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Luca Tomassini

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Speciale Batman '89: Parte III - L'avant - garde della nuova estetica

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Parte I - Parte II

Tim Burton cominciò a lavorare al film mentre girava Beetlejuice – Spiritello Porcello, commedia soprannaturale con venature horror che confermò il suo gusto per l’umorismo nero e per i personaggi stravaganti. Nei piani della Warner, la pellicola doveva essere una sorta di esame di maturità per il giovane regista prima di affrontare le riprese di Batman e avrebbe dovuto fornire allo studio la prova della bontà della scelta fatta. Prima di iniziare davvero a lavorare sul film, Burton dovette sbarazzarsi delle tracce lasciate da chi aveva lavorato al film prima del suo arrivo. Prima tra tutte, la sceneggiatura di Tom Mankiewicz. Il suo script di Batman prendeva in prestito la struttura con cui aveva realizzato, anni prima, la sceneggiatura del Superman di Richard Donner. I genitori di Bruce Wayne morivano durante la seconda scena, dopodiché il film si sarebbe concentrato sull’allenamento fisico e mentale necessario per trasformare il giovane Bruce in Batman. La seconda parte della pellicola avrebbe visto Bruce coinvolto in un triangolo amoroso con la bella Silver St. Cloud e il gangster Rupert Thorne, responsabile della morte dei suoi genitori, che si sarebbe servito del Joker come arma contro il Cavaliere Oscuro. La storia concepita da Mankiewicz era una origin story piuttosto standard, simile per struttura a molti cinecomic che sarebbero stati girati in seguito, ma lontana anni luce dalla visione di Burton. Il copione doveva essere completamente riscritto. Serviva un autore che condividesse la stessa visione del filmaker.

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Fu Bonni Lee a presentare a Burton Sam Hamm, un giovane sceneggiatore che finora aveva venduto una sola sceneggiatura, quella di Mai gridare al lupo (1983). Hamm aveva saputo che la Warner stava lavorando a Batman, e aveva pregato per mesi la Lee di dargli la chance di adattare il mito del Cavaliere Oscuro per il grande schermo. La sintonia fra Burton e Hamm fu immediata e totale. Grazie al lavoro del duo, Batman si trasformò dalla origin story prevista inizialmente alla storia di una leggenda urbana di cui tutta Gotham parla, una creatura della notte che perseguita i criminali, come nella visione di partenza di Uslan. Inoltre, Hamm sostituì i personaggi di Silver St. Cloud e Rupert Thorne, che provenivano dalla run fumettistica di Steve Englehart e Marshall Rogers, rispettivamente con Vicki Vale, giornalista e vecchia fiamma di Bruce Wayne nei fumetti, e Carl Grissom, boss mafioso di sua creazione. Nella prima pagina del nuovo script, Gotham City veniva descritta come “se l’inferno fosse sbucato fuori dal terreno e continuasse a proliferare”. Per visualizzare sullo schermo l’efficace descrizione di Gotham proposta nella sceneggiatura di Hamm, Burton chiese ed ottenne la collaborazione di uno scenografo che stimava molto e che aveva sperato di coinvolgere senza successo in Beetlejuice: Anton Furst.

Furst era, oltre che un rinomato scenografo, uno studioso ed esperto di design, con una vasta conoscenza di stili architettonici internazionali. Burton gli spiegò che, nella sua visione, Gotham era essenzialmente una New York cresciuta senza alcun piano regolatore, con ammassi di edifici stipati e costruiti in verticale. Furst era sulla stessa lunghezza d’onda del regista. Seguendo le sue indicazioni, optò per un mash-up conflittuale di stili, ispirato tanto al futurismo post-moderno dell’architetto giapponese Shin Takamatsu quanto all’espressionismo tedesco e all’opera del tedesco Albert Speer, architetto del Reich: il tutto con una spruzzata retrò della New York decò anni ’40. La giustapposizione di questi stili faceva si che gli elementi fossero pressati nello spazio per farli sembrare opprimenti. L’idea di Burton e Furst era quella di creare per i personaggi di Batman un universo che fosse tutto loro, convinti che quello che non aveva funzionato nel Superman di Donner era stata la scelta di girare gli esterni nella vera New York. Nella concezione del duo, i personaggi del film erano così estremi che avevano bisogno di un ambiente costruito appositamente per loro. Questa Gotham era un luogo dove una creatura della notte come Batman e una inarrestabile forza del caos come il Joker potevano avere un senso. Un posto oscuro, violento e senza tempo. Un misto di passato, presente e futuro concepito in modo che nessuno potesse stabilire l’epoca in cui il film fosse ambientato. Come risultato di questa felice scelta creativa, il film è visivamente intrigante ancora oggi ed è, come la sua Gotham, senza tempo. Il contributo di Anton Furst a Batman sarà determinante per la riuscita del film, secondo solo a quello di Burton, e la sua versione di Gotham City diventerà talmente iconica da influenzare addirittura il fumetto di provenienza. Benjamin Melkiner confiderà a Micheal Uslan che di fronte alla Gotham di Furst anche il monumentale set di Ben-Hur, da lui prodotto, sarebbe impallidito. Il look impresso dallo scenografo inglese alla pellicola avrebbe ispirato lo stile dark decò, utilizzato da Bruce Timm e Paul Dini per la splendida Batman: The Animated Series, capolavoro d’animazione trasmesso a partire dal 1992 che continuerà il discorso stilistico iniziato dalla pellicola di Burton.
Potete vedere alcune immagini nella gallery in basso.

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Grazie al contributo di Furst, Gotham diventò a tutti gli effetti un “personaggio” del film. A questo punto bisognava trovare un Batman credibile. Negli anni precedenti all’arrivo di Burton, erano stati considerati per il ruolo tutti i principali attori del periodo, soprattutto star di film d’azione: Harrison Ford, Tom Selleck, Kevin Costner e Dennis Quaid. A un certo punto, Mel Gibson fu molto vicino ad ottenere la parte. Ma Burton non era d’accordo. Nella sua visione, non c’era un solo motivo al mondo per cui una nerboruta star d’azione, con un fisico alla Stallone o alla Schwarzenegger, avrebbe dovuto mettersi un costume da pipistrello. Serviva qualcuno che potesse trasmettere al pubblico solamente con lo sguardo la sensazione di essere un uomo segnato da una tragedia. Un uomo che, per dirla con le parole del regista, “avesse negli occhi l’energia selvaggia di uno che è costretto a indossare un vestito da pipistrello. L’idea è che se avesse trovato un buon analista non si sarebbe mai travestito da pipistrello. Non l’ha trovato, quindi è questa la sua terapia”. La scelta di Burton cadde sulla star della sua ultima fatica, Beetlejuice, un attore fino a quel momento conosciuto dal grande pubblico soprattutto per le sue doti di commediante: Micheal Keaton. Ma appena la Warner annunciò che la star di Mister Mamma, Night Shift – Turno di notte e Gung-Ho avrebbe interpretato Batman, gli appassionati del fumetto reagirono scandalizzati. Lo studio venne inondato da cinquantamila lettere di protesta. Esattamente quello che accadde quasi trent’anni dopo col casting di Ben Affleck prima e Robert Pattinson dopo, ma senza che ci fossero internet o i social a veicolare gli umori negativi del pubblico. Il caso montò come la panna, tanto che il prestigioso Wall Street Journal dedicò un articolo in prima pagina alla vicenda. Le azioni della Warner subirono un tracollo. I fan temevano che il coinvolgimento di Keaton comportasse una sterzata del progetto verso un tono comico e farsesco. In breve, un ritorno alle atmosfere della serie tv.

Tra i fan atterriti dalla scelta c’era anche Micheal Uslan. Proprio quando tutte le tessere del mosaico sembravano mettersi a posto, il produttore non riusciva ad accettare la scelta di Keaton. Troppo grande era la paura che il suo desiderio di vedere un Batman finalmente dark sullo schermo venisse compromesso. Ma Burton lo rassicurò invitandolo alla proiezione di un montaggio preliminare di Fuori dal tunnel (Clean and Sober), un film drammatico non ancora uscito in cui Keaton interpretava un agente immobiliare alle prese con l’abuso di sostanze, una deviazione dalle commedie per cui l’attore era conosciuto in precedenza. Dopo aver visto la prova notevole di Keaton in questo film, Uslan si convinse delle eccellenti doti interpretative dell’attore. Burton spiegò al produttore che la chiave per interpretare Batman non era una mascella quadrata, ma fornire una versione credibile di Bruce Wayne: Wayne era la chiave del film, non il suo alter-ego. Un uomo talmente ossessionato da essere quasi psicotico, compulsivo nel suo bisogno di uscire di notte vestito da pipistrello e picchiare i criminali. Un uomo terrorizzato dalla possibilità di essere salvato dall’amore di Vicki Vale, che potrebbe distrarlo dalla sua missione. Un uomo che nasconde un segreto, la cui origine è limitata ad un breve flashback. Keaton chiese e ottenne inoltre che alcune battute del personaggio fossero tagliate per aumentare l’aura di mistero intorno al personaggio. Quando il film uscì, tutti dovettero ricredersi dei pregiudizi iniziali e amarono la performance dell’attore. Il Bruce Wayne assorto e pensieroso di Micheal Keaton è oggi considerato un classico.

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La Warner aspettava di poter valutare l’esito commerciale di Beetlejuice prima di dare il semaforo verde alle riprese di Batman. Una volta assicuratosi del successo della pellicola, lo studio diede l’ok al sospirato lungometraggio sul Cavaliere Oscuro. Ma gli studi Warner di Burbank non potevano ospitare l’enorme set di Gotham City costruito da Anton Furst e dai suoi collaboratori. Jon Peters e Peter Guber scelsero quindi di trasferire la troupe in Inghilterra, presso gli studi Pinewood, per due motivi: risparmiare sui costi grazie ad una minore tassazione e, soprattutto, allontanarsi dalla pressione e dalle aspettative da cui il film era circondato. Le riprese iniziarono ufficialmente nell’ottobre del 1988 e si protrassero fino al gennaio successivo. Tim Burton, che aveva solo 30 anni e due piccoli film all’attivo, si trovava a gestire uno dei budget più ingenti forniti adun regista nella storia del cinema e un progetto complesso e ambizioso da traghettare in porto.

Le riprese non furono esenti da difficoltà. Il copione aveva bisogno di continue correzioni, ma uno sciopero del sindacato degli sceneggiatori a cui apparteneva bloccò Sam Hamm in USA, impedendogli di partecipare alla riprese. Le integrazioni necessarie vennero effettuate da Warren Skaaren e Charles McKeown, che approfondirono lo spessore psicologico di Bruce Wayne ma si lasciarono andare ad alcune "licenze poetiche", vedi il ruolo del Joker nella morte dei coniugi Wayne. A pochi giorni dall’inizio delle riprese Sean Young, scelta per la parte di Vicki Vale, cadde da cavallo e si ruppe una gamba. In quella che fu una provvidenziale e azzeccatissima scelta di casting, una delle più grandi dive del decennio, Kim Basinger, venne chiamata per sostituirla. L’attrice accettò dall’oggi al domani, volando immediatamente a Londra. La Basinger conferì al suo personaggio, oltre alla sua straordinaria bellezza, sensualità, fascino e carisma. Il cast fu completato da Billy Dee Williams (Harvey Dent), Pat Hingle (Jim Gordon), Micheal Gough (Alfred), Robert Wuhl (Alexander Knox) e Jack Palance (Carl Grissom).

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Le condizioni di lavoro sul set furono particolarmente probanti. Per conferire al film l’aspetto notturno desiderato dall’autore e dalla produzione, si girò di notte per tre mesi, nel freddo inverno inglese, e per tutto il tempo la troupe non vide mai la luce del sole. Al costumista Bob Ringwood toccò il compito di ridisegnare il costume di Batman, in modo che risultasse credibile nonostante fosse indossato da un attore dal fisico ordinario come Keaton. Il blu venne trasformato in nero e vennero aggiunte delle fasce muscolari nella zona addominale. Il cambiamento venne contestato dai fan, ma ironicamente il Batman dei fumetti avrebbe adottato lo stesso look a metà degli anni ’90, quando Bruce Wayne tornò a vestire i panni del Cavaliere Oscuro dopo l’esilio forzato a seguito della saga Knightfall. Nessuno ebbe invece nulla da dire sull’aspetto della Batmobile, concepito con il suo consueto gusto art decò da Anton Furst e costruita da Julian Caldow e dal suo team, utilizzando come base una Chrevrolet Impala sulla quale vennero montate delle mitragliatrici Browning.

Intanto, sul set, non tutto filava per il verso giusto. Leggendarie furono le intemperanze di Jon Peters, che Burton riuscì a contenere con l’abilità di un veterano. Tra le tante obiezioni di Peters, una riguardava il compositore scelto dal regista per scrivere la colonna sonora, Danny Elfman, leader del gruppo Oingo Boingo alla sua terza collaborazione con Burton. Le perplessità del produttore svanirono quando Burton lo invitò ad ascoltare, in diretta, l’orchestra che eseguiva la “marcia” di Batman diretta da Elfman. Secondo i presenti, Peters scoppiò a piangere commosso e col suo cellulare chiamò i dirigenti della Warner in USA per fargli ascoltare quello che sarebbe diventato uno dei più iconici commenti musicali cinematografici di tutti i tempi. La sinfonia composta da Elfman era insieme misteriosa, eroica, cupa, avventurosa, commovente e lirica. Il contributo del musicista si rivelerà determinante per la riuscita del film. Peters volle raccogliere tutta la musica scritta da Elfman per il film in un album che riscosse un enorme successo. Ma un altro musicista, una delle icone musicali del periodo, contribuì con entusiasmo alla pellicola: Prince.

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Il caso volle che Mark Canton, uno dei produttori associati del film, fosse stato anche il produttore di Purple Rain e pensasse che coinvolgere Prince sarebbe stata una grande mossa commerciale. La Warner, che aveva il musicista sotto contratto, fu entusiasta dell’idea. Meno entusiasta fu Burton, che aveva paura di penalizzare la musica di Elfman; oltretutto il regista voleva realizzare una pellicola non facilmente connotabile in un’epoca precisa e temeva che la presenza delle canzoni di Prince avrebbe causato proprio questo. Ma il dado era ormai tratto: il folletto di Minneapolis, dopo una visita entusiastica al set londinese, si mise al lavoro gettandosi a capofitto nell’atmosfera di Gotham City. Il risultato fu un concept-album di straordinario successo, intitolato semplicemente Batman. Batdance, il singolo di lancio, esplose come una bomba nell’estate dell’89. Nel video, Prince interpretava Gemini, un personaggio di sua creazione, un essere per metà Batman e metà Joker. Burton inserì alcune delle canzoni dell’album nel film, per la gioia della Warner Bros. che vendette milioni di copie di questo secondo LP associato al film.

Il regista riuscì a portare a termine la lavorazione del film, nonostante alcune divergenze creative con la produzione che lo amareggeranno e lo spingeranno a riprendere la strada di Gotham con Batman – Il Ritorno del 1992, una pellicola ancora più dark e pessimista del prototipo ma più vicina alla sensibilità del suo autore.
Batman uscì negli Stati Uniti il 23 giugno 1989, ottenendo un successo clamoroso. Divenne il primo film a superare la barriera dei 100 milioni di dollari nei primi 10 giorni di programmazione. Fu il maggior incasso del 1989, raccogliendo oltre 500 milioni di dollari in tutto il mondo, e il maggior successo in assoluto nella storia della Warner Bros., oltre che un fenomeno culturale multimediale e di merchandising quale mai si era visto prima. Il pianeta venne travolto da una Bat-mania dilagante. Nelle strade delle maggiori città era impossibile non incrociare persone con addosso magliette, felpe e cappellini con il logo di Batman. Ovunque si ascoltava tanto il commento musicale di Elfman quanto le canzoni di Prince. Michael Uslan raccontò di aver capito quanto il film fosse penetrato nella cultura popolare quando, assistendo in tv ad un servizio sulla caduta del Muro di Berlino, vide che uno dei ragazzi festanti che si erano arrampicati in cima al muro indossava un cappellino col Bat-logo.

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Il successo commerciale della pellicola era fuori discussione, ma quello che rendeva più felici gli autori era che la visione artistica di Tim Burton, Anton Furst, Danny Elfman e di Michael Uslan, col quale tutto era cominciato, non solo era stata accettata con entusiasmo ma era diventata il nuovo standard nel ritrarre il Cavaliere Oscuro e il suo mondo. Uslan aveva realizzato il suo sogno: per tutti, adesso, Batman era la creatura della notte, un raddrizzatore di torti che perseguita i criminali, in un contesto urbano dark e tenebroso. Il “Bat-Tusi” era ormai lontano, sepolto nell’album dei ricordi.

Batman lanciò definitivamente la carriera di Tim Burton, che divenne uno dei più grandi registi americani dei nostri tempi, anche se l’Academy non ha mai concesso un meritato riconoscimento al suo genio. Col passare degli anni, la critica europea lo ha invece inserito tra i più grandi maestri della nostra epoca, tributandogli premi come il Davide di Donatello alla carriera.
Anton Furst venne invece insignito dell’Oscar per la strepitosa scenografia di Batman, mentre Peter Young vinse quello come set designer. Furst, artista di grande sensibilità, si tolse purtroppo la vita nel 1991, a 47 anni, gettandosi dall'ottavo piano di un palazzo di Los Angeles. Il suo lavoro e il suo talento non saranno mai dimenticati.
Danny Elfman è ancora oggi il compositore prediletto di Tim Burton, di cui ha musicato quasi tutte le pellicole, formando un binomio indissolubile al pari di quelli storici tra Alfred Hitchcok e Bernard Herrmann, Steven Spielberg e John Williams.
Benjamin Melkiner, il “Leone di Hollywood”, come veniva chiamato durante i suoi anni d’oro alla MGM, si è spento nel 2018 alla venerabile età di 105 anni.
Jon Peters e Peter Guber hanno continuato la loro carriera di produttori di successo, senza però raggiungere mai più i fasti di Batman.

Michael E. Uslan è stato accreditato come produttore esecutivo di tutti i film del franchise di Batman dal 1989 ad oggi, compreso il recentissimo Joker. È possibile incontrarlo in tutte le maggiori convention degli USA, dove parla con piacere dell’interpretazione monumentale di Joaquin Phoenix nel film sul Principe Pagliaccio del Crimine e, con orgoglio e malinconia, della realizzazione del Batman del 1989. Ma quello che conta di più è che Michael è ancora oggi il ragazzino che si chiudeva in camera a leggere i suoi fumetti preferiti: è ancora the boy who loved Batman. La dedizione con cui ha lavorato tutta la vita alla realizzazione del suo sogno, facendo allo stesso tempo ai lettori di comics dell’epoca il più grande regalo che avessero mai ricevuto, sarà riconosciuta e celebrata per sempre.

Il Batman del 1989 compie trent’anni e da allora molti film tratti dai fumetti sono arrivati sullo schermo, compresi alcuni di notevole qualità. Ma nessuno di questi ha segnato la cultura popolare come il film di Tim Burton che cambiò per sempre la percezione che il pubblico aveva dei film tratti dai fumetti, conferendogli dignità artistica, rispetto e prestigio e preparando il terreno per tutto quello che sarebbe arrivato dopo. Per la lunga e travagliata strada che ha portato alla sua realizzazione, la qualità dei creativi coinvolti, le innovazioni portate al genere, le attese suscitate e l’esito artistico finale, è possibile dire che non c’è più stato un film come Batman e mai più potrà esserci.

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Speciale Batman '89: Parte II - Tu danzi mai col diavolo nel pallido plenilunio?

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Il nuovo decennio si apriva con la ricerca di uno studio da parte di Benjamin Melkiner e Michael Uslan. La Warner Bros., consorella della DC nel consorzio Warner Communications (il futuro gruppo Time-Warner), non volle leggere neanche il pitch di Michael. La United Artists, seconda scelta del duo, si rifiutò di produrre il film con una risposta delirante: una pellicola con “Robin” nel titolo, il Robin e Marian di Richard Lester, che parlava però degli ultimi anni di vita di Robin Hood e non aveva nulla a che fare con cavalieri oscuri e affini, era stato un fiasco e sicuramente lo sarebbe stato anche Batman. La coppia ricevette altri rifiuti con motivazioni altrettanto surreali da tutti gli altri studios di Hollywood. Finché Melkiner non calò l’asso. Si ricordò di un giovane promettente che aveva assunto durante il suo ultimo periodo alla MGM, e che aveva fatto carriera arrivando a diventare vice-presidente della Columbia: Peter Guber. Successivamente aveva lasciato lo studio e aveva fondato un’etichetta musicale che andava per la maggiore, la Casablanca Records. Ben aveva raccolto voci nell’ambiente secondo cui la Casablanca stava per associarsi con un’altra etichetta, la Polygram, per lanciarsi nella produzione cinematografica. Il target giovanile assicurato dalla Casablanca sembrava l’ideale per Batman. Ben e Mike combinarono un appuntamento con Guber, e il feeling fu immediato: il produttore si entusiasmò per il progetto, accettando la proposta di Melkiner e Uslan di aiutarli nella realizzazione del film. Le cose sembravano aver preso la piega giusta, tanto che alla New York Comic-Con del 1980, in un panel presentato insieme al nuovo redattore capo della DC, Jenette Kahn, Mike annunciò tra gli applausi del pubblico festante la prossima realizzazione e uscita del film dedicato a Batman, ricevendo la benedizione di Bob Kane in persona. Ma Uslan non sapeva che la strada verso Gotham sarebbe stata ancora lunga.

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Peter Guber stava portando avanti la trattativa per i diritti di distribuzione di Batman con la Universal, potendo vantare un’amicizia col capo produzione dello studio. Ma sul più bello, il dirigente lasciò la Universal per accasarsi alla oggi defunta Filmways, con la promessa che le trattative sarebbero riprese col nuovo studio. Quando la Filmways venne acquistata dalla Orion Pictures, per nulla interessata al progetto, la trattativa si arenò definitivamente. Micheal Uslan faticava ad incassare il colpo. Il suo sogno di un film cupo e gotico di Batman stava per svanire in un nulla di fatto.

Melkiner ed Uslan acquistarono i diritti di Batman il 3 ottobre 1979 e il film uscì negli USA il 23 giugno 1989. I dieci anni che intercorsero tra queste due date videro Mike alle prese con difficili situazioni familiari. La vita non restava ferma, aspettando che Batman venisse realizzato. Durante questo periodo, il produttore perse la madre a causa di un terribile male, e oltre alla felicità per la nascita del figlio David e la figlia Sarah, conobbe anche l’indicibile dolore per la morte improvvisa di un’altra figlia, nata da pochi mesi. Nonostante le difficoltà e quando tutto avrebbe suggerito di desistere, Uslan decise di giocare il tutto per tutto per realizzare il suo sogno. Proprio quando la moglie stava per partorire il primo figlio, decise di licenziarsi dal posto sicuro che ricopriva all’ufficio legale della United Artists, che garantiva tra l’altro a lui e alla sua famiglia l’assistenza medica, per poter lavorare a tempo pieno a Batman. Non fu una scelta facile, ma valeva il motto "ora o mai più".

Intanto i meeting creativi andavano avanti, e personalità di un certo spessore entravano e uscivano dal progetto. Tom Mankiewicz, sceneggiatore di Agente 007: Vivi e lascia morire ma soprattutto del Superman di Richard Donner, scrisse una prima stesura della sceneggiatura. Joe Dante, regista di Gremlins e di Piranha che era stata una delle prime produzioni di Uslan, venne considerato per la regia. E siccome ci trovavamo nei bizzarri anni ’80 e, nonostante gli sforzi del produttore, Batman aveva ancora fama di essere un prodotto camp, vennero considerati Bill Murray per il ruolo del Cavaliere Oscuro ed Eddie Murphy per il ruolo di Robin. Fortunatamente ci sono dei momenti della vita in cui la provvidenza aiuta i coraggiosi e il Dio-Cinema, che fino a quel momento non si era mostrato particolarmente interessato agli sforzi di Micheal Uslan, decise di intervenire in maniera risoluta. E quell’intervento assunse le sembianze del produttore Jon Peters.

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Figlio di una parrucchiera (la madre possedeva un rinomato salone di bellezza a Rodeo Drive, Hollywood), da giovane Peters si esercitò nell’attività di famiglia. Fu così che strinse amicizie importanti nell’ambiente del cinema fino a conoscere Barbra Streisand, di cui diventò l’amante. In seguito produsse il suo film È nata una stella (1976). Anni dopo, conobbe Peter Guber di cui divenne socio e con il quale fondò la Guber-Peters Entertainment Company, in seguito assorbita dalla Columbia. Peters era un decisionista, oltre che il tormento dei registi dei film da lui prodotti, ma la sua intraprendenza fu decisiva nel dare al progetto Batman la sterzata decisiva.

Prima di tutto, la Guber-Peters riuscì a riportare la Warner Bros. al tavolo della trattativa, approfittando del fatto che il nuovo vice-presidente, Frank Wells, era rimasto sconcertato nel sapere che la precedente dirigenza aveva permesso che un film potenzialmente lucrativo come Batman, i cui diritti appartenevano a una consociata dello studio, venisse sviluppato all’esterno dello studio stesso. Jon Peters e Peter Guber firmarono così un accordo vantaggioso, riportando Batman alla casa madre.
Il secondo, importante contributo fornito dal duo alla causa di Batman fu l’ingaggio di uno dei più grandi divi di Hollywood nella parte del Joker, l’unico che, secondo lo stesso Micheal Uslan, avrebbe potuto interpretare il Principe Pagliaccio del Crimine: Jack Nicholson. Mike pensava a Nicholson fin dal 1980, folgorato dalla sua performance in Shining. A conferma della sua intuizione, ritagliò da un giornale la locandina del film di Stanley Kubrick in cui l’attore veniva ritratto col suo classico ghigno. Uslan colorò con dei pennarelli il viso di Jack di bianco, rosso e verde. Il risultato era il Joker. Il caso volle che, anni dopo, Guber e Peters fossero i produttori di Le Streghe di Eastwick, grande successo diretto da George Miller che vedeva Nicholson interpretare il diavolo. Nelle pause sul set, Jon Peters cominciò a parlare a Nicholson del progetto Batman e della parte di Joker. Il produttore – parrucchiere fu talmente convincente che il divo accettò il ruolo per sei milioni di dollari invece degli abituali 10, a patto di poter partecipare agli utili delle future vendite del merchandising relativo al film. Un accordo rivoluzionario, per l’epoca, che farà guadagnare all’attore il quintuplo del suo cachet ordinario.

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A metà degli anni ’80, la produzione di Batman aveva superato le traversie iniziali. Come progetto targato Warner Bros. che poteva vantare la presenza di un divo affermato come Jack Nicholson, il film sembrava avere ormai il vento in poppa. Quello che mancava ancora, era un autore che potesse garantire una visione unica al progetto, oltre alla capacità di gestire le dimensioni di una produzione che andava facendosi sempre più colossale. Dopo la candidatura di Joe Dante, venne valutata anche quella di Ivan Reitman, reduce dal grande successo di Ghostbusters, ma il suo profilo non convinceva appieno. Ma il Dio-Cinema, o il fato, se preferite, fornì l’intervento che diede la svolta decisiva al progetto. Una dirigente importante della Warner dell’epoca, Bonni Lee, aveva visto il cortometraggio di un promettente filmaker, un ragazzo che lavorava al reparto animazione dei Walt Disney Studios. Quel breve filmato, Vincent, era un commosso e visionario omaggio al mito d’infanzia del giovane regista, Vincent Price. La Lee si innamorò dello stile e della poetica dell’autore, e dopo averlo contattato e conosciuto, lo portò con sé alla Warner.  Quel ragazzo si chiamava Tim Burton.

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Burton era un eccentrico creativo di 25 anni cresciuto professionalmente alla Disney, in un gruppo che vedeva tra gli altri John Lasseter, futuro capo della Pixar, e Brad Bird, che avrebbe diretto Gli Incredibili e Ratatouille. Ma il suo gusto per le atmosfere dark e grottesche mal si conciliavano con lo stile canonico Disney. Dopo aver contribuito a classici come Red & Toby – Nemici amici e Taron & la pentola magica, che giudicherà esperienze frustranti per l’atteggiamento ostativo della Disney nei confronti delle sue idee, decise di dedicarsi alla regia. I suoi primi lavori sono due corti, il già citato Vincent e Frankenweenie, in cui inaugura la poetica del diverso che attraverserà tutto il suo cinema. Ma Burton alla Disney è il classico pesce fuor d’acqua: si convince quindi a fare fagotto e ad abbandonare la casa di Topolino. Alla Warner realizza il desiderio di poter finalmente dirigere un lungometraggio. Lo studio gli affida infatti la regia di Pee-Wee’s Big Adventure, il debutto cinematografico del comico televisivo Pee-Wee Herman, al secolo Paul Reubens. La pellicola è poco più di un pretesto per mettere in scena delle gag che esaltano il repertorio slapstick di Reubens: ciò nonostante il film ottiene un ottimo riscontro di pubblico, e mette in mostra la mano sicura di Burton nel dirigere e la sua predilezione per il registro onirico e surreale. Peters, Guber e la Warner restano affascinati dallo stile del giovane cineasta, e si convincono che sia la persona giusta a cui affidare un progetto complesso come Batman. Se ne convince anche Micheal Uslan dopo una proiezione privata di Pee-Wee organizzata per lui e Ben Melkiner dallo studio. I due vennero folgorati dal talento del regista e si convinsero della bontà della scelta della produzione.

In una serie di incontri organizzati dalla produzione, Uslan ebbe modo di conoscere Burton ed esporgli la sua visione del personaggio e del futuro film. Tra il materiale da lui sottopostogli, trovavano spazio l’amata Night of the Stalker, le storie delle origini prodotte da Bob Kane, Bill Finger e Jerry Robinson e, ovviamente, la nuova ondata di graphic novel adatte ad un pubblico maturo che avevano per protagonista l’Uomo Pipistrello. Il movimento del cosiddetto "revisionismo supereroistico", che reinterpretava in chiave decostruzionista la figura del supereroe, stava dominando la scena fumettistica degli anni '80 dando i natali ad opere epocali come Il Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller e The Killing Joke di Alan Moore e Brian Bolland, entrambe con protagonista il Cavaliere Oscuro. Pur non adattando nessuna delle due opere, Batman sarà debitore della sua atmosfera dark e noir a questi due capolavori della letteratura disegnata che insieme a Batman: Year One, scritta dallo stesso Miller per i disegni di David Mazzucchelli, formeranno il trittico imprescindibile del canone batmaniano nei decenni a venire. 

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Speciale Batman '89: Parte I - Origini segrete

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La storia della realizzazione del Batman diretto da Tim Burton, il blockbuster del 1989 che ha cambiato per sempre la storia degli adattamenti cinematografici delle storie a fumetti facendo da apripista per i moderni cinecomic, è prima di ogni cosa un’avventura in cui sogno, amore, passione, ostinazione e perseveranza si mischiano in una miscela che aveva avuto fino a quel momento pochi precedenti nella storia del cinema e probabilmente non ne ha avuti più in seguito. Una miscela che, come vedremo, scorreva potente nel cuore di Michael E. Uslan, il produttore nonché motore primo della lunga e travagliata gestazione del primo lungometraggio durata circa 15 anni ma da lui covata fin dalla più tenera età.

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Uslan nasce nel 1950 a Bayonne, tranquilla località del New Jersey dove tutte le famiglie si conoscono e passano insieme le domeniche organizzando barbecue, in quadretti simili a quelli mostrati in tanti film americani del periodo. Il giovane Micheal è un ragazzo come tanti, e si divide tra la scuola e le partite di baseball con gli amici. Ma c’è una passione che lo definisce in particolare: l’amore sconfinato per i comic-book, di cui divora avidamente le colorate pagine in quadricromia. L’incipit della sua splendida autobiografia, The Boy who loved Batman, pubblicata da Chronicle Books nel 2011, non lascia dubbi sull’impatto che i fumetti hanno avuto nella formazione di Uslan: “Mia madre mi ha dato la vita, ma sono i fumetti ad avermi formato e ad aver fatto di me l’uomo che sono”. Una dichiarazione d’amore che non fa nulla per nascondere il trasporto emotivo che i ricordi di quelle letture giovanili ancora oggi gli provocano. Il giorno magico dei comic-geek statunitensi era, allora come oggi, il mercoledì, quando gli scaffali dei drugstore si riempivano di nuove uscite. Le letture preferite di Micheal spaziavano da un evergreen come Archie ai deliranti fumetti DC Comics della Silver Age dove, per sopravvivere alle accuse mosse dall’infame psicologo Frederic Wertham di voler corrompere la gioventù americana, i supereroi erano stati trasformati in innocui vessilli dello stile di vita americano. Così Superman era diventato il tipico pater familias statunitense, mentre la ribelle amazzone Wonder Woman era stata ricondotta a più miti consigli tra le quattro mura di una dimensione domestica. Il futuro produttore scopre dapprima Justice League, con le sue trame fantascientifiche, e Superman, di cui è ancora fresco negli Usa il ricordo della serie tv interpretata da George Reeves e più volte replicata.

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Ma l’amore sboccia per un personaggio privo di superpoteri, di cui intuisce la complessità e l’umanità: Batman. Come i suoi colleghi DC, anche il Batman della Silver Age è coinvolto in avventure ai limiti dell’assurdo, dimentico delle sue radici dark e urbane, per tranquillizzare la censura. Non sono infrequenti viaggi nello spazio, il già numeroso gruppo di comprimari si infoltisce di presenze bizzarre come il cane Asso, il Bat-Segugio e di avversari al confine tra magia e fantascienza come Bat-Mito. Uslan, però, legge per caso una ristampa delle origini del Cavaliere Oscuro, come era stato concepito da Bob Kane e Bill Finger nel 1939, e tutta la tragicità di cui è intriso il personaggio lo colpisce profondamente. In particolare, viene scosso dalla tragica perdita del piccolo Bruce Wayne, i cui genitori vengono assassinati da un delinquente. Un transfer emotivo che non lascia scampo a Mike, profondamente legato ai suoi genitori. Nella sua mente, l’essenza e la natura del personaggio creato da Kane e Finger sono ormai chiare: una creatura della notte che emerge dalle ombre per stanare i criminali. La versione Silver Age del personaggio gli appare improponibile, uno scempio delle intenzioni iniziali degli autori, così come la serie tv che da li a pochi anni comincerà ad imperversare sui teleschermi delle famiglie americane.

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Batman debutta sugli schermi televisivi USA nel 1966 e prosegue la sua corsa per tre stagioni fino al 1968, sfornando 120 episodi che diventano un classico della cultura pop americana. Un successo di ascolti travolgente che trasforma la serie tv in un fenomeno di costume dell’epoca. L’approccio scelto dal produttore William Dozier è umoristico e camp, rinunciando così alle origini oscure del personaggio. Col senno di poi, il Batman della tv è uno straordinario documento della cultura di un periodo, dominato dalla musica dei Beatles e dei Monkees, ma è anche il compendio di tutti i luoghi comuni che chi non legge i fumetti pensa che si trovino nei comics, al pari di film coevi come la Barbarella di Roger Vadim. Quando la serie tv viene annunciata Uslan, come tutti i giovani lettori di fumetti dell’epoca, è eccitato e pieno di aspettative, che vengono puntualmente deluse quando il primo episodio viene messo in onda. Da una parte è felice del successo della serie e che il personaggio di Batman sia oramai noto in tutto il paese: dall’altra non può sostenere la vista di Adam West che balla con convinzione il “Bat-Tusi”. No, questo Batman non può essere lo stesso delle sue letture preferite, il Bruce Wayne orfano che ha pianto i genitori uccisi in un vicolo. Come il piccolo Bruce, Mike pronuncia un giuramento: un giorno entrerà nell’industria del cinema e produrrà un Batman fedele a come era stato immaginato dai suoi creatori, cupo e urbano, riportandolo alle sue radici dark e gotiche.

Gli anni passano e Micheal si diploma, per poi andare a studiare legge all’Università dell’Indiana. Sono arrivati gli anni ’70, e Uslan si trova davanti al primo snodo importante della sua vita. Con gli amati fumetti sempre in testa, propone al preside della facoltà un corso che avrebbe trattato i comics sotto un profilo da antropologia culturale approfondendone, oltre che la rilevanza artistica, l’importanza rivestita nella cultura popolare e le loro implicazioni sociologiche e psicologiche. Davanti alle ovvie perplessità dell’accademico, Uslan gli chiese se conosceva la storia di Mosé. Il preside gli rispose che ovviamente la conosceva e ne snocciolò i punti salienti. Appena ebbe finito, Uslan gli raccontò le origini di Superman. Anche lui salvato in fasce e destinato ad un ruolo salvifico per la sua comunità. Davanti alle ovvie similitudini, il preside accettò di buon grado di attivare il corso. In anni in cui il fumetto veniva ancora considerato uno svago per bambini, l’iniziativa di Micheal Uslan fu uno dei primissimi riconoscimenti conferiti al ruolo sociale e culturale svolto dai comics. Anche i media se ne accorsero, e la notizia di quanto stava succedendo nell’Università dell’Indiana trovò posto sia sui giornali che in tv, tanto che Mike venne invitato ad uno speciale televisivo in cui fu affiancato da nomi affermati del settore come Steve Englehart e Gerry Conway. Il clamore suscitato destò ben presto l’attenzione dei due giganti del settore, e non passò molto tempo prima che il giovane professore di storia del fumetto ricevesse due importantissime telefonate. La prima fu quella di Stan Lee, editor-in-chief della Marvel; la seconda fu quella di Sol Harrison, suo omologo della DC Comics. Entrambi si congratularono con l’intraprendente giovanotto ed entrambi gli offrirono un lavoro. Benché Micheal apprezzasse molto la ventata di freschezza che la Marvel aveva portato nel settore, rimaneva principalmente un fan della DC, quindi accettò immediatamente l’offerta di Harrison.

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Dopo aver iniziato scrivendo una linea di fumetti pedagogici, Uslan si ritrovò a scrivere storie di The Shadow in sostituzione del titolare Denny O’Neil e realizzò un sogno che covava fin da piccolo sceneggiando una storia di Batman in tre parti che apparve su Detective Comics. Nel frattempo, mentre inseguiva i suoi sogni, trovò il tempo di realizzare anche quello dei suoi genitori concludendo gli studi e prendendo la laurea in legge. Mike sapeva bene cosa voleva fare della sua vita, e sapeva altrettanto bene che non voleva trovarsi incastrato in un lavoro che avrebbe odiato. Così, almeno inizialmente, mediò tra le sue aspettative personali e quelle familiari cercando lavoro come consulente legale in alcuni dei più prestigiosi studi cinematografici dell’epoca, dove avrebbe svolto la necessaria gavetta per poter intraprendere poi la carriera di produttore. Grazie a dei contatti conosciuti durante gli anni dell’Università, riuscì ad ottenere un colloquio presso la United Artists di New York, che ebbe esito positivo. La UA era una major della storia prestigiosa, fondata durante l’età d’oro del cinema muto da Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e D.W. Griffith, e che sarebbe fallita all’inizio degli anni ’80 all’indomani del fiasco del kolossal I cancelli del cielo di Micheal Cimino. Come impiegato all’ufficio legale della UA, Mike contribuì a preparare i contratti per classici come Rocky, Toro Scatenato e Apocalypse Now; potendo disporre di New York come base, inoltre, poteva continuare a frequentare la sede della DC. Per contratto, infatti, poteva continuare a scrivere fumetti nel tempo libero.

Gli anni passati alla UA furono determinanti per la formazione di Mike ma nella sua testa quel lavoro aveva una scadenza: la sua versione di Batman occupava continuamente i suoi pensieri e, alla scadenza del quarto anno come legale presso lo studio, Uslan fece la sua mossa. Decise che era arrivato il momento di realizzare il suo sogno. Così si fece ricevere da Sol Harrison della DC Comics comunicandogli la sua intenzione di acquisire i diritti per una trasposizione cinematografica di Batman e dei personaggi relativi al suo universo. Harrison provò con affetto a dissuaderlo, cercando di convincerlo che l’appeal di Batman era morto con gli anni ’60 e che Superman fosse l’unico personaggio che avesse qualche chance di avere successo sul grande schermo, ma davanti alle insistenze del giovanotto comprese che non avrebbe mai desistito. Lo avvertì però che avrebbe dovuto trattare con un executive della Warner Communications, all’epoca proprietaria di DC Comics, che non era un certo un fan dei fumetti, e aveva costretto a una lunga e complessa trattativa i produttori Alexander e Ilya Salkind durante la loro acquisizione dei diritti di Superman. Durante gli anni alla UA Michael aveva accumulato una certa esperienza, ma non tale da affrontare una prova professionale di questo livello. Per proseguire nella sua avventura, era necessario trovare un collaboratore che avesse più esperienza di lui. E questo partner arrivò nella figura di Benjamin Melkiner, padre di Charles, suo collega alla United Artists.
Melkiner era stato il capo dell’ufficio legale della MGM durante gli anni d’oro di Hollywood, ed era considerato una leggenda del settore, avendo negoziato accordi per pellicole epocali come Ben-Hur, Il Dottor Zivago e 2001: Odissea Nello Spazio. Aveva oltretutto dato il via al reparto animazione della MGM, assumendo William Hanna e Joe Barbera. Ma non aveva mai letto un fumetto. Mike dovette quindi spiegargli che il vero Batman non era quello della serie tv e che il loro film ne avrebbe fornito una versione fedele a quella originale, mai mostrata prima al grande pubblico.

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Nel 1979 Uslan e Melkiner fondano la Bat-Film Inc. e cominciano ufficialmente le negoziazioni con la DC Comics, per l’acquisizione dei diritti di sfruttamento per il cinema e per la tv di Batman e degli altri personaggi del suo universo narrativo. Con i soldi racimolati da prestiti e quelli raccolti da amici e famiglie, il duo riuscì ad acquistare un’opzione per sei mesi rinnovabile per altri sei, in attesa di trovare uno studio che finanziasse il progetto. Solo a quel punto si sarebbe potuti passare all’acquisizione completa, altrimenti la DC, che per prima non credeva al progetto di un film su Batman, avrebbe lasciato il Cavaliere Oscuro a prendere polvere nella sua library.

Il dinamico duo iniziò quindi la ricerca di uno studio disposto ad investire nella loro impresa. Uslan preparò un trattamento di una ventina di pagine da sottoporre ai finanziatori, per spiegare brevemente in cosa il “suo” Batman si sarebbe distinto da quello della serie tv. In suo soccorso arrivarono i fumetti del Cavaliere Oscuro che la DC aveva prodotto in quel decennio che si stava chiudendo. In un ciclo di storie che sarebbe entrato nella leggenda, lo sceneggiatore Denny O’Neil e il disegnatore Neal Adams riportarono Batman alle atmosfere oscure delle origini, accantonando per sempre la versione camp. Il Crociato Incappucciato di Adams, una silhouette atletica che si muove tra le ombre, sarebbe diventata la versione iconica e graficamente definitiva del personaggio. Nello stesso decennio, con una breve run di otto storie che sarebbe diventata un cult, Steve Englehart e Marshall Rogers ristabilirono le radici dark e pulp del personaggio, influenzando fortemente il futuro film: Rogers lavorerà anche sui primi storyboard della pellicola. Una storia in particolare, Night of the Stalker, scritta da Englehart ma disegnata da Sal Amendola, in cui un Batman silenzioso che emerge dalla notte come uno spettro perseguita una banda di rapinatori, diventa la preferita in assoluto di Uslan e verrà apertamente citata nella sequenza di apertura del lungometraggio. Il nuovo decennio si aprirà con i due soci produttori impegnati nella ricerca di uno studio che fosse interessato a finanziare il loro progetto. Ma, come vedremo, la strada verso Gotham sarà irta di ostacoli e serviranno ben 10 anni prima che il film veda la luce.

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Joker, recensione: Fare arte finché qualcuno muore

  • Pubblicato in Screen

L’ambizione autoriale che si muove dietro a Joker, il film diretto da Todd Phillips vincitore del Leone d’Oro a Venezia, è evidente fin dai titoli di testa, dove il logo della Warner Bros., casa produttrice, non è quello attuale ma il corrispettivo usato negli anni ’70. Il legame che Phillips vuole creare con quel periodo, l’ultimo veramente innovativo del cinema americano, è evidente e dichiarato fin dal concepimento del progetto.

Nel 2016 il regista propone alla Warner una origin story sul principe pagliaccio del crimine, scollegata dal resto delle pellicole dell’universo condiviso DC che peraltro, dopo il flop di critica di Batman V Superman e il disastro creativo e commerciale di Justice League, sta subendo un ripensamento. Messo da parte per il momento il progetto di rincorrere i Marvel Studios sul loro consolidato e remunerativo terreno, la dirigenza dà il semaforo verde a Phillips. L’aspirazione del regista è quella di allontanarsi dai cinecomics che vanno per la maggiore, e di realizzare un dramma urbano sulla triste storia di un comico fallito, afflitto da un disturbo neurologico che gli procura un disagio psichico, che vive ai margini di una metropoli disumana dei giorni nostri, sporca ed opprimente, rifiutato e respinto da una società crudele verso gli ultimi. Il progetto acquista prestigio quando viene coinvolto come produttore Martin Scorsese, che dovrà però ben presto abbandonare in favore di progetti personali, vedi The Irishman di prossima uscita. Lo spirito guida del regista italoamericano però rimane anche in sua assenza, e Joker è prima di tutto un omaggio alla sua cinematografia, con chiari riferimenti a Taxi Driver, e, soprattutto, Re per una notte, seppur tragga ispirazione da tutto il giovane cinema americano di rottura degli anni ’70, vedi i Francis Ford Coppola, Paul Schrader e Brian De Palma, quest’ultimo omaggiato in una scena in cui la pellicola, del tutto desaturata da elementi pop, si aggancia in modo inaspettato e sorprendente al mito batmaniano. Il collegamento spirituale all’opera di Scorsese è simboleggiato dalla presenza di Robert DeNiro, protagonista tanto di Taxi Driver quanto di Re per una notte, in cui interpretava un altro aspirante comico fallito a cui l’Arthur Fleck interpretato da Joaquin Phoenix si rifà esplicitamente.

Tra le tante polemiche suscitate dal film ancora prima della sua uscita c’era la paura che la pellicola potesse essere indulgente nei confronti del suo protagonista che, al netto dei traumi subiti, resta comunque un assassino. Qui forse c’è l’unica pecca del film di Phillips: i Travis Bickle e i Rupert Pupkin della coppia DeNiro/Scorsese vengono presentati con tutte le loro ossessioni senza giustificazioni ed alibi, proprio per evitare un transfer d’identificazione nello spettatore. L’Artur di Phoenix, invece, fin dai primi minuti attraversa un calvario degno de La Passione di Cristo che in qualche modo potrebbe giustificarne le azioni. Phillips è abile nel disinnescare la costruzione di un messaggio moralmente ambiguo attribuendo la responsabilità dell’esplosione della violenza fin li covata da Artur alla pistola inopinatamente procuratagli da un collega. Il terreno viene quindi spostato su un argomento di dibattito da sempre molto caldo negli USA dove, invece di pretendere una seria regolamentazione del possesso delle armi, si è pensato di assoldare un servizio d’ordine armato in alcune catene delle sale cinematografiche dove Joker verrà programmato. Anche l’accusa di fomentare la rivolta sociale armata cade nel vuoto, perché il film mostra chiaramente come ogni rivoluzione scaturita dall’odio e dalla rabbia e non strutturata nei contenuti è destinata a risolversi in caos e disordine fine a se stesso.

Altra accusa rivolta preventivamente al film, questa volta dal popolo di internet e dei social, era quella di una scarsa attinenza col materiale di provenienza. Niente di più sbagliato: la forza dei personaggi dell’universo di Batman, creati da Bob Kane e Bill Finger, è sempre stato quello di parlare ad un pubblico ampio e a varie fasce di età. Joker è un personaggio che può vivere tanto in una serie animata quanto in una pellicola V.M.14 come questa che è, a tutti gli effetti, la versione per lo schermo di un graphic novel per un pubblico adulto, come quelle che la DC pubblicava fino a pochi anni fa nell’etichetta Vertigo e oggi propone con il bollino Black Label. A voler essere pignoli, si potrebbe solo contestare l’insistenza nel voler fornire una genesi precisa ad un personaggio che ha sempre fatto del suo essere un agente naturale del caos e delle sue origini avvolte nel mistero la sua forza e il suo fascino, per quanto un brillante twist di sceneggiatura, determinante per la trasformazione del personaggio, rimescoli parecchio le carte.

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Ma quanto detto finora non rende giustizia alla carica rivoluzionaria di cui Joker è portatore non solo nel sottogenere cinecomics, ma nell’intero panorama dell’attuale cinema a stelle strisce. In un momento storico in cui gli studios si fanno la guerra per il possesso di remunerativi franchise e mettono in listino solo reboot, remake e sequel di saghe sfruttate fino allo sfinimento, mentre un maestro come Scorsese deve rivolgersi a Netflix per produrre non un piccolo film intimista, ma un appetibile gangster movie con due mostri sacri come DeNiro e Al Pacino, il film di Todd Phillips compie il miracolo di mettere la performance di uno straordinario attore e una messa in scena evocativa al centro di un prodotto mainstream. Sorprende la cifra stilistica raggiunta dal regista di Una Notte da Leoni. Prima di Joker, la scena cult della sua filmografia era quella della frittella in Roadtrip, e chi ricorda quel film becero ma divertente sa di cosa parliamo. Scherzi a parte, Phillips ha saputo trasferire la carica eversiva del cinema demenziale dei suoi inizi in un film drammatico, raggiungendo una dimensione autoriale importante, sia formale che di contenuti. Un filmaker che non ha paura di battere la lingua dove il dente duole, vedi il discorso sulle armi a cui facevamo riferimento. Ma non solo: con Joker, propone uno specchio non deformato, ma tristemente veritiero, della società americana del momento. Un riflesso in cui l’opinione pubblica americana ha avuto paura di specchiarsi, come dimostra l’accoglienza nervosa riservata al film in patria. Un’America che taglia i servizi sociali, emargina e abbandona gli ultimi, confinati a sottoproletariato urbano, ed elegge miliardari che hanno costruito ricchezze e imperi sottraendo risorse ai più poveri. Interessante in questo senso è il ribaltamento di prospettiva del classico canone batmaniano dove Thomas Wayne abbandona il ruolo di “vittima” e  diventa l’emblema di questa borghesia snob e arricchita. Scenario di questo disastro sociale è una Gotham City in preda allo squallore e al degrado, a cui presta il volto una New York decadente catturata dalla fotografia livida di Lawrence Sher. Significativa la scelta di girare nella Grande Mela, che nelle intenzioni originali di Kane e Finger, era il modello scelto per Gotham.

Ci sarebbe poi da parlare della colonna sonora, delle scelte perfette nella selezione dei brani, come la struggente Smile di Charlie Chaplin nell’indimenticabile versione di Jimmy Durante, ma ci troviamo di fronte ad un’opera che fornisce innumerevoli spunti di riflessione che un solo articolo non può contenere. Chiudiamo quindi parlando dell’anima del film, un monumentale Joaquin Phoenix alle prese con uno di quei ruoli che definiscono una carriera. Un Phoenix dimagrito di 25 kg che soffre, ride, ma con una risata che nasconde un drammatico disturbo neurologico, si contorce e prende botte, tante, in una prova di recitazione patibolare che scuote e commuove. Qui siamo di fronte ad un attore che non interpreta un personaggio, lo diventa. Il migliore attualmente in circolazione, considerando l’ennesimo ritiro dalle scene di Daniel Day-Lewis e l’inaffidabilità di una ex promessa che ha dissipato molto del suo talento come Edward Norton. Se quelli dell’Academy non si faranno prendere dalla tentazione, come accaduto spesso in passato, di scelte provocatoriamente originali, l’Oscar per la migliore interpretazione è già suo.

Uscito da pochi giorni, Joker ha già suscitato forti consensi e feroci polemiche, ma le implicazioni delle sua irruzione in un mercato cinematografico dominato da logiche commerciali di produzioni in serie devono essere ancora comprese appieno. Si tratta di un film che spariglia le carte, scardina le certezze di una scena cinematografica americana attuale paludata, conservatrice e conformista, appiattita sulla logica del profitto. Al contrario, questo è cinema che nasce da un’esigenza artistica, nobilitato da un titano della recitazione. Come direbbe il vecchio Joker di Jack Nicholson: qui si fa arte, finché qualcuno muore.

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