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Paolo Pugliese

Paolo Pugliese

Da John Doe a Orfani: intervista a Luca Maresca, anteprima esclusiva Ringo 2

Luca Maresca è un affabile, giovane artista della scuderia Bonelli conosciuto per il suo lavoro sulla serie Orfani, che abbiamo incontrato in occasione dell’evento “Work in Progress”: un workshop con conferenza, sessione di sketch live e mostra di tavole a fumetti e illustrazioni organizzato dal disegnatore foggiano Giuseppe Guida e incentrato sull’arte del fumetto moderno e su giovani autori emergenti. Classe 1983, Maresca vive e lavora a Salerno. Diplomatosi in “Grafica e Fotografia Pubblicitaria”, ha iniziato la sua carriera illustrando libri e alcuni inserti  per Il Mattino di Salerno. Dopo tre anni alla facoltà di Beni Culturali, passa alla facoltà di pittura all'Accademia di Belle Arti di Napoli. Nel 2008 entra in EURA/Aurea nello staff di John Doe. Realizza il numero 69 della prima serie e poi il numero 3 e il 6 della seconda serie, più un racconto dello spin-off Trapassati.inc pubblicato sul settimanale Skorpio. Contemporaneamente disegna Dibbuk, un fumetto splatter per la BD. Nel 2011 entra in Bonelli e diventa parte dello staff di Orfani, la maxiserie di fantascienza ideata e scritta da Roberto Recchioni ed Emiliano Mammucari, della quale ha realizzato il numero 5. È docente presso la nuova scuola di comics di Salerno.

Il prossimo 15 novembre sarà in edicola il numero 2 di Orfani: Ringo, da lui disegnato. Qui di seguito, e nella gallery in basso, potete ammirare le prime 6 tavole in esclusiva.

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Ciao Luca e benvenuto su Comicus.
Tu sei una delle nuove leve della Bonelli, l’editore italiano più importante ma anche il più tradizionale nel panorama fumettistico italiano, eppure mai stato così attivo e poliedrico nell’offerta come in questi ultimi anni, sperimentando anche nuove formule editoriali come appunto Orfani. Qual è la tua opinione riguardo questo processo di apertura verso nuovi generi e nuovi approcci narrativi?

Bè, innanzitutto sono scelte editoriali che tengono conto anche dei cambiamenti del mercato e dei nuovi generi narrativi che riscuotono interesse, poi ovviamente cambiano gli scrittori. C’è un cambio generazionale non solo tra i disegnatori ma anche tra gli sceneggiatori che ha portato ovviamente a nuove direzioni. Ad esempio, in questo periodo si sta cercando di rinnovare un po’ Dylan Dog, quindi una nuova fase è appena partita, con storie nuove attraverso le quali si tenterà di dare al personaggio una forza di maggiore impatto, come era agli inizi della serie negli anni ’80, adattandosi ai nuovi tempi. Per Orfani è stata invece una scelta molto particolare: nonostante la serie sia arrivata in edicola dopo la morte di Sergio Bonelli, era un progetto già approvato e pianificato nei dettagli con lo stesso Sergio. Si è deciso di creare una serie del genere innanzitutto per abbracciare un’altra fetta di pubblico, di un’età anche inferiore rispetto a quella dei lettori classici di Dylan Dog che, all’epoca, avevano 17 anni e adesso ne hanno una trentina o anche una quarantina, oppure anche rispetto ai lettori di Tex, di fascia generazionale più alta che, forse, non leggerebbero mai un prodotto come Orfani. Quindi, è stata creata questa miniserie un po’ per andare incontro alle nuove generazioni di lettori - lo stesso Roberto Recchioni lo ha definito come “il fumetto che avrei voluto leggere io a 13 anni” – e un po’ per portare una ventata di novità nell’offerta della Bonelli. Infatti, non dimentichiamo che è anche la prima miniserie in assoluto realizzata totalmente a colori: non è un albo speciale come poteva essere il Dylan Dog n.100 o il Tex n. 200, ma è un titolo pensato unicamente per il colore. Un progetto con un approccio totalmente diverso rispetto ai fumetti pubblicati in bianco e nero, con colori pensati appositamente per le tavole a disegni e una lavorazione differente che ha comportato un impegno immenso sia della redazione che degli autori e dei disegnatori, con un metodo di lavoro diverso rispetto a quanto fatto prima. Partendo quindi da questi piccoli cambiamenti nell’offerta editoriale, si tende non solo a proporre prodotti in linea con i tempi, ma anche ad educare il pubblico alla lettura di questo particolare tipo di fumetti. Poi si è sperimentato anche un’altra formula di mercato: quella di un’edizione nuova di Orfani per il circuito delle librerie, prima ancora che quella da edicola sia completata, realizzata con un formato diverso, più grande, cartonato, ricco di contenuti, frutto di una sinergia tra Bonelli e un’altra casa editrice, la Bao, specializzata in prodotti da libreria e fumetteria. Quindi, la Bonelli pondera molto prima di affacciarsi e rischiare su altri percorsi, però tenta sempre di affrontare nuove realtà tenendo conto di gusti e tendenze.

Il tuo stile di disegno è molto realistico,  come ti sei trovato ad affrontare le  tematiche di fantascienza in Orfani per design, scenari e tecnologia futuristica? Quali difficoltà hai affrontato e che genere di materiale di riferimento ti ha fornito la Bonelli?
Iniziamo dall’ultima domanda: tutto il team che ha lavorato ad Orfani ha creato una sorta di bibbia con tutto lo studio dei vari aspetti grafici della miniserie: voglio dire, lo studio delle armature, delle armi, delle astronavi, degli alieni. Quindi c’è dietro uno studio enorme e noi disegnatori abbiamo avuto tantissima documentazione, anche suggerimenti su determinate sequenze di film da vedere per farsi un’idea dell’aspetto visivo da raggiungere. Per quel che mi riguarda invece, a parte il mio disagio nel disegnare le tre cose che odio di più disegnare, cioè bambini, astronavi e armi (ride), cosa già di per se non facilissima che comunque ho affrontato con la massima tranquillità, la mia difficoltà maggiore è stata disegnare questi ragazzini che si trovano in una fase d’età molto particolare, dove non sono né bambini, né adulti. Visualizzarli in maniera credibile nella loro adolescenza per me è stato abbastanza complicato, anche perché era la prima volta che affrontavo una cosa del genere.

Hai disegnato il quinto numero di Orfani, che è stato anche il tuo albo di esordio alla Bonelli. Quanto tempo hai impiegato per realizzarlo?
Mediamente un disegnatore veloce impiega intorno ai sette-otto mesi per completare un albo. Io ci ho messo un anno e mezzo per finirlo (ride). Me la sono presa comoda, ma per le difficoltà che ti ho detto. Per l’albo che ho disegnato della nuova stagione di Orfani, Ringo, mi hanno dato sette mesi di tempo ed ho dovuto un po’ correre per rispettare questa scadenza perché, ovviamente, un anno di tempo è troppo (ride).

Qual è stato il personaggio che ti è piaciuto di più disegnare e che hai interpretato o reso più tuo?
Per un caso, in realtà, sono stato assegnato al numero dove si rivela l’identità del personaggio chiamato Il Cecchino. Se, inizialmente, quello preferito da tutti i lettori poteva sembrare il Pistolero, con la benda rossa e che appare come il ribelle del gruppo, a me è invece toccato sviluppare questo personaggio, strano, un po’ ambiguo all’inizio, ma forse il più umano di tutti. Quindi si, mi è piaciuto disegnarlo e sono stato molto contento di avergli dato un viso.

Come hai reso graficamente la sua umanità, al di là della sceneggiatura?
Nella storia, lui è l’unico che si pone domande più concrete, più vere, quindi lo studio maggiore che ho fatto è stato sulla sua espressività, sull’espressione del dubbio, sulle luci e le ombre che poi devono creare un aiuto nella lettura, una drammaticità all’interno della narrazione. Lo studio principale è stato questo: capire come si poteva esprimere attraverso anche una contestualizzazione anche del colore, del contrasto tra nero, bianco, ombra. È un lavoro che poi non ho fatto comunque solo io, ma sono stato aiutato dalla colorista Alessia Pastorello.

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Come hai già detto, dal punto di vista della lavorazione, Orfani è stato concepito come un fumetto da pubblicare a colori. Quali sono nello specifico le differenze a livello tecnico nel disegnare un fumetto pubblicato in bianco e nero e disegnare invece un fumetto pubblicato a colori?
Quando abbiamo iniziato a lavorare, io ho chiesto immediatamente a Roberto Recchioni ed Emiliano Mammucari come dovevo affrontare la situazione, perché per me era la prima volta per tutto: la prima volta in Bonelli, la prima volta con un fumetto a colori… quindi mi chiedevo come dovevo fare? Loro mi hanno detto di lavorare in maniera normale, cioè, come se stessi lavorando a un fumetto in bianco e nero. Però, proprio per il concetto che Orfani è un fumetto che nasce per essere pubblicato a colori, ho tentato di limitarmi con l’uso dei neri molto forti sennò sarebbe stata molto pesante la colorazione e poi la lettura. Ho quindi pulito parecchio il mio tratto e questa cosa si può notare soprattutto sulle tavole in bianco e nero, con molti piani ad esempio non sono separati bene… ho lasciato dei procedimenti per la lettura dell’immagine alla colorista, in modo che anche lei mettesse molto di suo, quindi una personalizzazione della tavola al 50% si deve anche all’apporto della colorista. È stato un lavoro in team e devo dire che mi è molto piaciuto lavorare in questo modo.

Con Orfani sei tornato a lavorare insieme allo sceneggiatore Roberto Recchioni, con il quale avevi già collaborato nella serie John Doe, pubblicato dall’Aura. Come è avvenuta la reunion? È stato lui a chiamarti?
In realtà sì. Stavo lavorando al mio numero di John Doe e Roberto mi disse che voleva farmi fare delle prove preliminari per questa miniserie alla quale stava lavorando per la Bonelli. Ho quindi dovuto fare delle prove che, tra l’altro, sono state pure bocciate e le dovute rifare. Poi, quelle nuove sono piaciute e fu Roberto stesso che mi comunicò che ero stato preso alla Bonelli per Orfani.

Cosa puoi dirci invece sull’albo della nuova serie Orfani: Ringo che hai disegnato?
Mi è stato affidato il numero 2, che sarà in edicola il prossimo 16 novembre. Non posso dire molto in merito se non che il viaggio di Ringo è itinerante: nel mio albo parte da Napoli e arriva a Montecassino, e li ne vedremo delle belle! Mazzate!!!!

Tu sei un esponente della cosiddetta scuola Salernitana, fucina di tanti talenti che lavorano tanto in ambito nazionale quanto internazionale. Quali sono gli aspetti salienti che vi contraddistingue rispetto altre scuole, come ad esempio quella napoletana e quella siciliana?
Innanzitutto, come tu stesso hai già anticipato, la scuola salernitana non si indirizza soltanto sul mercato italiano ma è una scelta di stile, con un tratto particolare, pulito, senza troppi fronzoli e molto leggibile. Diciamo che per un caso, negli anni ’70 e ’80, a Salerno si sono raggruppati in uno studio questi disegnatori con la passione comune per il fumetto e quindi è nato questo tratto simile, perché si sono completati tra di loro e poi, col passare degli anni, si è venuto a creare questo filone. Io ne faccio parte un po’ perché sono di Salerno e un po’ perché è stato una sorta di percorso naturale riuscire ad arrivare a quello stile, anche perché sono stato sempre affascinato dal tratto di Bruno Brindisi, di Luigi Siniscalchi, di De Angelis, quindi di tutti questi maestri che facevano parte della corrente di questa scuola salernitana, creata poi da loro stessi.

Come si lega il tuo passato professionale di grafico e fotografo pubblicitario diplomato con il tuo presente di disegnatore? Come è avvenuto il passaggio dall’uno all’altro ambito e quanto ti è stato d’aiuto aver studiato fotografia pubblicitaria per il tuo apprendistato e la tua gavetta di illustratore?
Allora, io ho fatto l’istituto d’arte e lì ho naturalmente studiato grafica e fotografia pubblicitaria. La cosa migliore che mi poteva capitare è stato essere alunno di un docente come Enzo Laurìa, disegnatore di fumetti che lavora per il mercato francese, il quale mi ha insegnato tantissimo a livello di metodo di lavoro; la grafica mi ha insegnato ad essere ordinato, ad avere criterio, e la fotografia mi ha aperto parecchio allo studio delle luci e delle ombre. Poi, la fotografia artigianale in bianco e nero, è quella che personalmente adoro di più e che permette anche molto di studiare gli effetti di ombreggiatura o chiaroscuro. In realtà, io penso che faccia tutto parte di un percorso che tu non scegli direttamente perché, per esempio, la mia passione per la fotografia in bianco e nero me l’ha trasmessa mio padre, che ha fatto l’Accademia di Belle Arti ed ha avuto come insegnante il grande Mimmo Iodice. I miei genitori sono pittori, così come anche mio nonno è stato un famoso pittore napoletano, quindi è stato relativamente facile il passaggio dalla fotografia al disegno, essendo cresciuto vedendo sempre disegnare e dipingere…

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Come lettore, professionista e docente, come vedi il presente del fumetto italiano, tra nuove mode, il predominio dei Manga e la nuova generazione di lettori?
Riguardo la situazione di fumetto in Italia, io e i miei colleghi ci accorgiamo, anche insegnando a scuola, che l’educazione nella lettura viene anche dalla curiosità che ha un ragazzo nell’approccio verso le cose che vede. Se da noi in Italia arrivano determinati pacchetti, composti da cartone animato-giocattolo-manga, è un problema un po’ di cultura italiana perché non c’è un’efficace controfferta, appunto, a causa di una nostra percezione errata. Il fumetto viene visto ancora come svago per ragazzini e non come letteratura grafica. Molti dei nostri ragazzi che vengono a lezione, hanno l’idea di voler disegnare senza capire o sapere cosa sia un fumetto… alcuni non ne hanno mai letto uno. C’è quindi un problema proprio alla base ed è già un grande passo avanti che si siano incuriositi nel venire a scuola. Il grosso sta nel saperli educare, anche semplicemente ad aprirgli la mente verso determinate letture, cioè il fumetto.

Quali sono le differenze nel promuovere oggi i propri lavori rispetto al passato, considerando che, grazie ai social, c’è una concorrenza maggiore di disegnatori a fronte però della mancanza di un rapporto interpersonale con gli autori alle fiere del fumetto?
Io ho iniziato girando per le fiere di fumetto, facendo vedere i disegni che realizzavo a casa. Quindi nessun contatto internet ma tutto alla vecchia maniera, di persona. Ho fatto però una scuola di fumetto, quindi ho avuto un’educazione, ho avuto un insegnante che mi diceva cosa aggiustare e su cosa dovevo lavorare nel tempo. Quando mi sono sentito pronto per qualcosa ho portato i miei lavori in giro ed ho iniziato piano piano a salire i gradini fino ad arrivare in Bonelli. Oggi è sicuramente più facile, non tanto lavorare, ma arrivare agli occhi di tutti. Basti pensare che a noi autori ci arrivano mail di ragazzi che ci sottopongono le loro tavole. Già sei anni fa questo non succedeva, perché non c’era Facebook e quindi noi non eravamo rintracciabili come lo siamo oggi. Non so se sia un bene o un male, personalmente mi diverto molto vedere le tavole di giovani disegnatori che provano a farsi strada. Noi, all’epoca, non avevamo questa possibilità, non potevamo contare su questi passaggi. Io ricordo che dopo aver frequentato la scuola del fumetto sono stato anni a spasso senza sapere dove andare. Per la voglia di fare bussavo alla porta di Bruno Brindisi per sottoporgli i disegni e sapere cosa correggere. Oggi con i social il contatto è più immediato, ma ci sono due volti della stessa medaglia: ragazzi che vogliono fare ed apprendere, accogliendo tutte le critiche e altri che invece non sono ricettivi né disposti a studiare o correggere i propri errori, dicendo “ma questo è il mio stile” e magari chiedendo quale possa essere la casa editrice adatta a loro. Quando vedo questi ragazzi, che magari si offendono pure, penso a quello che abbiamo fatto noi alla loro età: le sudate, le file, i viaggi da Salerno a Lucca, Roma, Mantova, Milano, andando lì senza essere nessuno, con una cartella piena di disegni da far vedere in giro e ce ne tornavamo a casa con i consigli e le indicazioni su tutto quello che dovevamo aggiustare. E facevamo davvero vedere le nostre cose a chiunque, per la speranza o di un consiglio in più o di magari di un primo lavoro. Insomma, se uno vuole iniziare in questo campo, si deve buttare, ma con la coscienza anche dei propri limiti e la volontà di migliorarsi strada facendo, sopportando all’inizio anche quando una casa editrice ti dice che ti pubblica ma senza pagarti. I miei erano comunque tempi diversi ed altre situazioni. Il sunto è che comunque oggi con internet è certamente molto più facile promuoversi, ma anche per autori già affermati che magari vogliono provare a lavorare per altre realtà come la Francia o l’America. Ad esempio, io grazie a Internet ho fatto un piccolissimo lavoro per gli americani e spero di farne altri, magari un domani vorrei provare per la Francia. Il problema per chi comincia è però avere quell’umiltà di accettare consigli e critiche e soprattutto non limitarsi solo ai social ma fare il proprio cammino anche alle fiere.

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The Massive è una maxiserie di una dozzina di numeri che, a metà strada tra avventura, ecologismo e fantascienza post-olocaustica, è un progetto creator-owned di Brian Wood, sceneggiatore famoso per tanti archi narrativi su Conan, X-Men, Star Wars e Ultimate X-Men. Pubblicata in America dalla Dark Horse, in Italia ci è stata invece proposta nell’arco degli ultimi 12 mesi dalla Panini Comics, tramite 6 albi bimestrali, riuniti ad ottobre in un pack raccolta. Il titolo è in realtà il nome di una nave misteriosamente scomparsa, appartenente al gruppo di ambientalisti chiamato Ninth Wave. I loro compagni, a bordo della Kapital, hanno il duplice obiettivo di setacciare gli oceani alla ricerca della Massive e al tempo stesso sopravvivere in un mondo che non è più quello che conosciamo. Dopo infatti una lunga serie di eventi catastrofici provocati dai cambiamenti climatici, la terra è diventato un pianeta più ostico per gli esseri umani: il livello degli oceani si è alzato sommergendo una buona parte di terre e città, con pensanti conseguenze geofisiche e politiche di fronte alle quali l’uomo non può fare altro che adattarsi e sopravvivere.

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Con The Massive Brian Wood torna alle tematiche fanta-sociologiche della sua serie più apprezzata, ovvero DMZ, pubblicata anni fa per la Vertigo/DC comics. La serie parte da un presupposto catastrofico, già esplorato anni fa dal film Waterworld interpretato da Kevin Costner, ma si discosta ben presto dall’impronta prettamente fantascientifica per assumere la forma di un’avventura eco-thriller mescolata a dramma esistenziale e riflessioni antropologiche. Una storia peculiare per forma e sostanza, caratterizzata da una cronaca realistica degli eventi unita a un timbro intimista nell’affrontare il viaggio senza apparente meta del capitano della Kapital, Callum Israel, e del suo equipaggio; un viaggio, non solo materiale ma anche esistenziale, alla ricerca tanto dei compagni quanto della propria identità, in un mondo apparentemente condannato alla rovina. L’intreccio ideato da Wood è composto da una narrazione di ampio respiro e di forte contenuto politico, che si alterna all’introspezione dei personaggi. Da un lato ci viene descritto un mondo dove l’economia globale è crollata così come i governi, con le divisioni sociali che non esistono più e il ruolo del danaro cancellato di fronte ad altri valori legati a beni di sussistenza come cibo, acqua potabile, carburante, armi e pezzi di ricambio sempre più rari. Dall’altro lato, invece, ci viene raccontato come gli esseri umani possono sopravvivere a tutto ciò. La chiave di volta dell’intera operazione non è però il ritratto globale cataclismatico, ma il gruppetto di protagonisti che, interagendo sia tra di loro che con l’ambiente circostante, non si limitano ad essere semplici “interpreti” della storia bensì, con le proprie azioni, il loro passato e i loro segreti, portano dinamiche ed elementi che danno direzione narrativa alla saga.

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Questa maxiserie è composta da mini cicli che vanno dai 2 ai 4 episodi, raccontando ciascuno un differente aspetto del mondo di The Massive, alla cui realizzazione hanno partecipato diversi disegnatori che si sono alternati tra di loro. Kristian Donaldson, autore dei primi due episodi, si presenta come un artista dallo stile molto realistico e dettagliato, titolare di tavole che sembrano composizioni fotografiche. A lui poi subentra, nel secondo ciclo narrativo, un Garry Brown dallo storytelling meno statico e più naturale, con un timbro visivo più sporco e noir, disegnando il maggior numero di episodi per poi essere sostituito dalla coppia Declan Shalvey e Danijel Zezelj; i due realizzano un lavoro dignitoso ma caratterizzato da una resa visiva inferiore a livello qualitativo nonché di personalità rispetto ai precedenti colleghi, riuscendo però a garantire una certa coerenza grafica all’intera opera. The Massive è un fumetto anomalo per tematiche, ambientazione e stile narrativo decompresso, ma come per tanti altri prodotti targati Dark Horse, è un’interessante opera d’autore che merita di essere letta.

I Nuovissimi X-Men Vol.1 – Gli Eroi di Domani

A distanza di appena un anno dalla prima pubblicazione in edicola, la Panini comics pubblica a sorpresa un’edizione deluxe del recente titolo mutante scritto da Brian Michael Bendis e disegnato da Stuart Immonen, definito all’unanimità come la migliore serie attuale degli X-Men (insieme alla nuova X-Factor di Peter David). Il presente volume, I Nuovissimi X-Men: Gli Eroi di Domani, ne ristampa i primi 5 episodi con un’accurata veste grafica e soprattutto un formato cartonato, completo di gallery con sketch e cover originali e alternative, il tutto ad un prezzo contenuto. Un esperimento, forse, per tastare il terreno in favore di una linea di TP “istantanei” che ristampi titoli o cicli recentissimi di una certa rilevanza, in tempi brevi. Ad ogni modo, applaudiamo questa iniziativa e questa politica editoriale se essa coniugherà un rapporto qualità/prezzo favorevole per i lettori.

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A dispetto del titolo con la parola “Nuovissimi”, Bendis pone sotto la luce dei riflettori i cinque X-Men originali, ovvero i primi studenti del Professor X: gli adolescenti Scott Summers/Ciclope, Jean Grey/Marvel Girl, Bobby Drake/Uomo Ghiaccio, Warren Worringhton/Angelo e Hank McCoy/Bestia vengono strappati dal loro passato e portati nel futuro, ovvero il nostro presente. E qui recepiamo l’unico aspetto negativo della serie, ovvero l’idea portante: è evidente quanto sia forzato l’incipit incentrato sulla decisione di un Hank McCoy adulto di viaggiare indietro nel tempo e portare nel presente gli X-Men del passato solo per convincere un Ciclope ormai anarchico e senza scrupoli (in seguito agli eventi delle saghe Scism e AvX) di star percorrendo una strada sbagliata, ponendolo di fronte a un sé stesso adolescente e idealista. Nonostante però la decisione di Hank McCoy sia un po’ troppo sopra le righe (tradendo la sua stessa caratterizzazione che, come scienziato, avrebbe dovuto soppesare la frattura del continuum temporale), gli eventi da essa provocati hanno un’impostazione così credibile e fulminante che bypassano in maniera quasi immediata la debolezza dell’idea iniziale, ponendo al centro dell’attenzione non solo l’intersection temporale dei giovani X-Men, ma anche l’intrigante confronto con le loro versioni attuali e il mondo che li circonda.

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Lo sceneggiatore di Ultimate Spiderman e Avengers dimostra particolare ispirazione e abilità nel descrivere in maniera realistica e non scontata lo shock provato tanto dai giovanissimi mutanti quanto dalle loro controparti adulte con il loro arrivo in un futuro molto diverso dall’utopia di integrazione che immaginavano. Le reazioni psicologiche ed emotive dei cinque protagonisti appaiono credibili e riconoscibili nella loro umanità adolescenziale, nonché coerenti con la loro caratterizzazione, arricchendo ulteriormente i confronti con gli altri X-Men del presente con interessanti sfumature psicologiche: drammaturgicamente notevoli, ad esempio, quelli di un giovane e attonito Ciclope di fronte al suo io adulto e disincantato (che nella serie ha uno spazio considerevole), nonché poi con Wolverine; oppure tra i due Angelo/Arcangelo, con l’adolescente a dir poco atterrito dall’oscuro futuro che lo attende. Con un tono di ineluttabilità, ci vengono dunque mostrate le due facce degli X-Men: passato e futuro si scontrano nell’amaro raffronto tra innocenza ed età adulta, tra come si era e come si è diventati; l’idealismo e la speranza dei giovani contro l’amarezza e il cinismo degli adulti a causa di tutti i drammi affrontati, rivelando un fato che colpisce come un maglio i cinque ragazzi. Da questo punto di vista, Bendis gestisce con attenzione le singole personalità e la loro evoluzione, nonché lo spostarsi degli equilibri nelle dinamiche di gruppo, ponendo progressivamente al centro del racconto due figure femminili caratterialmente forti come Kitty Pride e Jean Grey. Se la prima, ormai adulta e matura, si prende cura dei giovani mutanti come si presero cura di lei i suoi compagni quando, appena tredicenne, entrò nella scuola di Xavier, la seconda invece affronta la conoscenza del suo tragico destino, evolvendosi rapidamente e quasi inconsciamente di fronte al peso di ciò che l’attende, diventando in breve il fulcro del gruppo e relegando a un ruolo secondario il leader Ciclope, in preda a tutti i suoi dubbi e insicurezze.

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Fin da subito questa serie si rivela introspettiva e “parlata” come non si vedeva dai tempi del primo Chris Claremont, ma lo è in maniera agile e scorrevole, mettendo in primo piano i confronti di personalità e i dialoghi rispetto all’azione che, comunque, è presente, ma solo come aspetto correlativo al timbro drammatico della narrazione. Le matite dell’iconico Stuart Immonen risultano poi fondamentali per la riuscita grafica della serie, con uno stile che da un lato si adatta bene alle atmosfere della narrazione suggellandone il tono di dramma generazionale e dall’altro offre una composizione spettacolare delle tavole e un ritmo fluido nello storytelling che dona dinamismo anche nelle sequenze di dialogo più introspettive, cosa assolutamente non facile da realizzare, con poche ma ben fatte sequenze d’azione, di grande impatto visivo quanto emotivo.

Hammer 1 – Doppia Fuga

Un piccolo pezzo di storia del fumetto italiano, ingiustamente sottovalutato all’epoca della sua prima uscita, viene oggi riproposto da Mondadori Comics a due decenni esatti di distanza: parliamo naturalmente di Hammer, sfortunata serie di fantascienza di rilevante spessore, che torna nelle edicole e nelle fumetterie italiane grazie a una ristampa deluxe contraddistinta da tavole rimasterizzate, nuove copertine, pagine inedite, sketchbook e un formato inusuale, più grande rispetto sia a quello della testata originale sia agli standard tradizionali. Una collana mensile con l’obiettivo di pubblicare tutte le storie originali prodotte dal “gruppo Hammer” in rigoroso ordine cronologico con l’aggiunta di due albi speciali. Il presente, primo volume contiene gli episodi Tradita (numero zero della serie originale) e Doppia Fuga, introducendo la saga di tre detenuti in un carcere orbitale dal quale è impossibile evadere: l’hacker Helena Svensson, tradita dal suo partner per un furto di dati; il pilota e ladro Swan Barese; il cinico e pericoloso boss John Colter. Insieme guideranno un piccolo gruppo di carcerati in un rocambolesco piano di fuga che riserverà non poche drammatiche sorprese.

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Uscito ormai 20 anni fa, Hammer è stato per il breve periodo della sua pubblicazione uno dei due soli fumetti di fantascienza italiani degli anni ’90 (insieme naturalmente a Nathan Never) e, come succede per certi progetti forse troppo avanguardistici, non fu all’epoca capito dal grande pubblico che lo snobbò causandone la chiusura dopo appena 13 numeri. Pubblicato tra il 1994 e il 1996 per volontà dell’editore Giovanni Bovini della Star Comics, il quale voleva allargare il proprio parco di testate italiane toccando un argomento in quel periodo poco sfruttato nei fumetti come la fantascienza, Hammer si trovò ad avere contro due ingombranti fattori che ne decretarono l’insuccesso commerciale: il principale era il contesto storico-culturale di mercato di quel decennio, contraddistinto da un lato da un ristagno di idee della fantascienza cinematografica e letteraria (dispiace dirlo ma, tranne qualche rara eccezione, i peggiori film di fantascienza sono targati proprio anni ’90) e dall’altra da un’iper-offerta editoriale di prodotti americani sensazionalistici quanto sostanzialmente di basso livello, targati Marvel, DC, Image, Malibù Comics che, paradossalmente, assorbivano la maggior fetta di attenzione da parte dei lettori, contrapposta all’industria “classica” del fumetto italiano (Bonelli, tanto per fare un nome) che aveva un altro tipo di pubblico. Il progetto editoriale di Hammer si insinuò tra entrambe le fasce di lettori di allora presentandosi come un esperimento culturalmente trasversale, avente precise coordinate narrative per timbro, generi cine-letterari di riferimento e linguaggio meta-cinematografico: un solido mix difantascienza e action, scomposti tra space opera, cyberpunk, crime & prison story. E qui purtroppo si nasconde il secondo fattore di insuccesso: ovvero che questa serie era qualcosa di narrativamente e graficamente inusuale, con una narrazione fantascientifica forse un po’ avanti per quegli anni e sicuramente troppo diversa da quello a cui i lettori erano abituati, troppo violenta, distopica e per certi versi inquietante. Fine della storia.
Eppure, proprio le idee nuove, la trama non scontata e l’indubbia qualità dei disegni fece guadagnare a Hammer uno zoccolo duro di ammiratori che ne ha tessuto le lodi nel corso degli anni, facendolo diventare oggi un titolo di culto tramite il passaparola, gli articoli, le citazioni celebrative e naturalmente l’evoluzione linguistica e concettuale del mass media fumetto, arrivando ad avere il giusto riconoscimento come duplice prodotto mainstream d’autore.

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Nonostante alcuni suoi termini ed archetipi fantascientifici appaiano oggi un po’ desueti tanto a livello concettuale (la tecnologia informatica, telefonica e del cyberspazio, ad esempio), quanto a livello grafico (i mecha di derivazione giapponese, oppure le scenografie urbane e spaziali ispirate da titoli come Blade Runner, Alien o Gundam), Hammer mantiene comunque intatti fattori importanti di lettura come originalità e credibilità, confermando la forza e le potenzialità di una storia di fantascienza ricca di idee e dettagli, inerenti sia i personaggi sia lo scenario futuristico degradato, violento e in linea con l’immaginario cyberpunk. Da un punto di vista drammaturgico, al di là di qualche passaggio narrativo macchinoso e non immediatamente comprensibile, la trama è solida quanto ricca di azione, caratterizzata da un tono fortemente cinematografico e da un ritmo serrato, con dialoghi secchi ed elementi insoliti che definiscono l’evoluzione del racconto; l’intera struttura narrativa, infatti, ruota intorno all’interazione di ben tre personaggi principali: i ruoli di Helena, Swam e Colter fungono da leit motiv della narrazione e sono in forte contrapposizione caratteriale tra loro, marcati da un realismo tagliente e poco confortante che rende la loro storia e le loro scelte credibili ed aderenti alla nostra realtà perché fatte di zone d’ombra, compromessi, cinismo e decisioni violente o moralmente ambigue.

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Come poi già accennato prima, il versante artistico è di livello notevole, con una cornice visiva molto particolareggiata e due stili di disegno diversissimi tra loro per i rispettivi episodi in sommario: quello pulito, arioso e luminoso di Giancarlo Olivares e quello “sporco”, claustrofobico e ombroso di Majo, che conferiscono entrambi spessore e spettacolarità alla serie tanto per forma quanto per dinamismo e, soprattutto per Majo, anche per un ottimo storytelling, fluido e ben costruito. L’editoriale firmato da un esperto come Alessandro Di Nocera completa il sommario di questo primo numero, fornendo al lettore diversi spunti di approfondimento.

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