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13 annotazioni su Lot 13

- Il perché il fumetto si chiami Lot 13 si capisce solo alla fine. Colpo basso.

- L’annosa questione della diacronia. Il problema di molte opere è che vengono valutate in diacronia, ovvero inserite in un flusso storico che tiene conto delle cose che vengono prima e di quelle che vengono dopo. Sarebbe tutto più semplice se guardassimo un oggetto sincronicamente, paragonandolo cioè solo alle convezioni del genere a cui appartiene o a cui più si avvicina. La diacronia è ciò rende alcune cose dei capolavori, perché anticipatori, innovatori, di rottura, e altre degli anonimi prodotti arrivati fuori tempo massimo, già visti, pieni di cliché e incapaci di uscire dal seminato. Lot 13 è un fumetto che di sicuro ha caricato male l’orologio ed è arrivato all’appuntamento con qualche minuto di ritardo.

- In Italia lo pubblica la Lion. Confezione onesta, prezzo un po' meno.

- Fairfax non sembra un gran posto per le vacanze. La contea di Fairfax in Virginia, che funge da ambientazione alle macabre avventure di Ron e della sua famiglia, è il luogo di efferati crimini da cui provengono gli esseri in cerca di vendetta (li chiamo così per mancanza di altri termini e l’impressione è che si abbia voluto evitare di nominarli per non incappare nella figura iper-inflazionata dello zombie): processi ai suicidi, riti satanici e stupri soprattutto, in un lasso di tempo che va dal XVII secolo agli anni venti. Lo sceneggiatore Steve Niles deve avere dei parenti che odia da quelle parti.

- Non che il presente sia tanto meglio. Nella seconda linea temporale sviluppata da Niles ci viene presentata una classica famiglia a stelle e strisce, con tanto di figlia maggiore irrequieta, fratellino introverso e sorella minore senza la minima consapevolezza di quello che le sta capitando. Nessuno dei componenti ha una psicologia complessa, le dinamiche sono stereotipate e ridotte all’osso e l’intero cast di protagonisti sembra più una zavorra da spostare di scena in scena che il motore propulsore della storia.

- Usare canzoni in un fumetto. Sbagliato!

- Giustificazione: il cane m’ha mangiato le idee. Niles si impegna anche a buttare qualche spunto e dare consistenza al suo fumetto (discussioni sul genere gore, dibattiti sulla fertilità e la versalità delle figure horror di non-morti, vampiri e simili), ma è tutto alla buona, tirato via, un riempitivo in attesa delle scene più sanguinolenti, che costituiscono buona parte del suo materiale narrativo. Le premessa, la costruzione per arrivare all’orgia di sangue, mostri e cadaveri parlanti fanno acqua da tutte le parti. Perché Ron vede le presenze degli esseri ancor prima di essere arrivato a Fairfax? E perché si sprecano diverse pagine a imbastire una specie di sottotrama con il ragazzo di Donna, la figlia maggiore, se poi quel personaggio non viene più ripreso?

- Promemoria: proporre una moratoria sulle citazioni a Shining.

- Il riverbero degli anni. Leggere Lot 13 è un po’ come guardare un film degli anni settanta. Uno di quelli così e così. Tutto rimanda a quel mondo, sia nella scrittura, con scambi di battute estesi e dialoghi fermi, quasi legnosi, sia nella produzione dell’immagine, dalla scelte delle angolature alla resa dei colori, pescati dalla tavolozza monocroma di tonalità terrose del grigio, del giallo e del marrone. Perfino il rosso del sangue, che esce raggrumato e denso dai corpi, è spento e sabbioso.

- L’inevitabile bella pensata del colpo di scena finale. Sì, c’è un colpo di scena. No, non verrà rivelato in questa sede. Sì, non ha senso. Il finale dell’albo non brilla per originalità né per il suo essere spiazzante come un colpo di scena meriterebbe di essere. Dai video musicali alle pubblicità, lo scarto narrativo che si produce nel giro di due pagine è stato visto, letto e sentito un miliardo di volte, qui però c’è l’aggravante che non ha un senso logico nell’economia del racconto. È una mossa da quattro soldi, al limite della gratuità, per non far finire la storia come la gran parte dei lettori si aspetterebbe. Ma non è questo il senso di un colpa di scena, che per essere tale dovrebbe essere giustificabile in retrospettiva, ribaltando tutte le convinzioni e le false supposizioni instillate nella mente di chi ti ha letto fino a quel punto.

- La DC sta presa con le bombe. Decisioni editoriali non coerenti. Perché non pubblicare con l'etichetta Vertigo?

- Realistico ≠ efficace. Glenn Fabry è un artista dal tratto potente, dettagliato che ben si adatta alle atmosfere inquietanti e soprannaturali del fumetto. Seppure le sue idee visive siano gustosamente disturbanti (penso all’orrido mostro in splash page un po’ Dalì un po’ Schizoid Man) e la perizia di dettagli aggiunga disgusto all’estetica del volume, con badilate di vermi che fagocitano intestini e crani aperti come melagrane, un tratto realistico come quello di Fabry pone dei problemi nella sensazione di distacco e alienazione che crea, a causa del fenomeno comunemente soprannominato uncanny valley, quella simulazione delle fattezze umane che crea disagio invece che empatia. L’effetto è amplificato anche dalle pose e dalle espressioni congelate nello spazio, che fanno sembrare le tavole un fotoromanzo. La rigidità sta anche nella composizione: l’artista mostra poca varietà nelle scelte sull’impostazione della pagina, che si presenta comunque più dinamica nelle scene intense di quanto ci si aspetterebbe da una personalità da illustratore come quella di Fabry.

- Se le creature non-morte sono lì per come testimonianza delle ingiustizie subite, in una sorta di “conti rimasti in sospeso”, cosa ci sta a fare il cavallo in copertina?

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