iniziative future, editoriali e non.
Si tratta di un ibrido, un’operazione che, per quanto ben scritta e disegnata, ne esce goffa, vessata da tendenze centrifughe: da una parte l’ingerenza di troppi paletti che limitano lo scrittore e gli impongono una direttiva che lascia poco spazio di manovra, dall’altra la necessità di tenere attivi più livelli, l’origine del personaggio, una storia lineare che lo porti allo status attuale e sia propedeutica al cross-over Infinity, pochi protagonisti e ben identificati sulla pagina per non creare confusione, ma allo stesso tempo il desiderio di accontentare i vecchi lettori, cercando di inglobare tutte le interpretazioni del personaggio e sforzandosi di giustificarle sotto un unico simulacro; gli anni giovanili, quindi, fatti di quietezza e propensione ai libri, incarnano sia la fase successiva all’abbandono da parte di Lady Morte, in cui il titano era diventato un buono, sia quella tarda, in cui aveva iniziato a studiare i misteri dell’universo.

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Abituato a narrazioni più grezze (Scalped, Wolverine) Aaron recupera il tono solenne già mostrato in Thor e inscena una quasi dramma elisabettiano che pesca più dalle parti di Marlowe che di Shakespeare, per un’ossessiva ricorsione sul personaggio e sulle sue passioni consumanti. E questa teatralità Aaron la conduce riempendo la pagina di dialoghi e di didascalie dal tono sostenuto, specie nei momenti cruciali d’inizio e fine, a volte risultando troppo ridondante e ampolloso.
Ad accentuare il senso di dramma contribuisce Simone Bianchi, che messo all’opera su del materiale che mai fu più azzeccato per le sue attitudini, esibisce pose drammatiche e una regia operistica con continue inquadrature che spingono dal basso, mettendo il lettore proprio sotto le quinte come spettatori di una tragedia. Sono teatrali le soluzioni che escogita per le espressioni facciali e la maestosità michelangiolesca dei corpi che contrastano il senso di morte e distruzione. Sono lontani i tempi delle tavole ora frammentarie ora gonfie di Ego Sum: l’artista toscano fornisce la sua prova più narrativa, chiara e intelligibile dall’occhio dall’inizio della sua carriera, riuscendo a rendere interessanti perfino gli esterni, dando movimento alle ambientazioni desertiche in cui Thanos seppellisce le sue prime vittime.
L’eccesso di tonalità fosforescenti da parte del colorista Ive Svorcina, succeduto a Simone Peruzzi dal secondo numero, è forse il difetto maggiore del reparto, che per il resto riabilita una sceneggiatura onesta, ma che non preme a sufficienza i nervi giusti della storia per provocare reazioni degne di nota.

Monsters University: recensione Blu-ray

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Materie di base: il film

monsters-university-blurayPrimo prequel di casa Pixar, Monsters University racconta gli anni giovanili di Mike Wazowski e James P. Sullivan, impegnati a diventare spaventatori professionisti nella prestigiosa università dei mostri; non tutto andrà come previsto e i due si ritroveranno nella stessa confraternita di reietti, la Oozma Kappa, per raggiungere i loro obbiettivi e vincere le Spaventiadi, i giochi organizzati dall’università per decretare gli spaventatori migliori. È una storia che parla di fallimento, di aspirazioni mancate e di un’amicizia che rivedremo fortificata dal tempo in Monster & Co, il tutto avvolto in una confezione che pesca a piene mani dal filone dei college movie stile La rivincita dei nerds.
Il film soffre della sindrome da prequel (gratuiti i tanti rimandi all’originale e le tante piccole connessioni che si tentano di fare), non offrendo grandi sussulti sul destino dei protagonisti, che sappiamo già finire alla fabbrica di urli della prima pellicola, ma cerca di sovvertire le aspettative del pubblico il più possibile, risultando efficace in diversi punti, su tutti la costruzione del rapporto tra Mike e Sulley, e forzato in altri, specie nel secondo atto,  in cui il film diventa una specie di trama per videogiochi, in cui i mostri passano da un livello all’altro delle Spaventiadi.
Momenti visionari e guizzi creativi si riscontrano nella scena in biblioteca e nel personaggio del rettore Tritamarmo, ma sono punte di sapore in una marmellata abbastanza blanda per gli standard Pixar. È un film che si fa vedere, sopra la media generale se non altro, e il cui difetto maggiore è che tutti, dai realizzatori ai personaggi, si sforzano troppo per rendere spontanea e fluida una storia che invece presenta diverse rigidità.

Mostri di bellezza: l’immagine

Il film è proposto in full HD 1080p, nel formato cinematografico originale adattato ai 16:9. Se a livello di storia il college non viene dissacrato a sufficienza, gli artisti Pixar danno  il loro meglio sul versante visivo, decostruendo il tipico ambiente da campus e iniettando una dosa di mostruosità negli edifici e nel paesaggio: un tripudio di denti aguzzi sugli edifici, alberi a forma di artigli e occhi minacciosi sulle facciate dei palazzi. Ogni dettaglio è adattato al mondo dei mostri e il blu-ray permette di toccare con mano la cura maniacale per il design delle scenografie. Non altrettanto si può dire per il disegno dei mostri, che spicca più per la grande varietà di colori e forme della folla che per l’iconicità dei nuovi personaggi. Uniche eccezioni, il rettore Tritamarmo, inquietante e allo stesso tempo fascinosa scolopendre, e la gigantesca bibliotecaria della facoltà.

L’immagine di partenza è luminosa e vivida e la fotografia del film si avvantaggia dei passi avanti fatti con l’illuminazione globale, di cui avevamo parlato con Davide Pesare: l’illuminazione non è mai stata così realistica, dalla traslucenza della pelle (il cosiddetto fenomeno di subsurface scattering) alle fibre dei vestiti e la varietà di consistenze e tessuti su cui si impatta la luce è resa con perizia di dettagli. A questo si aggiunge un impeccabile riversamento dai master originali che restituisce un quadro brillante, nitido e sicuro, senza mai una sbavatura o un’incertezza; i neri sono compatti e profondi e l’immagine non perde di qualità nemmeno nelle sue aree più scure, come nel finale in cui i colori desaturati rendono la scena povera di dettagli.
Nel complesso, è difficile trovare difetti a questo comparto: la visione del film è una vera gioia per gli occhi, un tripudio di colori che rende il disco un ottimo banco di prova per televisori e lettori blu-ray.

Ruggiti convincenti: il suono

Monsters University tiene in grande considerazione il suono e il blu-ray permette di assaporare appieno il lavoro svolto sulla traccia sonora. Il disco presenta diversi settaggi che vanno dal Dolby Digital Plus 7.1 fino al Dolby Digital 2.0 e sebbene quella italiana sia una colonna di rispetto è nella versione 7.1 in lingua inglese che il film prende vita. Non solo per l’egregio lavoro svolto dagli attori (di nuovo, tocca tirare in ballo Tritamarmo, doppiata da una raffinata Helen Mirren) ma anche per la modulazione del suono nello spazio: il film gioca con l’orecchio dello spettatore ora con il silenzio, nella scena nella biblioteca, ora con l’orgia sonora delle varie missioni di spavento, in cui le musiche di Randy Newman si stagliano chiare e cristalline.
Partiture musicali, dialoghi e rumori di scena non si impastano mai tra di loro e ogni componente esce dalla casse nella sua purezza originaria. Il missaggio fa attenzione a differenziare gli spazi occupati da ogni elemento, le urla e gli incitamenti della folla escono dalle casse posteriori, gli effetti in movimenti sfrecciano da uno speaker all'altro con grande efficacia (si prenda a esempio la gara di tossicità) e i dialoghi sono principalmente incanalati frontalmente.

Crediti formativi: i contenuti speciali

In linea con le uscite Pixar, Monsters University propone un set di due dischi in cui sono stipati film e contenuti aggiuntivi. Del primo disco si segnala il corto L’ombrello blu, esercizio di fotorealismo con una musica orecchiabile ma una storia dimenticabile, e il commento audio da parte del regista Dan Scanlon, del supervisore alla storia Kelsey Mann e della produttrice Kori Rae. Il commento dei tre è molto informativo e sono soprattutto Scanlon e Mann a guidare lo spettatore nei meandri del film, dalla sua genesi fino agli ultimi ritocchi. I due sono glissano sulle storie che circondando il film (la prima versione sviluppata dalla Disney negli anni duemila, un vociferato rimpiazzo del primo regista Doug Sweetland) ma per il resto ripercorrono ogni momento della produzione, parlando dell’evoluzione della trama, delle scelte stilistiche e tecniche e intrattenendo con cipiglio, lasciando pochissimi momenti di vuoto. Un commento audio soddisfacente e informativo - e non è una cosa scontata visto che spesso il sentimento che prevale in questo genere di operazioni è la noia, sia di chi parla sia di chi ascolta - che fa luce sul processo produttivo degli studi.

A fare la parte del leone è però il secondo disco, zeppo di contenuti speciali, dalle scene eliminate agli approfondimenti tecnici e creativi, in una carrellata che include spot, trailer e gallerie di concept preliminari (e come da tradizione c'è una easter egg nel secondo disco dedicati ai titoli di testa del film facilmente raggiungibile per chi è avvezzo al genere). Se gli sguardi a musica e fotografia di Apprezzamenti musicali e Luce e colore sono i più canonici del gruppo, i segmenti più interessanti e in un senso anche sperimentali sono Vita da campus, in cui viene documentata la giornata lavorativa della troupe, e Mostri pelosi: una retrospettiva tecnica, che ripercorre lo sviluppo della simulazione di peli e pellicce in casa Pixar dagli anni novanta a oggi, che dimostrano un'attenzione anche ai fan più grandi. Valgono la pena invece La scuola della storia, focalizzato sulla scrittura del film, e le quattro scene eliminate, introdotte dal regista, di cui una, la lunga sequenza in cui Mike e Sulley vengono dirottati verso un corso teatrale, non avrebbe affatto stonato all'interno del film, mentre appare evitabile lo zuccheroso inserto Le spaventiadi, in cui i dipendenti dello studio si svagano in giochi a squadre per fortificare lo spirito di gruppo; poi non ci si stupisce che ci mettano quattro anni a completare un film. Da segnalare la mancanza di interviste al cast vocale, praticamente assente dal disco e unica vera pecca di un blu-ray altrimenti ineccepibile.
Nel complesso sono prodotti che hanno un taglio maturo e tecnico, poco digeribile da un infante, e segnalano una fruizione totale da parte del pubblico (il DVD di Monster & Co. era impostato in modo diametralmente opposto, tutto semplificato a favore del bambino; sono scelte equivalenti, ma di certo io preferisco la prima).

Alma Mater: conclusioni

Monsters University, pur essendo un film non privo di difetti, è presentato in un set di alta qualità, tra i migliori mai prodotti per un film Pixar, che può vantare video e audio impeccabili e un comparto di extra soddisfacenti. Un acquisto obbligato anche per il fan più casuale.

Film: 3
Video: 5
Audio: 5
Extra: 4

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