Menu
Luca Tomassini

Luca Tomassini

URL del sito web:

Suicide Squad: recensione

  • Pubblicato in Screen

È una partenza con handicap quella che la Warner Bros. si è trovata ad affrontare nel pianificare il suo DC Extended Universe cinematografico fin dal Man Of Steel di Zack Snyder, primo cinecomic post-Nolan dello studio. Desiderosa di sfidare la Marvel/Disney sul terreno di un universo cinematografico condiviso, la DC/Warner partiva con un ritardo di 5 anni rispetto alla concorrente, che già con Iron Man del 2008 aveva posto il primo tassello del suo Marvel Cinematic Universe. Mentre la Marvel inanellava un successo dietro l’altro trasformando in beniamini del pubblico personaggi come i Guardiani della Galassia che, a voler essere buoni, erano stati fino a quel momento personaggi di terza fascia della casa editrice, la DC faticava a riportare nelle sale nomi spendibilissimi presso il pubblico generalista come Batman e Superman. Appariva evidente fin da subito l’indecisione nelle scelte creative e la mancanza di una figura di riferimento come Kevin Feige, presidente dei Marvel Studios. La tiepida accoglienza da parte della critica e di una nutrita schiera di fan del lungamente atteso Batman V Superman è storia recente: una visione “estrema” e in alcuni casi fuori dal canone delle due icone DC da parte di Zack Snyder che ha dato luogo ad un esito cinematografico controverso, mal supportato da un montaggio confuso ed una sceneggiatura non all’altezza della situazione. Ed è a questo mezzo passo falso che si deve la creazione da parte della Warner Bros. di DC Films, una nuova divisione che servirà a supervisionare il lavoro dei creativi che si avvicenderanno sui film DC, affidandone la direzione a Geoff Johns, già Chief Creative Officer e sceneggiatore di punta di DC Comics.

SDCC'15: ecco il trailer di Suicide Squad

Era inevitabile, con tali premesse, che Suicide Squad, la seconda produzione targata DC di quest’anno, fosse attesa al varco. E diciamo subito che pur non essendo un prodotto privo di difetti, appaiono esagerate le stroncature che della pellicola ha fatto la stampa specializzata americana. Suicide Squad è un giro di giostra delirante su un otto-volante sgangherato ma divertente, condito da sprazzi di follia anarchica e salvato dalle performance carismatiche di alcuni suoi interpreti.

Il film ha il suo punto di forza nella sua premessa di base: quella di riunire in un super-gruppo alcuni iconici villain della DC, prelevati da un carcere di massima sicurezza e reclutati in maniera coatta dal determinato agente governativo Amanda Waller, che offre loro la possibilità di redimersi e di usufruire di uno sconto di pena gettandosi in missioni dalle quali potrebbero non tornare… e minacciandoli di far saltare la microcarica che ognuno di loro ha innestata nella base del collo nel caso dovessero disertare. L’inizio del film è avvincente ed ipnotico, con la presentazione di ciascun membro della squadra che si risolve in un “corto” ad esso dedicato, in cui faranno una veloce comparsata anche Batman e Flash. Ma dopo la frenetica e divertente parte introduttiva, cominciano le dolenti note, in particolar modo per quanto riguarda la trama che si fa confusa e sconclusionata, frutto di una sceneggiatura evidentemente rimaneggiata. La comparsa di un villain quasi onnipotente e dalle origini e motivazioni incomprensibili segna l’avvio improvviso della prima missione della squadra, dando il via ad una serie di scene di guerriglia che, pur esaltando l’indubbio talento del regista David Ayer per le sequenze action, costituiscono però l’elemento meno significativo del film.

Lo script fa acqua da tutte le parti e il film procede ad episodi, come una squadra di calcio senza schemi che butta la palla in avanti confidando nella qualità dei solisti: per fortuna in Suicide Squad ve ne sono di eccellenti, a partire da un ritrovato Will Smith che tratteggia un convincente Deadshot, il cecchino che non sbaglia mai un colpo. Anche Smith, evidentemente a suo agio nel ruolo, sembra essere tornato il divo di 20 anni fa che non sbagliava mai un film, regalandoci un Floyd Lawton ironico e malinconico allo stesso tempo, un villain suo malgrado che sarebbe potuto essere un eroe se avesse compiuto altre scelte.

Suicide Squad: ecco il Blitz trailer ufficiale italiano

Ma a rubare letteralmente la scena è la Harley Quinn di Margot Robbie, che si rivela una delle scelte di casting più azzeccate in un cinecomic. Raramente si era visto in questo genere di film un simile ritratto di follia e bellezza ipnotica, ispirata metafora di tutte quelle donne che si fanno plagiare da un amore ossessivo che le imprigiona in una relazione distruttiva. Harley Quinn è la star indiscussa del film e Ayer ne è conscio, consegnandole le luci della ribalta e regalandole le battute più efficaci ed applaudite in sala. Non si può dire purtroppo altrettanto dell’amato “Mr. J” di Harley, il Joker di Jared Leto, relegato ad una parte da comprimario nonostante il suo ruolo centrale nella poderosa campagna di marketing del film. Leto fornisce una nuova versione del Principe Pagliaccio del Crimine, più dandy e modaiola, che sarebbe potuta essere anche interessante se non fosse stata relegata a soli flashbacks e ad una sottotrama del tutto marginale. La sua presenza nel film sembra essere più un antipasto di cose a venire, e fallisce nel difficile compito di far dimenticare lo spietato clown nichilista interpretato dal compianto Heath Ledger ne Il Cavaliere Oscuro.

Menzione d’onore anche al premio Oscar Viola Davis, che da spessore e carattere ad Amanda Waller, capace di tenere testa ad un esercito di psicopatici ed assassini con la sola forza del suo carisma. La sceneggiatura non fornisce le stesse occasioni di ribalta a Joel Kinnaman (Col. Rick Flag), Jai Courtney (Captain Boomerang), Karen Fukuhara (Katana) e a Cara Delevingne nel doppio ruolo di June  Moon ed Enchantress, anche se la scena del passaggio di quest’ultima da una personalità all’altra, con una mano nera che sbuca dietro il palmo di una mano bianca e la gira, voltando e trasformandone tutto il corpo è da antologia e probabilmente diventerà un cult.

jh

Purtroppo lo script deficitario di Ayer non da seguito a tutte le sue intenzioni, non riuscendo a spingere fino in fondo il pedale della parodia irriverente alla Deadpool o del politicamente scorretto stile Guardiani della Galassia (film con i quali divide comunque uno spirito di fondo) e risolvendosi in una edulcorata e banale riabilitazione di “cattivi che poi non sono così cattivi”. Il film lascia comunque nello spettatore una piacevole sensazione di divertimento, nonostante uno scontro finale che sa tanto di riedizione di Ghostbusters contro Gozer il Gozeriano, ma è un peccato che si può anche perdonare pur di salire sulla folle giostra di Suicide Squad.

Ps. Non abbandonate la sala prima di una scena mid-credit che potrebbe essere di fondamentale importanza per gli sviluppi futuri del DC Extended Universe.

Suicide Squad è diretto da David Ayer e vede per protagonisti Will Smith (Deadshot), Joel Kinnaman (Rick Flagg), Margot Robbie (Harley Quinn), Jared Leto (Joker), Jay Courtney (Boomerang), Cara Delevingne (l'Incantatrice), Jay Hernandez (El Diablo), Ben Affleck (Batman), Scott Eastwood, Raymond Olubowale, Common (Monster T.).
Il film, prodotto da Charles Roven e Richard Suckle, farà il suo debutto oggi 5 agosto 2016 negli States, il 13 nelle sale italiane.

Daredevil: Amore & Guerra

Nel biennio 1985/86 fanno la loro comparsa in rapidissima successione un gruppo di opere che ancora oggi, a 30 anni di distanza, vengono annoverate tra i maggiori risultati ottenuti dalla narrativa a fumetti: Watchmen, Maus, The Dark Knight Returns, Daredevil: Born Again, Elektra: Assassin. Tranne le prime due, le altre opere citate sono frutto del talento innovatore e straripante di Frank Miller. Arrivato in Marvel nella seconda metà degli anni ’70, durante la quale affronta una gavetta fatta di copertine e storie per testate secondarie, la sua carriera decolla quando Jim Shooter, editor-in-chief della compagnia, scommette su di lui e gli affida le sorti di Daredevil, testata che non era più riuscita a ripetere i fasti del periodo Lee & Colan e che in quel periodo era a rischio chiusura. Dopo una prima sequenza di storie su testi di Roger McKenzie, Miller assume l’incarico di scrittore/disegnatore dal numero 168, trasformando subito la serie del vigilante cieco in un noir moderno dove echi di Hammet e Chandler convivono e si fondono con l’influenza dello Spirit di Will Eisner, la fascinazione per la cultura orientale e l’apertura alle suggestioni dei maestri del fumetto europeo come Sergio Toppi.

ddlw1

Creatura simbolo di questo ciclo indimenticabile, che Miller introduce fin dal suo primo numero come autore completo è Elektra, la ninja greca che viene dal passato di Matt Murdock, col quale condivide un rapporto complesso e controverso, amante e nemica allo stesso tempo. Altra intuizione fortunata di Miller fu quella di abbandonare la variopinta galleria di villain storici della serie e di contrapporre a Daredevil un moderno boss della malavita, un businessman ammantato di rispettabilità dietro il quale si nascondeva invece un temuto zar del crimine. In quella che si rivelò essere una perfetta scelta di casting il ruolo venne assegnato a Wilson Fisk, Kingpin, fino a quel momento caricaturale villain di Spider-Man, che Miller tirò fuori dalla naftalina e grazie ad un sapiente lavoro di restyling trasformò in una nemesi dei tempi moderni, in cui convive la rapacità di un gangster alla Scorsese e la complessità psicologica di un Macbeth. Unica ancora di salvezza spirituale per Fisk è costituita dalla moglie Vanessa, vista invece dal suo braccio destro, Lynch, come un ostacolo al dominio del boss sulla città. Per questo ne organizza prima il rapimento, poi tenta di ucciderla facendo esplodere il palazzo in cui è tenuta prigioniera. Vanessa sopravvive ma perde la memoria, e si rifugia nelle fogne di New York, dove cade vittima degli abusi mentali e fisici di un autoproclamatosi “Re delle Fogne”. Daredevil la rintraccerà e la salverà, riconsegnadola a Kingpin dietro la promessa di far dimettere il neo-eletto sindaco che si trova sul suo libro paga.
Miller conclude la sua run di Daredevil due anni dopo con il numero 191, lasciando però sospeso il fato di alcuni personaggi tra cui Elektra e la stessa Vanessa. Tornerà a raccontare le storie della ninja greca in Elektra: Assassin e Elektra Lives Again, mentre all’epilogo della triste vicenda di Vanessa Fisk dedicherà la graphic novel Daredevil: Love & War, una vera e propria bomba di anarchica e radicale eleganza che deflagra sulla scena fumettistica nel 1986, all'apice del periodo "revisionista".

ddlw2

Amore & Guerra è il terzo e meno osannato capitolo di un’ideale trittico, insieme a Born Again e Elektra: Assassin, che celebra il ritorno di Miller alla Marvel dopo i fasti del Dark Knight in casa DC. La storia si apre nel grattacielo di Kingpin, dove un accorato Wilson Fisk si reca al capezzale della moglie Vanessa, il cui equilibrio psichico è ormai compromesso dopo il tentativo di omicidio di cui è stata vittima. Fisk fa rapire da un suo scagnozzo, lo psicopatico Victor, la moglie di un famoso psichiatra, Cheryl, allo scopo di costringere l’uomo a curare Vanessa. Non ha fatto i conti però con Daredevil, che ingaggerà una lotta contro il tempo per salvare le due donne dalle attenzioni dei due pericolosi criminali.

Riassunta così, la trama di Amore & Guerra sembrerebbe ricalcare il più banale stereotipo di feuilleton ottocentesco, con l’eroe che si lancia al salvataggio della damigella in pericolo. Ci troviamo invece di fronte ad un’opera caratterizzata da un altissimo livello di sperimentazione, una brillante sinergia tra due artisti allora al top delle rispettive carriere. Ad accompagnare i testi di Frank Miller, come nel caso della già citata Elektra: Assassin, troviamo infatti i pennelli di Bill Sienkiewicz, artista che aveva mosso i primi passi nell’industria del fumetto come emulo di Neal Adams, stile che comincia progressivamente ad abbandonare a partire da un celebre ciclo di Moon Knight, a favore di un tratto più sporco e ricco di chiaroscuri. Ma è con una seminale sequenza di New Mutants in coppia con Chris Claremont che Sienkiewicz abbraccia definitivamente il suo nuovo stile, fatto di un approccio più sperimentale al tavolo da disegno.

ddlw3

Come una farfalla uscita dalla crisalide, è proprio con Amore & Guerra che Sienkiewicz raccoglie i risultati di questa ricerca, sfociando apertamente nell’eversione artistica e nell’avanguardia. Tecnica mista, pittura ad olio, collage: non c’è limite alla sperimentazione concessa all’artista. In questo senso, il titolo dell’opera è emblematico: Amore per le infinite possibilità concesse dal “mezzo” fumetto, Guerra a tutti i limiti che gli sono stati imposti finora. Sienkiewicz riversa nelle sue tavole tutte le influenze dell’arte europea di cui si è nutrito: espressionismo tedesco, cubismo, ma anche Picasso, Mucha, Klimt. Citazione diretta della secessione viennese sono i gilet indossati da Kingpin, ritagliati direttamente dalla carta da parati di quel periodo storico. Impossibile tenere il conto delle suggestioni e dei richiami di cui l’artista impreziosisce l’opera: il grattacielo di Fisk illuminato dal sole che si staglia dai bassifondi di cui si nutre, simile ad una torre che ospita uno stregone malvagio, un drago che custodisce una principessa addormentata; le donne, Vanessa e Cheryl, ritratte come donne angelicate di concezione stilnovista, esseri eterei che ispirano l’Amore ossessionato e morboso di uomini dediti alla Guerra come Kingpin e Victor; quest’ultimo, killer schizofrenico, ridotto dall’uso di droghe e dall’ossessione per Cheryl ad una bestia dagli istinti primordiali, e per questo raffigurato lombrosianamente da Sienkiewicz con le fattezze di un mandrillo. Faranno scuola le anatomie volutamente distorte e deformate dall'artista, a suggerire talvolta gli stati d'animo dei personaggi, talvolta, come nel caso di Victor, i segni inequivocabili della malattia mentale: è il caso delle tavole in cui sovrappone i lineamenti del viso del killer, con un effetto di ripetizione che va a sottolinearne e ad amplificarne lo squilibrio psichico. Celebre è anche la resa grottesca e esageratamente sovradimensionata di Kingpin, un ammasso di dolente rimpianto "grasso come lo stato dell'Idaho" (cit.). In tutto questo Daredevil appare solamente come una scia rosso fuoco nel cielo di New York, salvo riassumere i consueti contorni da eroe da comic book popolare nella sequenza del salvataggio di Cheryl, alla quale si presenta come un novello cavaliere in armatura.

Gli splendidi dipinti di Sienkiewicz si fondono e si confondono ai testi di un Frank Miller ispiratissimo, qui alle prese con una delle prove più raffinate della sua carriera. Il consueto stile di scuola hard-boiled dello scrittore del Maryland assume la forma di un flusso di coscienza necessario ad accompagnare il lettore nei labirinti mentali di personaggi psicologicamente instabili, e l’uso di onomatopee e di monologhi interiori che si interrompono improvvisamente per poi ripartire fanno parte di quella ricerca di un nuovo linguaggio espressivo di cui si parlava precedentemente e di cui quest’opera è permeata. Raramente si è visto, in campo fumettistico e non solo, un connubio così ispirato tra due talenti assoluti, che giocano a sfidarsi e a superarsi a vicenda “procedendo per ellissi e singulti, fermandosi e riprendendo con ritmo sincopato, come una jam session a fumetti delirante e sperimentale” (M.M. Lupoi).

ddlw4

Daredevil: Amore & Guerra viene riproposto da Panini Comics in uno splendido volume della linea Grandi Tesori Marvel, formato che esalta le già straordinarie tavole di Sienkiewicz: un capolavoro che non può mancare nella libreria di nessun appassionato, testimonianza di un breve momento in cui una storia di super-eroi poteva essere il manifesto di una nuova avanguardia estetica.

Marvel Omnibus: Power Man & Iron Fist

Gli anni ’70 vengono ricordati come una decade di grande vitalità e sperimentazione nella storia della Marvel. Dopo essere esplosa come fenomeno di costume nel decennio precedente, è in questi anni che la casa editrice di Park Avenue South consolida la sua posizione predominante sul mercato, aggiungendo al suo già nutrito parco testate nuovi titoli che cavalcano lo spirito del tempo. Sempre attenta a nuove mode e tendenze, la Marvel attraversa gli impetuosi anni ’70 come un riff di chitarra selvaggio, lanciando nuove proposte che riflettono gli stimoli della cultura popolare dell’epoca. I film horror della Hammer Films riscuotevano successo? Ecco arrivare sugli scaffali delle fumetterie Tomb Of Dracula e Werewolf By Night. Shaft e Foxy Brown erano gli alfieri della blaxploitation? Ecco arrivare l’eroe di Harlem, Luke Cage, Power Man. E se il successo dei film con Bruce Lee e del telefilm Kung Fu con David Carradine aveva fatto esplodere nel paese la moda delle arti marziali, la Marvel rispondeva con Shang-Chi, Master of Kung Fu e Iron Fist, The Living Weapon.

powiron1

Le testate di Luke Cage, Hero for Hire, e di Iron Fist in particolare conoscono un buon successo di vendite fino alla seconda metà degli anni ’70, grazie alla qualità dei team creativi che vi si alternano e per le atmosfere inusuali rispetto alle altre collane Marvel del periodo. Le storie di Cage, ambientate tra bassifondi e gang di strada, vengono realizzate da autori come Archie Goodwin, George Tuska, Steve Englehart, Don McGregor e Billy Graham, con un design del personaggio curato nientemeno che da John Romita Sr.; le vicende di Danny Rand, alias Pugno d’Acciaio, sospese tra New York e la mistica città di K’un-Lun, debuttano grazie alle firme prestigiose di Roy Thomas e Gil Kane, prima di essere affidate ad una coppia che di li a poco farà la storia del fumetto americano grazie ad un epocale ciclo di Uncanny X-Men, Chris Claremont e John Byrne. Ma sul finire del decennio sia il genere blaxploitation che quello delle arti marziali cominciano a segnare il passo, cominciando un rapido declino. Il primo a farne le spese è Iron Fist, la cui testata viene chiusa nonostante l’ottimo ciclo di Claremont & Byrne; nel momento in cui anche le vendite della serie di Cage, ribattezzato nel frattempo Power Man, cominciano a scricchiolare, la Marvel tenta una mossa a sorpresa nel tentativo di salvarla dal dimenticatoio. I numeri 48 e 49 vengono eccezionalmente affidati proprio alla premiata ditta Claremont & Byrne, che ne approfittano per affiancare all’Eroe Nero quel Pugno d’Acciaio orfano ormai di una serie personale. Dal numero 50 la testata cambia nome in Power Man & Iron Fist, e la scommessa di abbinare due eroi in declino per tentare un disperato rilancio viene subito vinta, dando vita ad una serie ancora oggi considerata di culto, tanto da meritare di essere ospitata nella linea Marvel Omnibus di Panini Comics.

powiron2

Il volume si apre con le storie sopra citate, a firma Claremont & Byrne, che servono a far incontrare per la prima volta i due personaggi: il pretesto è il rapimento di Misty Knight, compagna di Iron Fist, da parte di un Cage tenuto in scacco dal bieco Bushmaster, che minaccia altrimenti di fare uccidere le due persone più care della sua vita, la fidanzata Claire Temple e l’amico Professor Burnstein. Dopo un’inevitabile scontro, i due eroi si uniranno per sconfiggere il losco criminale. Iron Fist, nella sua identità civile di Danny Rand, fornirà inoltre a Cage l’assistenza del suo scaltro legale, Jeryn Hogarth, per essere scagionato da un’ingiusta accusa di omicidio che lo perseguitava fin dalla sua prima apparizione. È l’inizio di una imprevedibile e profonda amicizia, che porterà due eroi e due uomini molto diversi tra loro a diventare soci nell’agenzia Eroi in vendita.

Dieci anni prima che lo sceneggiatore Shane Black e il regista Richard Donner ci presentassero con gli agenti Riggs e Murtaugh di Arma Letale l’esempio più riuscito di buddy movie, Luke Cage e Danny Rand erano già li a calcare le strade. Come brillantemente sottolineato da Aurelio Pausini nell’introduzione al volume, fu illuminata la scelta di abbinare due personaggi apparentemente agli antipodi, ma accomunati in realtà da un passato doloroso. Il ricco ereditiere Danny Rand poteva condurre la sua crociata contro il crimine nei panni di Iron Fist senza alcuna preoccupazione di carattere economico ma aveva visto perire i genitori da piccolo nella spedizione verso la città incantata di K’un-Lun; Luke Cage poteva farsi strada nella vita grazie alla sua forza ma portava il peso di un’infanzia difficile nel ghetto e l’onta di una ingiusta carcerazione. Danny imparerà a conoscere grazie a Luke la dignità del lavoro e le difficoltà della vita delle persone normali; al contrario l’irruento Cage imparerà da Danny l’importanza della disciplina. Amicizia, rispetto, valori, esempio: argomenti importanti per un semplice fumetto di supereroi.
Anche se dobbiamo a Chris Claremont la felice intuizione di aver messo in società Power Man e Iron Fist, è a Mary Jo Duffy, efficace scrittrice ed editor dimenticata della Marvel degli anni ’70 e ’80 che va il plauso per aver confezionato, nei tre anni della sua gestione, una serie scanzonata ma attenta alla caratterizzazione dei personaggi, dove azione e ironia vanno di pari passo con un riuscito approfondimento psicologico, pur con tutte le ingenuità dell’epoca.

powiron3

Il comparto grafico del volume è nobilitato dalla presenza di John Byrne che da sola ne giustifica l’acquisto. Le pagine dell’artista canadese blandiscono la pupilla del lettore oggi come ieri, grazie ad un dinamismo e una composizione della tavola che sono pura espressione del Marvel Style di quegli anni. Dopo un lieve calo dovuto alla presenza di un Mike Zeck ancora agli inizi della carriera e a un non troppo ispirato Lee Elias, la qualità dei disegni si risolleva grazie a Trevor Von Eeden e al sicuro mestiere di Kerry Gammill, ottimo artigiano ormai dimenticato.

Marvel Omnibus: Power Man & Iron Fist è una piacevole lettura estiva, consigliata sia per nuovi lettori impazienti di conoscere i protagonisti dei prossimi due serial Marvel/Netflix, sia per vecchi lettori desiderosi di fare una passeggiata sul viale dei ricordi della Marvel che fu.

Quando Muhammad Ali sfidò Superman

  • Pubblicato in Focus

Era la notte tra il 3 e il 4  giugno scorso quando le agenzie di tutto il mondo hanno battuto la notizia della morte di Muhammad Ali, al secolo Cassius Marcellus Clay, il più grande boxeur della storia, “Sportivo del Secolo” per la rivista Sports Illustrated e icona della cultura pop. Il dolore di “The Greatest”, come amava definirsi con spavalda ma meritata iperbole, ha valicato i confini del mondo dello sport. Messaggi di cordoglio sono arrivati da capi di stato e da esponenti della cultura, a testimonianza della grandezza della figura di Ali, che è stato un campione della battaglia dei diritti civili prima che del ring.

La sua avventura sportiva ed umana si compie sullo sfondo di due decenni cruciali per la storia americana e mondiale, gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso: è proprio il nostro Paese a fornire a Cassius Clay la sua prima ribalta sportiva, con la vittoria della medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960. Nel 1964, a soli 22 anni, conquista il titolo di Campione del Mondo battendo Sonny Liston in uno storico match. Poco dopo arriva la prima delle sue decisioni controverse: Clay aderisce al movimento afroamericano Nation of Islam e cambia nome in Muhammad Ali. Sono anni difficili per gli Stati Uniti: il presidente John Fitzgerald Kennedy è stato ucciso a Dallas l’anno precedente e si apre un decennio difficile, segnato dall’impegno bellico in Vietnam, evento traumatico che segna la storia americana e contro il quale il carismatico Ali non tarda a prendere posizione. Nel 1967 il Campione viene arrestato per renitenza alla leva e privato del titolo in seguito al suo rifiuto di combattere in Vietnam, posizione che gli viene dettata sia dalla sua religione, sia da una convinta obiezione di coscienza (Non ho niente contro i Viet-Cong. Loro non mi hanno mai chiamato “negro”). Ed è proprio la sua battaglia come obiettore di coscienza e per le sue posizioni contro la guerra a renderlo un’icona della controcultura di quegli anni, simbolo per eccellenza del Black Power.

phantom-punch-muhammad-ali-sonny-liston

Il Campione tornerà sul ring nel 1971, a seguito dell’annullamento della sua condanna da parte della Corte Suprema. Gli anni successivi cementano definitivamente il mito di Ali, a partire dai mitici match contro Joe Frazier, il rivale per eccellenza, per arrivare al leggendario Rumble in the Jungle (“Terremoto nella Giungla”), l’incontro con George Foreman combattuto e vinto drammaticamente a Kinshasa, nello Zaire, nel 1974, e celebrato in uno straordinario documentario, Quando eravamo Re, diretto da Leon Gast. Sullo sfondo la storia americana continua a scorrere: l’innocenza ormai perduta degli anni ’60 ha lasciato il posto alle inquietudini degli anni ’70, il Vietnam è un fallimento drammatico, ma il peggio, se possibile, deve ancora venire: è lo scandalo Watergate, imputabile al presidente Nixon, a far vacillare la fiducia degli americani nelle istituzioni. La sfiducia e il disorientamento dell’americano medio viene intercettato e ben rappresentato dallo scrittore di Captain America, Steve Englehart, nella celebre Saga dell’Impero Segreto, attraverso l’immagine simbolo del buon Capitano che getta il costume alle ortiche dopo aver realizzato il livello di corruzione del sistema politico e assume l’identità di Nomad, l’uomo senza patria. La stella di Ali attraversa in pieno questi anni convulsi della vita politica e sociale americana e ne diventa uno dei simboli, grazie ad una vena polemica mai sopita e al suo indomito carattere. La sindrome di Parkinson, terribile malattia che gli viene diagnosticata nel 1984 dopo che i primi sospetti lo avevano spinto al ritiro già nel 1981, non spegne la fiamma che arde nel cuore del campione, anzi quest’ultima conosce una solenne e commovente sublimazione alle Olimpiadi di Atlanta del 1996, quando un Ali ormai minato nella salute viene scelto come ultimo tedoforo nella cerimonia di apertura, commuovendo il mondo per il suo coraggio.

Non stupisce quindi, alla luce di quanto detto, che Muhammad Ali all’apice della sua fama fosse considerato alla stregua di un supereroe da milioni di afroamericani e non solo. Il parallelismo tra i colorati giustizieri della DC e della Marvel e il suo assistito non era sfuggito a Don King, rampante manager del Campione. King, che nel decennio successivo avrebbe curato anche gli interessi di un giovane Mike Tyson, era in anticipo sui tempi: era ben consapevole della potenza della comunicazione e del marketing e lo aveva dimostrato organizzando eventi come il già citato Rumble in the Jungle e il suo “sequel”, il match tra Ali e Frazier nella capitale delle Filippine, ribattezzato “The Thrilla in Manila”. Nel 1976, in un’epoca in cui i giornali non si occupavano quasi mai di fumetti, aveva destato scalpore l’incontro tra i due pesi massimi di DC e Marvel, Superman contro l’Uomo Ragno: La Battaglia del Secolo, che era stato un clamoroso successo di vendite. Il fatto non era sfuggito a King, sempre alla ricerca del colpo a sensazione, che si presentò di persona al 75 Rockfeller Plaza, sede della DC all’epoca, con un proposta folle ma intrigante: Superman avrebbe affrontato una nuova sfida contro un avversario speciale, e quell’avversario sarebbe stato nientemeno che Muhammad Ali. La dirigenza della DC sulle prime vacillò ma poi decise, nella persona del nuovo editore Jenette Kahn, di accettare la sfida. Come ricorda la stessa Kahn, nel 1976 Muhammad Ali era percepito come un’eroe popolare di proporzioni iconiche, in particolare per la sua ferma opposizione alla guerra in Vietnam e un’obiezione di coscienza che gli aveva fatto perdere quattro degli anni migliori della carriera.
Ma la storia che sarebbe nata dall’incontro tra le due grandi icone non sarebbe stata solo un occasione di puro intrattenimento, ma anche il pretesto per sviscerare il significato delle azioni e degli ideali che avevano reso, ciascuno a modo suo, Superman e Ali degli eroi.

j07bwsvnn7hm3o8vjcsu

Per realizzare un compito così arduo c’era bisogno del  miglior team  creativo possibile. Fortunatamente, la DC lo aveva in casa. E così il dinamico duo formato dai testi di Denny O’Neil e dai disegni di Neal Adams venne messo all’opera. La coppia era reduce dal successo delle storie in coppia di Lanterna Verde e Freccia Verde, testata per la quale avevano affrontato per la prima volta in un fumetto mainstream problemi spinosi come la questione razziale e la diffusione delle droghe tra i giovani; inoltre, dopo la sbornia camp del decennio precedente, O'Neil e Adams avevano riportato Batman alle sue origini di detective e vendicatore notturno, come immaginato in origine da Bob Kane. La coppia partiva sotto i migliori auspici, e il Dio del Fumetto fu dalla loro parte. Il risultato fu all’altezza delle aspettative, anche se le difficoltà non mancarono, tra l’improvviso abbandono di O’Neil, che lasciò ad Adams anche l’onere dei testi e la pressione dello staff di Ali che pretendeva il controllo creativo (si mormora che il pugile avesse riscritto alcune battute dalla sua controparte cartacea).

1289329861

L’opera, prevista per l’autunno del 1977, vide la luce nella primavera del 1978. La storia prendeva le mosse dalla minaccia di un invasione della Terra ad opera della razza aliena Scrubb: per evitarla un campione terrestre avrebbe dovuto affrontare in un match il campione degli Scrubb, Hun’ya. Superman e Muhammad Ali si propongono come difensori della Terra, ma tra i due si accende un litigio su chi debba rappresentarla. Superman sostiene, in virtù dei suoi poteri, di essere il prescelto. Ali, dal canto suo, fa notare all’Uomo d’Acciaio di non essere nativo della Terra. La diatriba viene diramata da un emissario Scrubb, che priva momentaneamente Superman dei suoi poteri, al fine di poter affrontare Ali in un match alla pari e stabilire chi sarà la sfidante di Hun’ya. È lo scontro del secolo, trasmesso in tutto l’universo. L’Uomo d’Acciaio ha la peggio e Ali viene scelto come sfidante. Al termine di un match emozionante il Campione Terrestre batte Hun’ya. Ma Rat’lar, capo degli Scrubb, livido di rabbia per l’esito della sfida, decide di attaccare lo stesso la Terra: sarà fermato da un recuperato Superman e dallo stesso Hun’ya, deluso dal comportamento scorretto del suo leader. Superman e Ali possono dunque tornare sulla Terra: il Campione rivela all’Uomo d’Acciaio di aver compreso la sua identità segreta e, stringendogli la mano, chiude la rivalità decretando che entrambi sono “i più grandi”.

3kNivKQ

La storia risente molto delle atmosfere da space opera che nel 1978, grazie al successo di Guerre Stellari dell’anno precedente, erano di gran moda. Ma dietro l’apparato fantascientifico è evidente lo sforzo di Adams e O’Neil di tradurre in fiction i valori di cui Ali era convinto sostenitore: il bando ad ogni forma di razzismo, la collaborazione tra bianco e nero, la lotta all’oppressione e all’ingiustizia, il valore del coraggio e del sacrificio, il rispetto nei confronti dell'avversario, che va trattato con onore anche se sconfitto. Un inno alla libertà che risuona ancora oggi, tra le pagine magnificamente illustrate da un michelangiolesco Neal Adams in stato di grazia, autore di anatomie muscolose ma agili e snelle allo stesso tempo, che qui realizzò uno dei suoi lavori migliori. A partire dalla splendida e iconica cover, che ritrae, tra gli spettatori del match tra Superman e Ali, alcuni volti celebri della politica, dello spettacolo, dello sport e della cultura dell’epoca: i Jackson 5, Pelé, Frank Sinatra, Ron Howard, Raquel Welch, Liberace, Christopher Reeve, Lucille Ball, Sonny Bono, Cher, Jimmy Carter, Gerald Ford, Andy Warhol, Kurt Vonnegut, insieme ai vari Batman, Lex Luthor e altri eroi DC nelle loro identità borghesi come Oliver Queen, Hal Jordan e Barry Allen.

Superman Vs. Muhammad Ali è un super-classico che va letto e riletto, un omaggio ad un campione indimenticabile e un’opera che cattura in modo unico lo spirito di un’epoca… quando eravamo Re.

Sottoscrivi questo feed RSS