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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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Dracula di Bram Stoker, recensione: Attraversare gli oceani del tempo

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Nel 1992 usciva nelle sale statunitensi Dracula di Bram Stoker, capolavoro di Francis Ford Coppola consegnato alla leggenda come la versione cinematografica definitiva del mito del vampiro. Stretto temporalmente tra l’uscita di due film rivoluzionari sotto il profilo degli effetti speciali, Terminator 2 del 1991 e Jurassic Park del 1993, il film di Coppola era al contrario una dichiarazione d’amore per il cinema d’origini: location d’atmosfera rigorosamente ricostruite in studio, effetti speciali volutamente tradizionali e artifici retrò da cinematografia dei primi anni del ‘900. Gary Oldman, che col suo Dracula dandy e romantico raggiunse la notorietà internazionale, guidava un cast straordinario composto, tra gli altri, da Anthony Hopkins nel ruolo di Abraham Van Helsing, Keanu Reeves nei panni di Jonathan Harker e Winona Ryder in quelli di Mina Murray. Coppola prese le distanze tanto dalle versioni cinematografiche classiche della Universal e della Hammer quanto dalla commedia teatrale di Hamilton Deane che le aveva ispirate, rifacendosi alle atmosfere brumose del romanzo di Stoker. Il Conte tornava ad essere la presenza terrificante tuttavia seducente immaginata dal romanziere irlandese: il regista de Il Padrino ne accentuò oltretutto la sensualità, aggiungendo una tormentata love story tra il vampiro e Mina, rivelatasi la reincarnazione di un amore perduto, concedendosi un’importante licenza poetica rispetto al testo originale. Il film ricevette un’accoglienza entusiasta da parte di pubblico e critica, e si impose subito come un classico moderno. Rivisto oggi, il film non ha perso nulla del suo fascino e, a 27 anni dalla sua uscita, resta una pietra miliare del cinema fantastico/horror.

Nel periodo in cui la pellicola uscì nelle sale, il mondo del fumetto statunitense conosceva il suo momento di massima esplosione commerciale. Pochi anni più tardi l’aumento delle vendite registrate agli inizi degli anni ’90 grazie a fenomeni come il debutto del consorzio Image e a stratagemmi commerciali come l’introduzione delle variant cover si sarebbe rivelata il frutto di un’effimera bolla speculativa. Ciò nonostante, molti editori si lanciarono nel mondo del fumetto convinti di poter fare buoni affari. Tra questi la Topps Company, azienda leader nel settore delle trading cards, nonché di chewing-gum e dolciumi, che lanciò la sua divisione specializzata in comics proprio nel 1992 con la versione a fumetti di Bram Stoker’s Dracula. Tradurre in fumetto Dracula, oltretutto, aveva una sua logica intrinseca: la Nona Arte è coeva del cinematografo e dello stesso mito del vampiro.

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Per realizzare la propria trasposizione su carta del film di Coppola, la Topps fece le cose in grande. Ai testi venne chiamato un veterano dell’industria come Roy Thomas, il successore di Stan Lee come redattore capo alla Marvel e autore di classiche “run” di Avengers e Conan The Barbarian, mentre i disegni vennero affidati ad un artista già allora di culto, non molto prolifico ma capace di rendere un evento qualsiasi opera a cui avesse lavorato: Mike Mignola. Dopo aver svolto la necessaria gavetta negli anni ’80 alla Marvel su serie come The Incredible Hulk e Alpha Flight, Mignola aveva raggiunto la consacrazione alla DC, grazie a lavori come Cosmic Odissey e, soprattutto Batman: Gotham By Gaslight, in cui immagina lo scontro tra il Cavaliere Oscuro e Jack lo Squartatore in una Gotham di fine ‘800. L’opera rivela la naturale inclinazione dell’artista per le atmosfere gotiche e misteriose, così come la coeva graphic novel Doctor Strange & Doctor Doom: Triumph & Torment realizzata per la Marvel ne mostra inequivocabilmente la fascinazione per gli elementi esoterici. Tutti ingredienti che ritroveremo nel suo Hellboy, la sua creazione più celebre di cui questo Dracula di Bram Stoker è considerato una sorta di prova generale. L’autore rappresentava oltretutto il vero anello di congiunzione tra film e fumetto, per il quale aveva lavorato come illustratore.

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L'opera di Thomas e Mignola è basata fedelmente sulla sceneggiatura del capolavoro di Coppola, scritta da James V. Hart, di cui ripropone anche sequenze e inquadrature diventate ormai iconiche; ciò nonostante, questo Dracula non è una pedissequa trasposizione su carta della pellicola omonima, ma la tavolozza sulla quale l’arte e la carriera del cartoonist prendono definitivamente il volo. Lo stile di Mignola, definito da Alan Moore come “un incrocio tra l’espressionismo tedesco e Jack Kirby”, ai tempi di Dracula di Bram Stoker era arrivato al termine di un importante percorso di crescita artistica. Il suo tratto si era fatto più spigoloso ed essenziale, mentre il gusto per figure mostruose e deformi tipiche dei b-movie aveva ormai prevalso sul tradizionale canone supereroistico esibito sulle collane degli esordi. È proprio nell’adattamento della pellicola di Coppola che l’artista prende definitivamente consapevolezza dei suoi mezzi e fissa quello stile, sospeso tra luci e tenebre, che diventerà il suo marchio di fabbrica. Giochi d’ombre, forti contrasti tra bianchi e neri che fanno si che i personaggi non vengano mai completamente illuminati ma restino celati, seppur perfettamente riconoscibili, nel nero delle chine. Il tutto crea una fortissima drammatizzazione delle immagini che risultano di notevole impatto emotivo, dando luogo a tavole evocative che ben rendono l’atmosfera romantica, orrorifica e a tratti onirica del lungometraggio di partenza. Con spirito di servizio, Roy Thomas si mette completamente a disposizione del progetto, con testi che riprendono i passaggi e i dialoghi più salienti della pellicola. Dracula inaugurò una nuova fase della carriera del veterano della Marvel per la quale, in anni successivi, scriverà una serie di adattamenti a fumetti di Classici Illustrati della letteratura.

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Dopo essere stato fuori catalogo per quasi 27 anni (Star Comics lo pubblicò in un ricercatissimo speciale fuori serie della collana Hyperion  nel 1993), Dracula di Bram Stoker torna a disposizione dei lettori in una elegante veste cartonata grazie a Panini Comics, in una veste che esalta la grandissima qualità del lavoro di Thomas e Mignola. Un’occasione unica per rivivere le emozioni di una pellicola epocale che anticipò il discorso, oggi molto in voga, della contaminazione tra cinema e fumetto.

X-Force - Peccati del Passato, recensione: Una Forza con cui fare i conti

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C’erano una volta i Nuovi Mutanti, team di giovani reclute degli X-Men formato da Charles Xavier in un momento in cui la squadra principale era scomparsa dopo una missione nello spazio. Scritta dal “demiurgo” delle vicende mutanti, Chris Claremont, New Mutants entrò ben presto nelle preferenze dei lettori più giovani, che vedevano nelle insicurezze dei giovani Cannonball, Sunspot, Mirage, Karma, Wolfsbane, Magik e degli altri membri del gruppo un riflesso romanzato delle proprie. Il gruppo fece della Scuola per Giovani Dotati di Xavier la sua residenza anche dopo lo scontato ritorno di Ciclope, Wolverine, Tempesta e degli altri X-Men, condividendo l’ideale del Professore di pacifica convivenza tra umani e mutanti e dell’integrazione nella società di questi ultimi.

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Sul finire degli anni ’80, una nuova generazione di artisti fece irruzione sulla scena statunitense, imponendo una concezione aggressiva e muscolare della narrazione a fumetti. Gente come Jim Lee, Todd McFarlane e Rob Liefeld, che rilevò New Mutants modificandone il DNA. Cable, il guerriero proveniente dal futuro (che più tardi si scoprirà essere Nathan Cristopher Summers, il figlio perduto di Ciclope), personaggio simbolo degli anni ’90 al pari dell’altra creazione celebre di Liefeld, Deadpool, prese sotto la sua ala i Nuovi Mutanti, trasformandoli in poco tempo in un gruppo paramilitare chiamato X-Force. La testata omonima, che debuttò nel 1991 segnando un record di vendite, incarnava nel bene e nel male gli stereotipi più tamarri del periodo. Cable, un tizio armato fino ai denti con fucili più grandi di lui e un set di tasche per tutti gli usi che ne corredava l’uniforme, stravolse la formazione del gruppo aggiungendo membri ritenuti più adatti al nuovo corso: gente come Domino, mercenaria sua vecchia fiamma, Warpath, il guerriero apache e Shatterstar, lo spadaccino proveniente da un’altra dimensione. Negli anni successivi il nome “X-Force” sarebbe stato assunto anche da altre squadre che poco avevano a che fare con quella di partenza; i membri del team originale, oltre a restare i preferiti dei lettori, mantennero un legame di amicizia che portò a svariati revival, l’ultimo dei quali è appena uscito per Panini Comics.

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La nuova serie di X-Force prende le mosse dai fatti narrati in Exterminaton, “evento” mutante con il quale lo sceneggiatore Ed Brisson ha risolto la vicenda legata alla presenza nel nostro presente dei cinque X-Men originali, prelevati incautamente dal passato da Hank McCoy, Bestia. Nei cinque numeri della miniserie, una versione più giovane di Cable, l’ex leader di X-Force, si adopera per rispedire i cinque mutanti nel passato, per salvaguardare il continuum spazio temporale messo a repentaglio dal loro arrivo nel presente. Nel farlo, “Kid Cable” arriva ad assassinare la sua controparte adulta, colpevole di essere venuto meno al suo compito di vigilare sulle anomalie temporali, scatenando le ire dei suoi vecchi compagni di squadra. Peccati del Passato, il primo arco narrativo presentato da Panini Comics in un volume brossurato, inizia proprio con la caccia a Kid Cable da parte della vecchia X-Force, riformatasi per l’occasione. Domino guida sul campo una formazione classica formata da Cannonball, Warpath, Shatterstar, Warpath e Meldown. La squadra segue le tracce della versione più giovane del loro leader deceduto fino in Transia, stato fittizio dell’Europa dell’Est, per vendicarsi dell’omicidio del loro amico. X-Force riuscirà ad incrociare la strada del giovane Cable, ma le due fazioni saranno costrette ad un’alleanza imprevista quando scopriranno che, in seguito ad un colpo di stato, la Transia ha abbandonato la politica di accoglienza verso i mutanti adottata fino a quel momento per organizzare dei veri e propri campi di sterminio. Il tutto organizzato, dietro le quinte, da un viaggiatore temporale vecchio avversario degli X-Men.

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X-Force - Peccati del Passato mantiene quello che promette: un ritorno alle atmosfere action anni ’90 che hanno fatto la storia del gruppo. Ed Brisson, uno degli architetti delle vicende mutanti degli ultimi anni, confeziona una storia avvincente che ha certamente nel ritorno dell’amata versione classica della squadra il suo piatto forte, ma che non si limita solamente a una nostalgica reunion. Lo sceneggiatore fa in tempo ad adombrare, dietro la situazione politica dell’immaginaria Transia, lo spettro dei rigurgiti d’intolleranza da cui è attraversato oggi il mondo, prima di lasciarsi andare ad un po’ di azione tamarra com’è nella tradizione del gruppo, che non ha certo la diplomazia tra le sue caratteristiche precipue. Alle matite Dylan Burnett, disegnatore della hit a sorpresa Cosmic Ghost Rider traduce con tavole dinamiche e frenetiche lo script dal ritmo indiavolato di Brisson. Spionaggio, fantascienza, viaggi nel tempo, il ritorno di un personaggio cult come Deathlok e un cliffhanger finale che mette in scena la riapparizione delle nemesi classica del gruppo rendono questo nuovo corso della Forza X una lettura da non perdere per tutti i fan delle saghe mutanti e non solo.

Gli Incredibili X-Men 5-9, recensione: l'epilogo del breve e intenso ciclo di Rosenberg e Larroca

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Nell’autunno del 2017 il sito di informazione fumettistica BleedingCool riportò un rumor di una certa rilevanza: secondo il portale Ike Perlmutter, CEO della Marvel, era l’uomo dietro il ridimensionamento che la linea editoriale degli X-Men stava sperimentando da qualche anno. Come motivo della drastica decisione ci sarebbe stata l’avversione di Perlmutter nei confronti della 20th Century Fox, studio fino a quel momento detentore dei diritti di sfruttamento cinematografico dei mutanti di casa Marvel, pronto ad approfittare degli sforzi editoriali della Casa delle Idee sfruttandone i personaggi per il suo franchise cinematografico. Si verificò così la classica situazione del marito che si taglia gli attributi per far dispetto alla moglie: l’editore iniziò un sabotaggio consapevole del marchio più prestigioso e remunerativo della sua storia, affidando le testate con la “X” ad autori di secondo piano che le fecero scivolare agli ultimi posti tra le preferenze del pubblico. In poche parole, il periodo “Gold” e “Blue” che non ha lasciato certo una buon ricordo. Un vero e proprio scempio editoriale e un dolore per milioni di fan cresciuti con le saghe mutanti che, fin dai tempi di Chris Claremont, hanno incollato alla sedia generazioni di lettori. Finché l’acquisizione della Fox da parte di Disney, proprietaria della Marvel, ha nuovamente cambiato le carte in tavola.

Con gli X-Men finalmente a casa e nella disponibilità dei Marvel Studios di Kevin Feige, che provvederà a introdurli nel Marvel Cinematic Universe nei prossimi anni, era arrivato il momento di rilanciare i mutanti anche nei cari, vecchi fumetti. L’operazione non si presentava come delle più semplici, soprattutto a causa di scelte creative discutibili che negli ultimi anni avevano reso l’universo degli X-Men irriconoscibile, con lutti che avevano tolto dalla scena pilastri come Xavier, Ciclope e Wolverine e la presenza di una versione giovanile dei cinque X-Men originali trasportati nella nostra epoca per volere di un Brian Michael Bendis mai così fuori forma come nella sua gestione delle serie mutanti. La rinascita della linea degli X-Men doveva passare attraverso delle fasi preliminari, come il ritorno degli “original five” nella loro epoca, e l’opportuna resurrezione non solo dei tre personaggi fondamentali prima citati, ma addirittura di quella Jean Grey deceduta al termine del fondamentale ciclo di Grant Morrison di inizio anni duemila.

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Le tappe di questo assestamento della linea mutante sono state coordinate da un gruppo di giovani autori a cui la Marvel ha voluto dare fiducia, come Ed Brisson, Kelly Thompson e soprattutto Matthew Rosenberg. Quest’ultimo è stato il responsabile del ritorno in scena di Jean Grey nella miniserie Phoenix Resurrection, una storia dall’esito scontato fin dal titolo che lo sceneggiatore è riuscito a gestire in maniera non banale, conferendogli un’inedita atmosfera da film di David Lynch. Nonostante già dall’estate 2018 si mormorasse di un coinvolgimento di Jonathan Hickman, reduce dai fasti di Avengers e Secret Wars, nel reboot di Uncanny X-Men, la testata uscì a sorpresa con i testi del triumvirato formato da Rosenberg, Brisson e Thompson. L’accoglienza riservata alla serie non fu all’altezza delle attese suscitate, un po’ perché la saga di debutto, X-Men Divisi, sapeva di già visto e si concludeva con l’esilio di alcuni tra i principali membri della squadra nell’ennesima realtà alternativa creata questa volta da Nate Grey, X-Man, un po’ perché il vero rilancio dell’universo mutante a firma Jonathan Hickman venne annunciato ufficialmente mentre questa nuova, controversa saga era in corso, sabotandone ogni attrattiva residua. Brisson, Rosenberg e la Thompson erano quindi dei semplici traghettatori, in attesa che il quotatissimo Hickman prendesse in mano le sorti degli X-Men. In attesa del nuovo demiurgo, nessuno sospettava che l’ammiraglia delle serie mutanti avesse in canna un ultimo acuto prima del passaggio di consegne.

Con Jean Grey, Tempesta, Colosso, Nightcrawler e la maggioranza degli X-Men esiliati nella realtà alternativa di Age of X-Man, venne affidato al solo Matthew Rosenberg il compito di raccontare il ritorno di uno spaesato Ciclope e di Wolverine in un mondo privo della maggior parte dei loro compagni di squadra. A fare compagnia allo scrittore, un artista che ha fatto la storia del franchise mutante a cavallo tra gli anni ’90 e 2000: Salvador Larroca. Nei pochi numeri a disposizione prima dell’arrivo di Hickman, i due hanno creato una sequenza di storie mozzafiato.

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Tornato in vita grazie all’intervento combinato della Forza Fenice e del figlio proveniente dal futuro, Cable, Scott Summers alias Ciclope si aggira in un’America che non riconosce più, nonostante siano passati pochi mesi dalla sua dipartita narrata in Death of X. L’ex leader degli X-Men si mette in cerca dei suoi compagni di squadra, che sembrano essere svaniti nel nulla. La sua ricerca attira l’attenzione di vecchi avversari come Donald Pierce e i cyborg assassini noti come Reavers, che gli tendono un agguato. Ma quando la situazione sembra precipitare, Scott riceve l’aiuto inaspettato di Wolverine, tornato a sua volta in vita nella miniserie Return of Wolverine. Dopo aver sgominato i vecchi avversari, i due decidono di radunare quello che resta degli X-Men. Per quello che ne sanno, la maggior parte dei loro compagni di squadra è passata a miglior vita, ignorando che sono prigionieri della realtà di Age of X-Man. Scott e Logan riescono a rintracciare e a coinvolgere nel loro progetto di rimettere insieme la squadra alcune vecchie conoscenze come Havok, Madrox l’Uomo Multiplo e quel che resta dei Nuovi Mutanti: Magik, Moonstar, Karma e Wolfsbane. Ciclope stila una lista di vecchi avversari ancora in giro, mine vaganti a piede libero da troppo tempo, e convince il resto della squadra a passare all’azione. Le cose si riveleranno un po più complicate del previsto: bisognerà innanzitutto sopravvivere alla persecuzione del Generale Callahan e del suo O.N.E., unità militare dedita alla caccia e alla sterminio dei mutanti, e al ritorno di una vecchia fiamma di Ciclope che potrebbe aver fatto di nuovo il salto della barricata.

In soli 11 numeri, Rosenberg e Larroca recuperano il mood classico delle migliori storie degli X-Men, dopo anni in cui il franchise è stato allo sbando: puro fan-service che omaggia le atmosfere tradizionali delle serie mutanti, soprattutto la lunga gestione di Chris Claremont. Sapendo di avere a disposizione pochi numeri, Rosenberg mette nel frullatore tutti gli ingredienti che hanno reso la saga degli X-Men la più amata della storia del fumetto americano: come ai tempi di X-Chris, Uncanny X-Men torna a parlare di un gruppo di persone che lotta per trovare il proprio posto in una società che non li vuole. Per puro caso, poi, queste persone sono dotate di superpoteri, sparano raggi concussivi dagli occhi ed estraggono artigli di adamantio dal dorso delle mani lottando per salvare, come recita il celebre adagio, “un mondo che li teme e li odia”. Anche i costumi indossati dai personaggi sono allo stesso tempo un omaggio ai vecchi tempi e un regalo ai lettori, interpellati via social dall’editor Jordan White per sapere quali uniformi avrebbero gradito rivedere. Così Ciclope indossa quella gialla e blu, con immancabili tasche anni ’90, del periodo di Jim Lee, mentre Wolverine torna all’iconico costume marrone ideato da John Byrne negli anni ’80.

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Ma Per Sempre e Ci siamo sempre stati, i due archi narrativi della breve gestione Rosenberg ospitata in Italia nei numeri compresi tra il 5 e il 9 della nuova serie de Incredibili X-Men targata Panini Comics, non sono solo un calco riuscito di alcune tra le migliori storie del passato, tra atmosfere persecutorie e riusciti momenti intimisti: il giovane emulo di Claremont sembra portare avanti anche un interessante discorso meta-fumettistico. I suoi X-Men, pagina dopo pagina, prendono botte da orbi dalle quali non riescono a rialzarsi, denunciando un’inadeguatezza straniante per i fan che da anni aspettavano di rivederli. È come se Rosenberg rassicurasse i lettori restituendo loro i personaggi che volevano nei loro costumi preferiti, ma li tradisse subito dopo dicendo che i tempi sono cambiati e sono diventati troppo cupi e difficili per le tutine sgargianti della loro adolescenza. La sfida raccolta da Ciclope e dalla sua squadra è troppo grande da affrontare con i mezzi del passato, e il finale aperto implica che ci vorrà qualcosa di diverso per parlare, oggi, della questione delle minoranze oppresse celata dietro alla grande metafora mutante. Quel “qualcosa” è il nuovo ciclo di Jonathan Hickman, atteso da enormi aspettative e appena giunto anche da noi.

Nonostante sia stata concepita come un breve intermezzo prima del vero rilancio, la sequenza di storie degli X-Men firmate da Matthew Rosenberg ha colto l’essenza dei personaggi e si avvia a diventare un piccolo cult, anche grazie ai disegni del grande Salvador Larroca, nume tutelare della Marvel degli anni ’90 e della storia degli X-Men. L’artista spagnolo non è nuovo alle testate mutanti: ricordiamo infatti il suo debutto americano in un bel ciclo di Excalibur e, soprattutto, gli X-Treme X-Men realizzati in coppia con Chris Claremont, un nome che, quando si parla di X-Men, salta sempre fuori. La scelta editoriale di far disegnare un ciclo del genere a Larroca è fortemente simbolica: solo un artista così profondamente coinvolto nella storia dei mutanti poteva disegnarlo. E lo spagnolo non tradisce le attese: dopo un primo numero dalla resa cromatica incerta, dovuta soprattutto alla prova discutibile della colorista Rachelle Rosenberg (nessuna parentela con lo scrittore), il disegnatore si sbizzarrisce in tavole piene d’azione e di esplosive splash-page, conferendo al tutto un look anni ’90 che calza a pennello. E quando gli X-Men immortalati da Larroca scendono in campo sotto la guida di Ciclope e Wolverine, la certezza che i ragazzi siano tornati in città è automatica.

Speciale Batman '89: Parte IV - Un ricordo personale

  • Pubblicato in Focus

Parte I - Parte II - Parte III

Tornare con la mente all’uscita italiana del Batman di Tim Burton, avvenuta il 20 ottobre del 1989, significa riportare indietro le lancette della memoria a un’epoca spensierata, tipica dei ragazzini che stanno per affacciarsi all’età adulta senza sapere che quel tempo, che prima non passava mai, presto avrebbe cominciato a correre in maniera inesorabile, senza poter mai più tornare indietro. Nel mio caso, significa ripensare alla mia bellissima città natale, che oggi vive un degrado insopportabile a causa degli interessi sudici di una ristretta cerchia di individui inqualificabili che ne hanno corrotto l’anima. Ironia della sorte, per un fan di Batman come me, Roma sta prendendo giorno dopo giorno le sembianze della Gotham City descritta da Todd Phillips nel bellissimo e recente Joker, un cazzotto nello stomaco al perbenismo e al conformismo di una cinematografia contemporanea stagnante che ha ricevuto elogi e critiche in egual misura. Ma nel 1989 non era così.

All’epoca, Roma era una città che sentivo definire “provinciale” nei discorsi degli adulti, ancora raccolta nella sua anima profondamente popolare. Nel mio quartiere, era possibile incontrare tanto i divi della tv della vicina Rai quanto le famiglie formate da nonni e nipotini che scorrazzavano per le strade e i giardinetti pubblici. Con i miei amici dell’epoca, sfruttavamo la libertà che la fiducia dei nostri genitori e l’anagrafe ormai ci concedevano, girando per il quartiere come la Legione degli Strilloni o la Gang di Yancy Street dei fumetti di Jack Kirby. In un’epoca in cui la felicità non era chiudersi in casa a giocare con la console, citofonare a un amico per fare un giro di palazzo era il nostro divertimento. Calpestavamo i marciapiedi delle nostre strade con la gioia di poter vivere la nostra gioventù insieme. In quegli anni di prime uscite tra ragazzi, il cinema era la meta più gettonata. Rigorosamente al primo spettacolo, si intende, e a casa per le 18. Roma poteva vantare una rete di sale cinematografiche sterminata e di grande fascino. Erano quasi tutte risalenti all’epoca del boom economico, gli anni in cui i cinema erano talmente affollati che spesso ci si ritrovava a guardare il film in piedi. Quelle sale erano le vestigia di un tempo mitico e ormai andato, ed esercitavano su di noi un grande fascino. Sale da 1000-1500 posti a sedere come il mitico Adriano, dove i Beatles si erano esibiti nel lontano 1965. O l’Etoile, il Metropolitan, salotti incastonati in antichi palazzi del centro come il Capranica… Il solo entrare in questi cinema era un’esperienza, tra drappi rossi, sedili di velluto, pomi d’ottone e palchetti in galleria, le mie postazioni preferite. Ti poteva capitare di vedere Robocop o Gli Intoccabili in un teatro in cui, nei primi decenni del secolo, si erano esibiti fior d’attori. Negli anni a venire, la maggior parte di queste sale prestigiose sarebbero state chiuse e, grazie al trucchetto del “cambio di destinazione d’uso”, trasformate in boutique d’alta moda o, addirittura, parcheggi, sale bingo, banche e supermercati. Uno stupro del tessuto urbano e sociale della città, compiuto tra l’indifferenza e la miopia delle varie amministrazioni comunali che si sono succedute da allora.

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A casa mia l’amore per il cinema è sempre stata una questione di famiglia, trasmessa da mio nonno che ci raccontava della grande emozione, vissuta alla fine della guerra, di vedere arrivare tutti insieme i grandi film americani bloccati per anni dal regime. Ma in materia di cinema, mio zio era il mio mentore. La sua stanza, piena di libri sui grandi registi della Hollywood degli anni d’oro come Alfred Hitchcock, biografie di attori e dizionari illustrati sui generi cinematografici, era per me il paese dei balocchi. Fu proprio lui a mettermi al corrente, intorno al 1988, che in America si stava girando un grande film ispirato ai fumetti di Batman. In quegli anni, i fumetti di supereroi in Italia stavano vivendo una rinascita, dopo anni di oblio. Il fallimento dell'Editoriale Corno nel 1984, che per quasi tre lustri aveva pubblicato i fumetti Marvel nel nostro paese, aveva gettato i lettori di comics dell’epoca nello sconforto, compreso il sottoscritto. Per placare la sete di fumetti di supereroi, in anni in cui internet non esisteva, si cercavano arretrati nelle librerie che trattavano materiale usato, si mendicavano le rese delle edicole o si acquistavano albi in lingua originale, che mettevano a dura prova una ancora stentata conoscenza dell’inglese, nelle primissime fumetterie delle grandi città. Poi, improvvisamente, un nuovo inizio. Dopo un effimero tentativo della Labor Comics, nel 1987 la Star Comics di Perugia si assunse l’onere e l’onore di riportare i supereroi americani nelle edicole nostrane, a partire dall’Uomo Ragno. Gli anni di assenza dal nostro paese avevano prodotto un notevole gap temporale tra le storie proposte da noi e quelle in corso di pubblicazione in USA, così in Italia nel 1987 si leggevano storie di fine anni ’70 – primi anni ’80. Ma era materiale destinato a lasciare il segno sulla nostra generazione. In un sol colpo, arrivarono cicli leggendari e memorabili come gli X-Men di Chris Claremont e John Byrne e il Daredevil di Frank Miller. Noi che avevamo scoperto i supereroi da bambini con gli ultimi vagiti della Corno, eravamo ormai degli adolescenti ammaliati dalla bellezza dei disegni di Byrne, dalle trame labirintiche di Claremont, dai noir urbani di Miller. Col cuore a pezzi eravamo testimoni del sacrificio di Jean Grey sulla luna, e della morte di Elektra in una strada sudicia, assassinata da Bullseye. Eravamo diventati adulti.

E Batman? Rispetto alla Marvel, la DC ha sempre avuto una storia editoriale travagliata in Italia. Avevo scoperto il Cavaliere Oscuro da piccolo, negli albi di formato ridotto delle Edizioni Cenisio, il licenziatario italiano per i personaggi DC tra gli anni ’70 e i primi anni ’80. Erano storie disegnate da Jim Aparo, un artista sottovalutato che ha dedicato quasi tutta la carriera al personaggio, riprendendone il look atletico imposto da Neal Adams pochi anni prima. Mi piacevano in particolare le storie tratte dalla testata USA The Brave and the Bold, dove di numero in numero Batman era protagonista di gustosi team-up con gli altri personaggi DC. Erano storie più semplici di quelle Marvel che, anche ad un bambino della mia età, sembravano più moderne e al passo con i tempi. Però Batman aveva un fascino che nessun altro personaggio aveva. In particolare, empatizzavo con lui per via delle sue dolorose origini. Essendo molto legato ai miei genitori, soffrivo terribilmente all’idea di poterli perdere in modo violento. Anche per questo provavo un senso di straniamento davanti alle repliche della celeberrima serie tv che durante gli anni della mia infanzia impazzavano sulle reti tv private: cosa c’era tanto da ridere? Quest’uomo aveva avuto la vita rovinata da un dramma personale. Ero affascinato dalla sua figura di vendicatore notturno, quasi soprannaturale, avvolto nel suo mantello. Un regalo molto gradito, all’epoca, fu un volume con una miscellanea di storie di Batman dalle origini fino agli anni ’70. Potei così fare conoscenza con i grandi autori del personaggio di quel periodo come Denny O’Neil, Neal Adams, Frank Robbins e Irv Novick. Come la Corno, anzi prima della Corno, anche la Cenisio fallì e i personaggi DC furono risucchiati dallo stesso limbo di quelli Marvel. Ma a differenza di questi, avrebbero dovuto aspettare più tempo per tornare nelle edicole italiane. Di Batman e Superman non ebbi notizie per anni.

Un giorno, leggendo le note di un albo Star Comics, venni a sapere che il prestigioso editore Rizzoli aveva già da mesi acquistato i diritti dei due principali personaggi DC per pubblicarli sulla sua rivista antologica di fumetti d’autore Corto Maltese. In particolare, era in corso di pubblicazione la rivoluzionaria Batman: The Dark Knight Returns di cui avevo tanto sentito parlare nei redazionali degli albi dei vari editori, realizzato da quel Frank Miller che tanto apprezzavo su Daredevil. Tra i due lavori erano passati svariati anni, e senza internet a darmi conforto con le immagini, cercavo di immaginare la versione milleriana del Cavaliere Oscuro. Chiesi una copia di Corto Maltese al mio edicolante. Quella che mi ritrovai per le mani era una bellissima rivista patinata, di grande formato, dal taglio autoriale. Mi trovai davanti a lavori di nomi prestigiosi che col tempo avrei imparato ad apprezzare: Hugo Pratt, Milo Manara, Sergio Toppi, Andrea Pazienza, Dino Battaglia tra gli altri. In allegato, al centro della rivista, un inserto di piccolo formato con le avventure di Superman firmate dal John Byrne che avevo adorato su X-Men e di cui leggevo ogni mese gli splendidi Fantastici Quattro. In appendice, era serializzato uno strano fumetto che non capivo appieno perché ne avevo perso l’inizio, come uno che entra in sala a film iniziato: si chiamava Watchmen. Ma di Batman nessuna traccia. Compresi in seguito che la Rizzoli aveva impiegato addirittura un anno e mezzo per pubblicare i quattro capitoli di Dark Knight Returns. Si trattava del piatto forte della rivista e l’editore voleva diluirlo il più possibile.

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Un giorno d’estate del 1989, recandomi in edicola ad acquistare un quotidiano, mi trovai davanti ad un’immagine che mi lasciò a bocca aperta. Alle spalle dell’edicolante, tra riviste di viaggi e di critica letteraria come Millelibri, campeggiava in bella vista il numero del mese di Corto Maltese. Il frontespizio recitava: “Batman – La caduta del Cavaliere Oscuro”. In copertina un Batman appesantito, in là con gli anni, in sella ad un destriero nero come Clint Eastwood in un western di Sergio Leone, sembrava arringare una folla. Feci immediatamente mia la rivista. All’interno, era ospitato l’ultimo capitolo de Il Ritorno del Cavaliere Oscuro. Niente avrebbe potuto prepararmi ai livelli di epicità fuori scala di cui quelle pagine erano impregnate. Questo non era il Batman delle mie letture infantili. Era migliore. Era tutto quello che il personaggio conteneva in nuce, ma elevato all’ennesima potenza. Un Batman invecchiato ed imbolsito che ritorna da un ritiro durato 10 anni, disgustato dalla deriva di una Gotham degradata e violenta, che si ritrova a dichiarare guerra all’ordine precostituito e al governo stesso. Fu leggendo quelle pagine che capii che i comics erano cresciuti con me, e che ero testimone della loro era più splendente. Era bello essere un lettore di fumetti americani nell’estate del 1989. Sembrava un’estate come tante della mia gioventù, trascorse nella casa al mare di famiglia. Estati che sembravano infinite, passate a scorrazzare in bicicletta con gli amici o a frequentare le sale giochi come i ragazzini di Stranger Things.

I mesi estivi di quell’anno, però, li ricordo per l’attesa spasmodica dell’uscita italiana di Batman, prevista per il 20 ottobre. Ricordo le prime foto del film, uscite sul numero di agosto della rivista di cinema Ciak, che mi fecero andare in visibilio. Una sera in cui avevo fatto tardi guardando una puntata del “Costanzo Show”, scoprii per puro caso che dopo la trasmissione venivano trasmessi i trailer dei film in uscita nella nuova stagione. E il primo della sequenza era proprio quello di Batman. L’attacco del filmato era da restare secchi: il Cavaliere Oscuro, alla guida del Batwing, girava intorno ad una torre dallo stile assurdamente gotico per poi gettarsi all’attacco del Joker. C’erano Jack Nicholson, Michael Keaton e Kim Basinger in tutto lo splendore della sua giovinezza. La Batmobile aveva un design da urlo. Era il mondo dei miei sogni di lettore che diventava realtà, dark e cupo come l’umore e l’irrequietezza dei tredicenni che eravamo. Inutile dire che, dopo quella sera, il rito notturno estivo fu quello di aspettare quel trailer che veniva replicato tutte le notti intorno all’una. D’altronde, per Youtube e le sue infinite visualizzazioni avremmo dovuto aspettare ancora molti anni. L'estate del 1989 fu scandita dal ritmo della Batdance di Prince, il cui strepitoso concept album Batman era presenza fissa nello stereo dell'automobile di mio padre, per la sua disperazione. Ricordo l'irresistibile video, in cui il folletto di Minneapolis sembrava divertirsi un mondo, lanciato in anteprima a Deejay Television dal nuovo conduttore della versione estiva della trasmissione, un certo Fiorello.

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Intanto, una dilagante Bat-Mania impazzava per il pianeta. Era impossibile non incontrare qualcuno per strada che non esibisse il bat-logo su una maglietta, una felpa, un cappellino. E ancora tazze, zaini scolastici, diari, quaderni e gadget di qualsiasi tipo. Questo sfruttamento intensivo del merchandising, che oggi costituisce la norma, nasce proprio nel 1989 con Batman. La prima volta che vidi il manifesto del film su un cartellone pubblicitario di dimensioni giganti non potevo credere ai miei occhi. Oggi i supereroi fanno ormai parte della cultura popolare, ma all'epoca avevano compiuto solo sporadiche sortite fuori dal confine angusto dei loro albi in quadricromia. Adesso, davanti ai miei occhi, cominciavano ad invadere il mondo reale. Ricordo uno speciale televisivo, condotto da Red Ronnie e dal compianto Bonvi, in cui vennero mostrate in anteprima sequenze del film alternate ad immagini di Dark Knight, Killing Joke e altri classici del canone batmaniano. I fumetti sbarcavano in televisione, per la prima volta dai tempi di Supergulp, ma venivano trattati con un taglio adulto.

E poi, all’improvviso, arrivò l'autunno e quel 20 ottobre, il giorno della prima di Batman. Mio zio, che condivideva la mia stessa emozione, si offrì di accompagnarmi. Non molto tempo fa, ricordando quel giorno, mi disse che fu in quell'occasione che diventammo più di uno zio e di un nipote: diventammo amici. Fu proprio così. L’anno prima avevamo visto insieme anche Beetlejuice, il nostro primo incontro con l’arte visionaria di Tim Burton, un tipo che stava al cinema degli anni ’80 come la malinconia degli Smiths di Morrissey e la gioiosa tristezza dei Cure di Robert Smith stavano alla musica sguaiata dello stesso decennio. Ricordo l’arrivo al cinema Cola Di Rienzo, la sala del mio quartiere che proiettava il film. Le due vetrine ai lati dell’ingresso principale contenevano una locandina ciascuna del film, con due enormi bat-loghi. Non potevo essere più emozionato. Ci accomodammo in sala e la luce si spense.

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La fanfara di Danny Elfman si preparava subito ad avvolgerci, mentre il logo della Warner Bros si dissolveva. Subito dopo la telecamera iniziava una discesa verso un labirinto oscuro che, alla fine, si scopriva essere il segno di Batman. Come negli ipnotici titoli di testa de La donna che visse due volte di Alfred Hitchcok, Burton ci accompagnava per mano in un mondo onirico. In questo caso, la Gotham City immaginata da lui e dal compianto scenografo Anton Furst, un gioiello di design gotico che fornì il set indispensabile allo scontro tra Batman e il Joker. La scelta di Keaton nel ruolo principale aveva suscitato molte polemiche in patria, ma io ne apprezzai subito l'interpretazione volutamente sotto le righe, anche se finì per farsi rubare la scena dallo straripante Jack Nicholson. Il film era tutto quello che avevo sperato che fosse. Ne amavo ogni aspetto, l'ambientazione fuori dal tempo voluta da Burton soprattutto. Aveva un look da noir anni '40 per quanto riguardava i vestiti, ma i gadget tecnologici di Batman sembravano venire da un futuro possibile. La Gotham City di Furst, poi, era un'opera d'arte indimenticabile, una sintesi conflittuale di stili diversi che richiamava l'espressionismo tedesco e capolavori come Metropolis. Ancora oggi, il film rimane un’esperienza visivamente immersiva ed insuperata. Molti fanno notare la mancanza di coerenza di alcuni punti della sceneggiatura, dovuti soprattutto alle molte riscritture che vennero fatte da diverse mani durante le riprese. Mi sento di dire che nel caso del Batman di Burton, la cosa riveste un’importanza relativa. Perché il Joker sceglie un piano di fuga elaborato come farsi prelevare da un elicottero in cima ad una cattedrale alta centinaia di metri, quando potrebbe semplicemente darsela a gambe per le strade di Gotham? Perché questo dà l’occasione al regista di costruire un inseguimento mozzafiato per le scale del campanile, citando volutamente tra l’altro proprio La donna che visse due volte di Alfred Hitchcok. La sospensione dell’incredulità viaggia di pari passo con la magia del cinema.

La partitura di Danny Elfman per il film divenne iconica, al pari di quella scritta da John Williams per il Superman di Richard Donner. Ancora oggi penso che sia uno dei migliori spartiti mai scritti per il cinema e che sia uno scandalo che non abbia vinto l'Oscar, come successo invece per le incredibili scenografie di Furst. Nei giorni successivi alla visione del film acquistai una copia della colonna sonora strumentale di Elfman, come avevo fatto un paio di mesi prima per l'album di Prince. Inserivo nel mio walkman tanto il Batman Theme di uno quanto The Future e Vicki Waiting dell'altro e me ne andavo in giro per le strade del quartiere illuminate da vecchi lampioni dalla luce soffusa immaginando di essere a Gotham.
Quel pomeriggio del 20 ottobre 1989 uscii dal cinema Cola di Rienzo felicissimo per aver visto il film che tanto avevo desiderato, ma anche triste perché sapevo già che difficilmente avrei assistito, negli anni successivi, a un progetto epocale come quello. Perché Batman è stato il film che ha dato prestigio e rispetto al genere degli adattamenti cinematografici dei fumetti, sconfiggendo i pregiudizi e la diffidenza che avevano confinato il genere al triste settore dei b-movies, preparando allo stesso tempo la strada ai cinecomic moderni. Fu qualcosa che all’epoca non si era mai visto prima. La visione artistica di Tim Burton, Anton Furst e degli altri creativi coinvolti ci ha regalato un’opera in cui ci si addentra rimanendone avvolti e catturati, oggi come ieri.

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Quando rivedo il film riprovo le stesse emozioni di quel pomeriggio di trent’anni fa, anche se intorno a me è tutto cambiato. Come un Bruce Wayne legato alla sua Gotham, o un Matt Murdock alla sua Hell’s Kitchen, ogni tanto torno a passeggiare nel quartiere dove sono nato e cresciuto, arrivando fino alla sua arteria principale, in cui una volta c’era un cinema col suo stesso nome. Da qualche anno il Cola Di Rienzo non c’è più, e una sala bingo ha preso il suo posto. Quando ci passo davanti, non posso fare a meno di ripensare all’emozione di quel giorno, e di rivedere tutto com’era. Mi vedo ancora entrare in sala, per immergermi nel mondo dei miei sogni. In un certo senso, non ne sono mai più uscito.

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