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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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Lazarus 1: Famiglia

L’ansia per un futuro che appare oscuro ed incerto, alimentata dalla complessità politica ed economica dei tempi in cui viviamo, ha da sempre ispirato la letteratura e il cinema fantastico.  Un caso esemplare è Io sono leggenda, romanzo di Richard Matheson che è stato adattato più volte con successo per il grande schermo, e le saghe di Mad Max e Terminator.  La visione di un  mondo distopico e minaccioso anima anche le pagine di The Walking Dead, straordinario successo partorito dalla penna di Robert Kirkman. Difficile quindi creare una nuova saga ambientata in un futuro apocalittico, a meno che non si abbia il talento di Greg Rucka e Michael Lark. Il duo, artefice insieme ad Ed Brubaker di un mirabile ciclo di Gotham Central, torna a riunirsi in Lazarus, saga futuristica creata per la Image Comics e proposta in Italia da Panini.

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La storia si svolge in un futuro prossimo venturo caratterizzato da elementi di forte contiguità col nostro presente, primo tra tutti il dominio incontrastato delle multinazionali a livello politico ed economico. Nello scenario distopico brillantemente immaginato da Rucka & Lark, il ruolo delle multinazionali nello scacchiere mondiale è aumentato di importanza fino a diventare dominante e a sostituirsi alle nazioni esistenti; così, come in un nuovo Medioevo da incubo, la divisione del mondo in Stati sovrani è stata soppiantata dalla frammentazione in domini, espressione del potere delle famiglie più ricche e potenti. Una di queste è la famiglia Carlyle, dinastia di industriali che governa lo Stato della California. Core Business dei Carlyle è la coltivazione di semi geneticamente modificati, attività che garantisce loro il potere assoluto in un territorio dove cittadini che soffrono la fame sono trattati come sudditi da un regime dittatoriale. Ciascuna delle famiglie più influenti gode dei servigi di un “Lazarus”, un essere artificiale di incredibile potenza a cui viene fatto credere di essere umano. I Lazarus guidano le milizie private delle varie famiglie, proteggendone gli interessi. A svolgere questo ruolo nella famiglia Carlyle è Forever, o Eve, come viene chiamata dai membri delle famiglia. Benché sia stata assemblata in laboratorio, ad Eve viene fatto credere di essere un membro dei Carlyle dal patriarca Malcolm e dai suoi figli, ma l’affetto che provano per la “donna” è solo di facciata: farla sentire parte integrante della famiglia è solamente un modo astuto per controllarla ed influenzarne le decisioni. Ma le certezze di Eve verranno presto messe a dura prova, quando un attacco della milizia dei rivali Morray al deposito delle sementi dei Carlyle svelerà l’esistenza di un complotto e di una serpe in seno a questi ultimi. Eve dovrà suo malgrado confrontarsi con il vero volto della sua famiglia e dei suoi membri, e non di meno cominciare ad interrogarsi sulla natura del regime dei Carlyle e sul mistero della sua stessa esistenza.

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Nonostante la lettura di Lazarus sia attraversata in alcuni momenti da un consistente senso di dejà-vu, i due autori ci regalano comunque un’opera di notevole intensità che, seppure obbedendo fedelmente ai cliché di una certa letteratura fantastica, non si sottrae all’impegno di pronunciarsi su argomenti di strettissima attualità come il ruolo delle multinazionali e la concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani delle oligarchie. Greg Rucka, già autore di ottime run sul già citato Gotham Central per la DC e di The Punisher per la Marvel, sforna una delle sue prove migliori: la sua prosa secca e asciutta ci trascina in un mondo di avidità e ambizione sfrenata, collocato in un futuro prossimo ma sinistramente simile al nostro. Maestro nello sceneggiare sequenze d’azione che esplodono sulla pagine dopo essere state sapientemente costruite attraverso la suspense, Rucka eccelle anche nella caratterizzazione dei personaggi. Dopo la Renée Montoya di Gotham Central e la Kate Kane di Batwoman, lo sceneggiatore ci regala un altro straordinario personaggio femminile, Forever, indistruttibile e fragile allo stesso tempo, inconsapevole pedina nei giochi di potere della sua “famiglia”. Ottima anche la caratterizzazione dei singoli membri dei Carlyle, covo di serpi legate tra loro dalla conservazione dei privilegi e dall’ambizione smodata, che nulla hanno da invidiare ai famigerati Lannister de Il Trono di Spade: il rapporto palesemente incestuoso tra i gemelli Johan e Johanna ricorda quello altrettanto proibito tra Cersei e Jamie Lannister.

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La sceneggiatura serrata di Rucka non poteva trovare traduzione in immagini migliore delle dettagliate illustrazioni di Michael Lark. L’ex disegnatore di Daredevil realizza tavole dal respiro cinematografico, tra le migliori della sua carriera. La pagina è spesso suddivisa in sequenze di quattro strisce widescreen nelle sequenze d’azione più concitate, per poi lasciare spazio a primi piani e piani americani nelle scene di dialogo, lasciando intuire una padronanza del mezzo espressivo che farebbe la gioia degli studiosi delle teorie e tecniche del montaggio cinematografico. L’artista si mette completamente al servizio dello script secco e senza fronzoli di Rucka, sciorinando sequenze al fulmicotone che colpiscono l’occhio del lettore come una lama. Le bellissime illustrazioni di Lark sono esaltate dal formato scelto da Panini Comics, un pregevole cartonato su carta patinata dal prezzo contenuto, che inaugura la nuova collana 100% HD dell’editore.

Ottimo debutto che fa ben sperare per il proseguo della serie, in attesa di sapere se la presa di coscienza di Forever porterà alla sua auspicata ribellione nei confronti della terribile famiglia Carlyle.

 

Ribelli - La nascita degli Stati Uniti d'America

La storia della nascita degli Stati Uniti come li conosciamo ora è da sempre oggetto della fiction made in USA: se in campo cinematografico la rivisitazione della propria storia e delle proprie ragioni d’essere ha ispirato sia kolossal spettacolari come Il Patriota di Roland Emmerich che riflessioni d’autore come lo splendido Lincoln di Steven Spielberg, anche il fumetto non ha mancato di fornire un valido contributo. È il caso di Rebels, miniserie di recente pubblicazione scritta da Brian Wood per i disegni di Andrea Mutti, edita negli Usa dalla Dark Horse e proposta in Italia da Mondadori Comics all’interno della collana Historica col titolo Ribelli – La Nascita degli Stati Uniti d’America.

Come intuibile, seguiamo le vicende che hanno portato alla formazione degli Stati Uniti d’America e in particolare le vicissitudini di Seth Abbott, giovane colono del New Hampshire. Dopo un’infanzia segnata dal rapporto con un padre duro che condizionerà inevitabilmente le scelte della sua vita da adulto, Seth decide di combattere per la causa dell’indipendenza, avendo assistito con i suoi occhi alle violenze e agli abusi perpetrati dalle giubbe rosse al servizio della Corona Inglese. Il ragazzo si troverà davanti a scelte difficili, prima tra tutte quella di dover lasciare la giovane moglie Mercy per poter proseguire la lotta per l’indipendenza. La narrazione procede quindi su un doppio binario: da un lato seguiamo le vicende di guerra di Seth, che si guadagnerà la fiducia dei suoi superiori arrivando a svolgere un’importante missione per George Washington in persona. Dall’altro, assistiamo alle difficoltà della vita quotidiana di Mercy rimasta dapprima sola, e in seguito, con un bambino da allevare.

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Chi pensa di trovare in Ribelli la rappresentazione spettacolare della guerra di cui tanti film come il succitato Patriota sono impregnati resterà deluso: per nulla interessato ad imbastire un racconto epico o agiografico, Wood ci mostra le conseguenze della guerra su uomini e donne comuni, investiti da un dramma più grande di loro. È la storia vista attraverso gli occhi degli umili, uomini che devono abbandonare le famiglie senza sapere se faranno ritorno, contadini espropriati delle loro terre e costretti a subire violenze, donne sole che devono provvedere alla famiglia in assenza dei mariti, soldati che fanno la storia morendo sui campi di battaglia, senza che il loro nome venga ricordato. La sua è una prosa asciutta, non celebrativa; il suo è un linguaggio essenziale che esce dalla bocca di personaggi semplici ma così ben caratterizzati che restano nel cuore e nella memoria. È il caso del protagonista Seth, uomo di poche parole che conosce la durezza del lavoro, capace di votarsi a una causa nobile alla quale sacrificare anche più di quello che gli verrebbe richiesto, e di sua moglie Mercy, che a seguito delle circostanze dovrà imparare a contare solo sulle sue forze in un processo di emancipazione forse non desiderato all’inizio ma conseguito poi con orgoglio.

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Compendio perfetto ai testi di Wood sono i disegni di Andrea Mutti, ormai lanciatissimo negli USA dopo le esperienze in Italia e in Francia, che conferiscono al racconto una dimensione prettamente cinematografica grazie a tavole costruite orizzontalmente, a mò di schermo, candidando Ribelli ad un’eventuale trasposizione cinematografica o televisiva. Il suo tratto sporco è l’ideale per tratteggiare la polvere da sparo e i campi di battaglia, fucili ed uniformi, la neve calpestata dalle orme delle milizie, ma anche la quiete, purtroppo fuggevole, dell’intimità domestica. Importante menzione per i colori di Jordie Bellaire, reduce da una prova sfavillante sul Moon Knight della Marvel, a suo agio sia nel fumetto mainstream che in quello indie. Da elogiare la versatilità e la bravura della colorista americana, la migliore in questo momento, che dona luminosità e calore al bel tratto di Mutti, fondendosi in unico, gradevolissimo risultato.

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Il bel volume cartonato della Mondadori è arricchito da una puntuale introduzione di Sergio Brancato, utile sia come ripasso di fatti storici che potrebbero essere stati dimenticati dal lettore, sia come spunto di riflessione su alcuni aspetti della politica americana attuale. Trovano spazio inoltre alcuni bozzetti, gli studi dei personaggi di Mutti e le evocative copertine di Tula Lotay per i sei numeri della versione originale. Lettura consigliatissima non solo agli amanti della storia ma anche a quelli del buon fumetto, in attesa del già annunciato secondo volume.

Dark Knight III: The Master Race #1

Correva l’anno 1986 quando fece la sua comparsa sugli scaffali delle fumetterie americane il primo numero di The Dark Knight Returns, consacrazione definitiva dell’astro nascente di Frank Miller dopo un acclamato ciclo di Daredevil alla Marvel e l’approdo alla Dc Comics con Ronin, bizzarra commistione di cultura orientale, fumetto francese alla Métal Hurlant e fantascienza. Il successo di critica di quest’ultimo convinse i piani alti della Dc che i tempi erano ormai maturi per progetti più sofisticati rispetto alle pubblicazioni mensili dell’editore, che salvo poche eccezioni come lo Swamp Thing scritto da un giovane scrittore inglese di nome Alan Moore, erano state soppiantate nelle preferenze dai lettori da testate maggiormente al passo coi tempi come lo stesso Daredevil di Miller, The Mighty Thor di Walt Simonson o gli Uncanny X-Men di Claremont & Byrne.

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Tempi nuovi richiedevano eroi nuovi, o quantomeno una rilettura aggiornata e priva di retorica di miti usurati dal tempo, che tenesse conto della complessità politica, economica e sociale di quei favolosi anni ’80. Sono gli anni dell’amministrazione Reagan, della guerra in Afghanistan e delle tensioni con l’Unione Sovietica, dei repressivi governi Thatcher in Gran Bretagna, dell’invasione delle Falkland, ma anche gli anni degli yuppies, del miraggio dei guadagni facili in Borsa, del successo strabordante della musica pop con meteore da one hit wonder che vogliono cantare l’allegria di un decennio solo apparentemente spensierato ma in realtà profondamente controverso. In ambito fumettistico sono gli anni felici del revisionismo supereroistico, movimento che segna in modo indelebile la scena di quel momento: alfiere ne è stato Moore in Gran Bretagna con un ciclo epico e sconcertante di Miracleman, prima di proseguire l’opera negli USA con Watchmen. Proprio quest’ultima opera diventa, insieme al contemporaneo The Dark Knight Returns, l’emblema del suddetto movimento. Se la complessità del lavoro di Moore si presta fin da subito ad un’attenta analisi che a tutt’oggi non sembra essere terminata, è l’opera di Miller a godere di attenzioni immediate anche da parte di organi di stampa non di settore, suscitando un immediato dibattito su riviste di cultura pop ad ampia diffusione come Rolling Stone. La vicenda di questo Bruce Wayne invecchiato, che dopo aver smesso i panni di Batman per un decennio torna ad indossarne il mantello, disgustato dalla criminalità e dalla decadenza morale che popolano le strade di una Gotham City non più rassicurante scenario di inseguimenti e scazzottate ma minacciosa metropoli della modernità, attira le attenzioni di semiologi e sociologi della comunicazione. Chi ha qualche capello bianco ricorderà la prima edizione italiana in volume della Rizzoli – Milano Libri, con prefazione del compianto giornalista Enzo G. Baldoni e postfazione del famoso sociologo Alberto Abruzzese. Dark Knight è uno shock culturale fin dal suo primo apparire, uno dei primi esempi, nell’era della comunicazione di massa, di cultura ritenuta fino ad allora bassa ad essere ospitata tra gli esempi di cultura alta. È il motore della rinascita di un personaggio amatissimo, che grazie al traino del successo dell’opera di Miller conoscerà i fasti della fortunatissima trasposizione cinematografica del 1989, il Batman di Tim Burton. Basterebbe solamente parlare dell’iconica copertina della prima edizione in paperback americana: quel cielo plumbeo solcato da una figura scura vestita da pipistrello e attraversato da un fulmine diventa per un’intera generazione di lettori la sublimazione su carta della propria irrequietezza adolescenziale.

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Il lungo preambolo era necessario per sottolineare quanto questo Dark Knight III: The Master Race sia stato investito da enormi aspettative fin dal suo annuncio. Le perplessità circa la bontà di questa operazione sono state molteplici, come accadde d’altronde al primo sequel del 2002, The Dark Knight Strikes Again. Innanzitutto sono rischiose le premesse di un’iniziativa del genere: il Dark Knight del 1986 era un’opera perfettamente compiuta che, come sottolineava brillantemente Alan Moore nella celebre introduzione alla prima ristampa in paperback, introduceva l’elemento temporale nell’universo di un personaggio iconico della tradizione fumettistica che per decenni era rimasto sostanzialmente invariato. The Dark Knight Returns era per un Batman stanco e invecchiato, seppur combattivo, quello che Alamo era stato per Davy Crockett, l’epica avventura finale prima di essere consegnato per sempre alla leggenda. Come realizzare quindi un sequel dell’ultima battaglia, dell’impresa finale che consegna l’eroe al mito? Già Dark Knight Strikes Again aveva lasciato questa domanda inevasa, risolvendosi in una satira schizofrenica della società americana e dell’industria del fumetto dei primi anni 2000, arguta ma deludente come risultato finale. Inoltre, su Dark Knight III aleggiava il sospetto di essere una mera operazione commerciale, sospetto alimentato dall’uscita di ben 55 cover variant e da un già annunciato quarto capitolo, a conferma della volontà della DC di costruire un universo narrativo basato sull’opera milleriana. Terzo elemento di perplessità era inoltre il team creativo riunito per aiutare un Miller provato dai recenti problemi di salute: se il ritorno del veterano Klaus Janson (Daredevil, Dark Knight Returns) alle chine è stato subito salutato come una garanzia, era tutto da verificare l’apporto di Brian Azzarello (100 Bullets) come co-writere di Andy Kubert ( Origins, 1602) come penciler. Il risultato finale è stato quindi all’altezza delle aspettative?

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Diciamo subito che Dark Knight III: The Master Race è un buon fumetto, dalla confezione impeccabile, che nonostante paghi un evidente tributo al suo illustre predecessore non manca di cercare una sua strada autonoma. Questo primo numero si apre tre anni dopo le vicende raccontate in DK2, con la ricomparsa in azione di un Batman creduto fino a quel momento morto. Il vigilante pesta a sangue dei poliziotti colpevoli di essersi accaniti contro un teppista, in questo caso innocente: l’azione del Crociato Incappucciato viene ripresa da uno smartphone e lanciata in rete, suscitando l’interesse dell’opinione pubblica che si interroga sui motivi dietro al ritorno del Cavaliere Oscuro. Nel frattempo, nella giungla amazzonica, una combattiva Wonder Woman affronta ed abbatte una mitologica creatura a metà strada tra un minotauro ed un centauro. La donna che, porta in spalla un neonato di nome Jonathan (nome che lascia pochi dubbi circa l’identità del padre), entra poi in quella che sembra un’antica città, che lei chiama casa: sembra essere Themyscira, che quindi non sarebbe più collocata sull’Isola Paradiso. Intanto Lara, la prima figlia di Superman e Wonder Woman di cui avevamo fatto la conoscenza in DK2e che ha ereditato il manto di Supergirl, cerca il padre in quel che resta della sua Fortezza della Solitudine: lo troverà congelato sotto una cupola di ghiaccio, ma non avrà il tempo di rammaricarsene perché la sua attenzione verrà distolta dai minuscoli abitanti della città in bottiglia di Kandor, che chiedono il suo aiuto per uscire. Torniamo infine a Gotham City, dove la polizia sta dando la caccia a Batman, che in questo universo narrativo è considerato un fuorilegge: dopo un rocambolesco inseguimento il vigilante viene catturato, e il primo capitolo si chiude con un colpo di scena inaspettato. L’albo è completato dalla prima di una serie di annunciate backstories, scritta dagli stessi autori ma disegnata stavolta da Miller in persona, e dedicate ai personaggi di contorno della storia principale. Si comincia con il professor Ray Palmer, l’Atom del DC Universe, i cui pensosi soliloqui sulla natura dell’eroismo e sul fato dei suoi compagni della Justice League vengono interrotti dall’arrivo di Lara, che gli chiede aiuto per liberare la popolazione di Kandor.

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Difficile dare un giudizio a questa primo numero di Dark Knight III: The Master Race senza che la memoria corra al capolavoro del 1986: ma sono gli stessi autori a collegare l’opera al prototipo originale tramite citazioni e strizzatine d’occhio, prima tra tutte la presenza invadente dei mezzi di comunicazione nella storia. In The Dark Knight Returns Miller infarciva le vignette di schermi televisivi dai quali spregiudicati anchormen influenzavano gli spettatori, vaticinando l’importanza che la televisione avrebbe avuto nella formazione dell’opinione pubblica e partecipando cosi al dibattito iniziato da eminenti sociologi come McLuhan e Popper; in The Dark Knight Strikes Again del 2002 l’autore individuava nella presenza ossessiva della Rete la caratteristica precipua del nuovo millennio. Anche in DK3 non manca il confronto con le innovazioni tecnologiche della contemporaneità e questa volta l’attenzione cade sulle nuove possibilità offerte da tablet e smartphone. Ma lo stile narrativo presenta non poche differenze rispetto all’originale: se nel primo Dark Knight la narrazione era intensa e potente, la prima uscita di questo DK3 soffre del male di cui sembrano soffrire molti dei fumetti contemporanei, quella decompressione che diluisce la narrazione e che fa di queste prime 24 pagine solamente il prologo di un affresco che prenderà presumibilmente corpo con le prossime uscite. Il connubio Miller – Azzarello, che tante perplessità aveva suscitato in partenza, risulta tutto sommato ben riuscito: se la dimensione prevalentemente action di questa prima uscita fa pensare ad una preponderanza della penna di Azzarello, l’inconfondibile stile hard - boiled di Miller è ben riconoscibile in alcuni dei passaggi più significativi, vedi il monologo interiore di Lara nella scena della Fortezza della Solitudine.

Il comparto artistico è tecnicamente ineccepibile, ed è una vera gioia per gli occhi. Nel segmento principale Andy Kubert, celebrato e rispettato veterano del settore, fornisce uno storytelling di straordinaria ed inesorabile potenza. Le sue matite per questo primo numero hanno ricevuto molte critiche soprattutto perché, complici anche le chine di Janson, imiterebbero in maniera pedestre lo stile di Miller. Trovo queste critiche piuttosto ingenerose: l’ex illustratore di X-Men si allinea graficamente allo stile dei due precedenti Dark Knight, in quello che vuole essere un sentito e caloroso omaggio ad un capolavoro che ha rivoluzionato il settore, ma le sue matite sono Kubert allo stato puro. Oltre a Miller, il figlio più dotato del grande Joe Kubert omaggia anche il David Mazzucchelli di Batman: Year One, nella sequenza in cui Batman plana su un gruppo di poliziotti. Non c’è il gusto per l’eccesso e per la provocazione stilistica tipica del tratto di Miller e questo rende DK3 meno interessante, ma non per questo meno valido, dal punto di vista grafico.
I colori di Brad Anderson segnano un netto distacco dall’opera originale: se in Dark Knight la tavolozza di Lynn Varley ci regalava una Gotham piena di ombre e sfumature di grigi, la palette di Anderson esplode di luci calde.

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Ma la vera gioia per chi scrive è rappresentata dal mini-comic di Atom nel secondo segmento: disegnato da Miller in persona e inchiostrato da Janson, vede la reunion del team artistico di Daredevil e del primo Dark Knight dopo quasi un trentennio, dopo un litigio per alcuni dissapori sorti all’indomani dell’uscita del primo capitolo. La riunione con Janson fa benissimo a Miller, che consegna alcune delle tavole più belle della sua carriera recente, smussando alcune incertezze che avevano contraddistinto le ultime prove. Oltre all’emozione di ritrovare una coppia artistica che ha fatto la storia del fumetto americano, fa piacere rivedere un Frank Miller in grande forma.

L’impressione ricavata dalla lettura di questa primo numero è più positiva che negativa: per quanto paghi un inevitabile tributo sentimentale al capolavoro del 1986, la sensazione è che questo DK3 lascerà un segno solo se sarà in grado di individuare una strada propria e percorrerla senza guardarsi indietro: le premesse ci sono tutte.
Aspettiamo quindi le prossime uscite di Dark Knight III: The Master Race per poter fornire un giudizio più esaustivo e per scoprire cos’hanno in serbo gli autori per i lettori, a partire ovviamente dalla rivelazione dell’identità de "La Razza Padrona" citata nel titolo.

Fellini - Viaggio a Tulum e altre storie

Torna disponibile nelle librerie a 26 anni dalla prima pubblicazione Viaggio a Tulum, opera che ha segnato l’incontro artistico tra due maestri assoluti dell’immaginario, Federico Fellini e Milo Manara. Nata come sceneggiatura per un film da realizzare e apparsa a puntate sul Corriere della Sera nel 1986, la storia appartiene ai grandi progetti irrealizzati di Fellini, come il celebre Viaggio di G. Mastorna. Successivamente rimaneggiata dal grande regista, viene tradotta in immagini dalla matita sublime di Manara, legato a Fellini da profonda stima reciproca ed amicizia.

I due si erano conosciuti nel 1985, anno in cui Manara realizza una storia breve come omaggio al regista di Rimini, Senza Titolo. A Fellini la storia (contenuta anch’essa nello splendido volume della Panini Comics) piacque molto, tanto da voler conoscere l’autore. Così, grazie alla complicità di Vincenzo Mollica, amico intimo del Maestro ed esperto di fumetti, avvenne il fatidico incontro. Tra i due nasce una simpatia e una stima istantanea, che diverrà più forte col passare degli anni: Fellini è da sempre una delle influenze maggiori di Manara, nel cui lavoro ritroviamo spesso quella dimensione visionaria e surreale tipica di opere come 8 e ½. Il cineasta, per contro, è un grande estimatore del tratto sensuale dell’illustratore. I presupposti per una collaborazione ci sono tutti e l’occasione si presenta sul finire degli anni ’80 quando Fellini, visti i costi proibitivi e la difficoltà di reperire i fondi necessari, decide di trasformare Viaggio a Tulum in un racconto a fumetti per i disegni di Manara. Il risultato finale vede la luce sulla rivista Corto Maltese, a partire dal luglio 1989, come storia a puntate dal titolo Viaggio a Tulum da un soggetto di Federico Fellini per un film da fare.

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La trama è volutamente poco più che abbozzata, in modo che il lettore possa immergersi fin dalla prima pagina nell’immaginario felliniano. Un Vincenzo Mollica dalla connotazione fortemente caricaturale arriva in una Cinecittà onirica, popolata solo dalle suggestioni dei film di Fellini: c’è la bambina demoniaca di Toby Dammit da Tre Passi nel Delirio, la Giulietta Masina de La Strada, la troupe di 8 e ½, la Ekberg de La Dolce Vita, etc. Accompagnato da una bionda misteriosa incontrata poco prima, Mollica trova Fellini addormentato in riva ad un laghetto. All’improvviso un soffio di vento fa volare in acqua il cappello del regista: la bionda si tuffa per recuperarlo, e sott'acqua si trova davanti una inaspettata meraviglia: sul fondale giacciono, come relitti, i film mai realizzati dal regista. La donna non ha problemi a respirare sott’acqua e entra nella carlinga di un enorme aereo, arrestandosi davanti al corpo immobile di MastroianniSnàporaz (il nomignolo fumettistico scelto dal cineasta per il suo alter – ego cinematografico e amico fedele). A questo punto fa il suo ingresso Fellini, che poggia il cappello sulla testa dell’inanimato Snàporaz – Mastroianni, dandogli vita: da questo momento sarà lui il protagonista della storia. Nel frattempo sopraggiungono anche Mollica e la ragazza bionda, e l’aereo inabissato improvvisamente riavvia i motori e decolla, giusto il tempo di concedere il tempo a Fellini e alla ragazza di uscire dal velivolo e guadagnare la superficie dello stagno.
 
L’aereo atterra a Los Angeles, dove Snàporaz e Mollica devono incontrare Maurizio, un produttore cinematografico interessato a produrre un film sulle antiche culture del centro America, in particolare quella tolteca. Da qui inizia un racconto, a metà tra il mistico e il surreale, popolato da misteri e strani incontri. Dopo varie peripezie e dopo aver accolto tra le proprie fila Helen, la bionda misteriosa che era apparsa nel prologo di Cinecittà, e un professore esperto conoscitore della civiltà tolteca, i nostri eroi giungeranno nel cuore della giungla nana, dove apprenderanno i segreti degli antichi stregoni aztechi.

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Pur contenendo non pochi riferimenti allo sciamanesimo e ai libri di Carlos Castaneda in particolare, Viaggio a Tulum è un’opera perfettamente inserita nel corpus felliniano. Già in film come La Dolce Vita, ad esempio, era chiara la malinconica constatazione dell’innocenza perduta e la denuncia di un mondo diventato ostile all’uomo a causa della corruzione dilagante. La ricerca di una dimensione più autentica, sottratta all’essere umano dalla modernità, non avveniva però con i modi del cronista, del polemista nostalgico, ma dell’artista che grazie alla sua sensibilità tende a cercare rifugio nella fantasia, nel sogno, nel ricordo, non sottraendosi comunque ad un inevitabile confronto col male di vivere della società attuale. Questa poetica, che trova  piena compiutezza nei film della maturità come 8 e ½ e Amarcord, anima anche le pagine di Viaggio a Tulum: il mito di un’età dell’oro ormai perduta, tipico dell’opera felliniana, viene qui incarnato dall’antica civiltà tolteca, i cui sacerdoti custodiscono una saggezza ormai irraggiungibile dall’uomo moderno. Come nelle sue opere migliori, la trama è un gracile supporto al susseguirsi di immagini di sfolgorante bellezza e camei d’eccezione (significativa la presenza di Jodorowsky e Moebius nella sequenza della conferenza stampa), una carrellata di episodi dai significati reconditi che vengono lasciati sedimentare nell’inconscio del lettore.

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L’atmosfera onirica e sognante della sceneggiatura di Fellini viene tradotta in tavole di seducente  splendore dalla matita incantata di Milo Manara. L’artista di Luson realizza scene di grande impatto visivo, degne di un kolossal cinematografico: lasciano di stucco sequenze come il prologo a Cinecittà e l’arrivo alla Babel Tower. Morbido e sensuale come sempre, il suo stile ricco di dettagli regala luminosità ad un soggetto non privo di elementi inquietanti ed oscuri, che vengono smussati dalla grazia e dall’eleganza di un tratto in grado di combinare spontaneamente erotismo ed ironia come nessun altro.

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Il pregevole volume proposto da Panini Comics presenta come bonus due storie brevi, la Senza Titolo di cui abbiamo parlato in apertura e Reclame, apparsa per la prima volta nel 1986 su Il Messaggero Supplemento Estate, sferzante critica a quella tv commerciale che negli anni '80 cominciava la sua rapida ascesa dagli esiti oggi ben noti e già vaticinati dallo stesso Fellini in Ginger & Fred. Rileggere oggi queste storie è utile per comprendere quanto un artista come Fellini manchi non solo al cinema italiano, ma al dibattito intellettuale del nostro Paese.

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