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Fabio Loiodice

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Dylan Dog 390 - La caduta degli dei (-10 alla meteora!), recensione

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Nel 1977 i Devo, la celebre band americana nota per le tute gialle e l’iconico cappello rosso a forma di piramide, lanciavano il loro singolo Jocko Homo (letteralmente, Homo Scimpanzè), il cui ritornello martellava “Are we not men?/We are Devo/Are we not men?/D-E-V-O!”. Cosa significa "Devo" e cosa c’entra con questo Dylan Dog #390, intitolato "La caduta degli dei?"
Devo è un’abbreviazione dell’inglese Devolution, una teoria inventata per scherzo ai tempi dell’università da due dei membri fondatori della band, Gerald Casale e Bob Lewis, la cui idea di fondo è semplice quanto assurda: l’umanità, dopo millenni di evoluzione, ha iniziato a compiere il cammino inverso, devolvendosi fino allo stadio di primate (Jocko Homo, appunto).
Ed è all’insegna della devoluzione che si apre questo numero, scritto da Paola Barbato e disegnato da Giampiero Casertano: l’avvicinarsi della meteora sembra aver precipitato Londra nel caos. La città, infatti, è diventata campo di battaglia di due fazioni avverse; da un lato una tribù di cavernicoli urbani che, coperti di pellicce e armati di asce, annunciano l’arrivo di una nuova età della pietra, dall’altro, invece, la squadra dei Cacciatori dell’Incubo, un gruppo di emuli del nostro Dylan Dog (emuli persino nel modo di vestire) col compito di stanare ed eliminare i mostri che si nascondono nella città.

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Dopo questa sequenza iniziale, che funge da collante con la storyline del Ciclo della Meteora, il focus della vicenda si sposta su Dylan alle prese con la dottoressa Primrose, una scienziata che, nel corso di una trasmissione televisiva, lo bolla davanti a tutti come un ciarlatano. La sua misteriosa scomparsa, tuttavia, spingerà il nostro Dylan ad indagare seguendo una pista che lo porterà fino alla N-Limited, una futuristica comune a metà strada fra Silicon Valley e un Ashram indiano ed al loro folle piano per scongiurare l’arrivo della meteora (piano che vi lasciamo il piacere di scoprire da soli, lasciateci solo suggerire che la devoluzione c’entra eccome).

La storia messa in piedi dalla Barbato si muove fra i consueti (ma non insistenti) omaggi alla cultura pop (Saw, Mad Max) e recupera persino le teorie evoluzionistiche di un personaggio curioso come Pierre Teilhard de Chardin, gesuita, teologo e paleontologo francese. Il risultato è una trama avvincente e interessante in cui per la prima volta i contatti con la storyline della meteora si fanno più consistenti.

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Il comparto grafico è affidato a Giampiero Casertano che, senza stravolgere la consueta griglia bonelliana, svolge un bel lavoro, in particolare sulla resa dei volti (notevoli le espressioni di dolore), sull’uso delle ombre e in alcuni dettagli. Meno bene, invece, è la caratterizzazione delle ambientazioni: buona parte della storia, infatti, si svolge nella sede della N-Limited, comunità di scienziati che ha come obiettivo il progresso ed il miglioramento dell’umanità. Peccato però che il design sia banalotto per quanto riguarda gli esterni e le tecnologie (l’omaggio alle vetture à la Mad Max è simpatico, ma stride con il resto dell’ambientazione) e davvero povero per quanto riguarda gli interni (stanze spoglie e anonime), con risultati davvero poco futuribili per una società che si suppone all’avanguardia nella scienza e nella tecnologia. Bella, come sempre, la copertina di Gigi Cavenago.

Infine, con questo numero è allegata l’ultima uscita dei Tarocchi dell’Incubo, contenente venti carte. Si tratta di un’operazione non nuova portata avanti in associazione con l’editore Lo Scarabeo e che, negli anni passati ha prodotto una serie di tarocchi a tema Bonelli (oltre a Dylan Dog, infatti, esistono due mazzi di tarocchi dedicati, rispettivamente, a Martin Mystère e a Nathan Never). Questa nuova edizione recupera il mazzo originario, composto solo dagli Arcani Maggiori (le figure, per intenderci) disegnati magistralmente da Angelo Stano e lo completa con gli Arcani Minori (le carte dall’asso al re, similmente alle carte francesi). Le immagini degli Arcani Minori recuperano le copertine di Dylan Dog vecchie e nuove. Se le copertine, in alcuni casi, sono molto belle, avremmo però preferito una serie di disegni ad hoc che rappresentassero in maniera più iconica i semi e le figure.

Dylan Dog 389 - La sopravvissuta (-11 alla meteora!), recensione

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Con questo Dylan Dog numero 389, dal titolo "La sopravvissuta", scritto da Barbara Baraldi e disegnato da Luigi e Fabio Piccatto, Giulia Massaglia e Matteo Santaniello continua il Ciclo della Meteora il cui arrivo promette sconvolgimenti per tutta l’umanità e, in particolar modo, per il nostro amato Indagatore dell’Incubo.
Al centro di questo numero, scritto da Barbara Baraldi la storia impossibile di Sally, giovane attrice perseguitata dalla morte e miracolosamente scampata ad una serie di tremende catastrofi. Toccherà a Dylan Dog sciogliere l’enigma della sopravvissuta (da qui il titolo dell’albo) e di Faccia di Morto, l’inquietante presenza dalle fattezze di Eddie the Head, la celebre mascotte degli Iron Maiden, in una serie di improbabili incidenti mortali e di uccisioni in pieno stile slasher, fino all’immancabile colpo di scena finale.

Barbara Baraldi recupera di peso una serie di archetipi del cinema horror, a cominciare proprio da quello della final girl, ovvero della ragazza che, apparentemente più indifesa fra tutti i personaggi, si rivela alla fine l’unica in grado di smascherare e fermare il serial killer; si pensi, ad esempio, al ruolo di Nancy Thompson nel film di Wes Craven Nightmare – Dal profondo della notte. A questo la Baraldi mescola in maniera confusa una serie di suggestioni di altre fortunate serie horror come, appunto, l’elemento degli incidenti improbabili e spettacolari tipici della serie dei Final Destination, oltre al gusto per i meta-riferimenti tipici della serie di Scream, sempre di Wes Craven: non solo Sally ha recitato in un film slasher, intitolato Fear of the dark che richiama per atmosfere il capolavoro di Craven, ma lei stessa è consapevole del suo ruolo di final girl, di sopravvissuta, tanto nel film in cui ha recitato quanto nella vita reale.

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Il risultato finale, tuttavia, non convince, sia perché la Baraldi ripropone elementi molto sfruttati e tipici del genere senza rileggerli in maniera originale, sia per un insieme di problemi nella sceneggiatura che nemmeno la rivelazione nel finale riesce a far quadrare. A parte un paio di momenti ben riusciti (specie ad inizio albo), la storia non convince e neanche il consueto gioco di citazioni (nell’albo compaiono, fra gli altri, riferimenti agli AC/DC, a Star Trek, agli Iron Maiden, a Super Mario e persino a Sheldon Cooper) riesce a far dimenticare al lettore le falle che affliggono la trama.

La connessione dell’albo con gli altri numeri del Ciclo della Meteora è affidato, come nel numero precedente, a due brevi sequenze narrative all’inizio e alla fine della storia che, pur essendo in linea di massima autoconclusiva, introduce nuovi elementi forse rilevanti per gli sviluppi futuri e che qui non anticipiamo. Rispetto al numero precedente il legame con il ciclo principale è più accentuato e non manca di aggiungere una serie di tasselli preziosi (tra cui un nuovo, mostruoso personaggio). La stringata (e disturbante) sequenza finale, pur nella sua brevità, riesce a catturare la curiosità del lettore ed è quindi da considerarsi riuscita.

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Il comparto artistico, anticipato dalla bella copertina, sempre ad opera di Gigi Cavenago, è affidato a Luigi e Fabio Picatto, Giulia Massaglia e Matteo Santaniello che confezionano un buon lavoro e gestiscono bene anche le tavole, cariche di eventi, degli incidenti à la Final Destination. Unica pecca la resa del viso di Dylan in alcune vignette non sempre impeccabile.

Questo Dylan Dog 389 presenta purtroppo, una serie di carenze a livello di sceneggiatura (di scelta delle idee e di gestione degli eventi) che né il comparto grafico né una buona sinergia con la storia, più grande, del Ciclo della Meteora, riescono a sanare. Bisogna apprezzare, tuttavia, la volontà di inserire elementi che stemperano in parte l’autoconclusività degli episodi e che, finalmente, sembrano indirizzare l’intera operazione verso la dimensione di una run più coesa dal punto di vista narrativo. Eppure, nonostante questi buoni propositi, non ci sentiamo di assegnare la sufficienza a questo albo, sperando in risultati migliori per il prossimo mese.

Dylan Dog 388 - Esercizio numero 6 (-12 alla meteora!), recensione

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Gli eroi dei fumetti, super o meno che siano, che indossino una calzamaglia o una semplice camicia rossa, sono divisi per natura fra mito e romanzo, fra archetipo e Storia o, detto in modo più semplice, fra staticità e cambiamento. Come la prendereste se un certo Investigatore dell’Incubo di vostra conoscenza abbandonasse per sempre il consueto maggiolino bianco in favore di un monopattino elettrico? E se il suo buffonesco assistente si desse al dramma e si tagliasse (ahimè) i baffi? Malissimo, immagino: alcuni fan vorrebbero che niente dei loro personaggi preferiti venisse alterato, che ogni cosa restasse congelata nel tempo.
Il personaggio di Dylan Dog ha a lungo assecondato questo oscuro desiderio dei fan: la solita giacca nera, i jeans, la camicia rossa, le battute di Groucho, quel brontolone dell’ispettore Bloch, l’immancabile fanciulla sedotta, la pistola lanciata al volo, un "Giuda ballerino" strillato di tanto in tanto e così via. Per quasi trent’anni il personaggio di Tiziano Sclavi è riuscito a non annoiare mai i suoi lettori senza intaccare troppo questi elementi: ogni storia era autoconclusiva e non modificava mai troppo l’ecosistema dell’amato Investigatore dell’Incubo al punto che, il mese successivo, una nuova avventura poteva cominciare senza tenere conto delle conseguenze (quasi nulle) dell’avventura del mese precedente.

Questa la formula, collaudatissima, del fumetto fino a pochi anni fa, quando la gestione della serie è passata a Roberto Recchioni che ha iniziato ad inserire una serie di innovazioni: Bloch in pensione, un nuovo cattivo, il magnate John Ghost, ed uno smartphone per Dylan.
Ma la novità più grande è appunto il Ciclo della Meteora, un evento della durata di tredici numeri dopo il quale nulla-sarà-più-come-prima. Veniamo, quindi, a questo secondo episodio del ciclo, intitolato "Esercizio numero 6" (albo numero 388), scritto da Paola Barbato e accompagnato dalla seconda uscita dei bellissimi Tarocchi dell’Incubo disegnati a suo tempo da Angelo Stano e qui riproposti con qualche lieve innovazione grafica.

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Il filo conduttore dell’intero ciclo è una meteora che, avvicinandosi pericolosamente all’orbita terrestre, innesca il caos, portando sconvolgimenti in tutto il mondo e, naturalmente, anche nella Londra di Dylan Dog. In questo numero possiamo vedere gli effetti che il passaggio della meteora innesca in una scuola per alunni dotati di poteri paranormali e che Dylan dovrà risolvere, questa volta senza l’aiuto del caro Groucho, pressoché assente nella storia. La trama e le atmosfere sono un esplicito rimando al film del 1960 Il Villaggio dei Dannati di Wolf Rilla e al suo omonimo remake del 1995 diretto da John Carpenter (entrambi ispirati al romanzo I figli dell'invasione di John Wyndham), in cui un gruppo di ragazzini dotati di poteri ESP prende il controllo della cittadina in cui vivono. La Barbato reinterpreta il tema in maniera interessante: se nei film di Rilla e di Carpenter i ragazzini, di probabile origine aliena sebbene nati da madri umane, sono malvagi per natura, in questa reinterpretazione essi sono vittime dei loro stessi poteri, amplificati, appunto, dal passaggio della meteora.

L’idea della Barbato è intrigante, ma pecca nella caratterizzazione dei personaggi, che risulta un po’ povera: introdurre a dovere un gruppo di circa dieci ragazzi e gestirne dialoghi e azioni, è davvero difficile nello spazio risicato di un albo bonelliano di 98 pagine. Di conseguenza, colpa anche di una resa visiva dei protagonisti che non sempre li rende facili da distinguere, in alcuni passaggi il lettore finisce per ingarbugliarsi.
Quello che manca, inoltre, è un vero e proprio legame con la storyline della meteora, che compare ad inizio e fine numero dando sì il via alla storia, ma che poi si eclissa del tutto in questo albo che potremmo senza dubbio definire autoconclusivo (a parte un finale che aggiunge un piccolissimo tassello narrativo): davvero troppo poco se si considera che il conto alla rovescia (-12 alla meteora!) è strillato sulla bella copertina di Gigi Cavenago.

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I disegni, invece, sono affidati a Giovanni Freghieri che, a parte le imperfezioni di cui si è detto prima, confezione delle ottime tavole, con l'aggiunta di qualche griglia lievemente più dinamica rispetto alla classica 2x3 di bonelliana memoria e di un’interessante splash page di cui non vi spoileriamo il contenuto.

Preso da solo, questo albo 388 di Dylan Dog è un numero discreto. Lo è un po’ meno, forse, nell’economia della storyline più grande di cui fa parte e da cui risulta troppo autonomo. L’obiettivo del Ciclo della Meteora è di non lasciare nulla com’era prima: probabilmente siamo ancora lontani dagli stravolgimenti previsti, ma speriamo si tratti di una fase ancora introduttiva e di non trovarci davanti a una serie di episodi blandamente collegati fra loro come in questo caso.

La mia cosa preferita sono i mostri, recensione: il folgorante esordio di Emil Ferris

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I mostri, come il regista Guillermo del Toro insegna, sono metafore. Non sono le squame, i denti aguzzi, le ali ed i tentacoli a renderceli così interessanti ancora oggi, né tanto meno sobbalziamo sulla sedia nel vedere i vecchi film horror con Bela Lugosi nei panni del conte Dracula o Boris Karloff nelle vesti del mostro di Frankenstein.
Eppure, in questi tempi così smaliziati, i mostri ci affascinano ancora, ed affascinano anche Karen Reyes, la bambina protagonista de La mia cosa preferita sono i mostri, graphic novel di Emil Ferris, già illustratrice e designer al suo esordio nel mondo del fumetto.

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Esordio avvenuto tardi e quasi per caso: La mia cosa preferita sono i mostri nasce infatti durante la lunga riabilitazione dell’autrice che, contratto il West Nile virus, sola, con una figli piccoli a cui badare e paralizzata dalla vita in giù (mano destra compresa), decide di iscriversi all’Art Institute of Chicago, dove ottiene un diploma in scrittura creativa. Ne viene fuori un’opera monstre (è proprio il caso di dirlo, dato che il volume edito da Bao Publishing è lungo più di quattrocento pagine, ed è solo la prima parte) personalissima e affascinante che ha riscosso successo in Italia e soprattutto negli Stati Uniti, ricevendo gli elogi di Art Spiegelman e Chris Ware, culminando nel conferimento ad Emil Ferris dell’Eisner Award per il miglior scrittore/disegnatore.

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Il libro parla di crescita, di bullismo, di magia, d’amicizia, dell’olocausto, di donne, di prostituzione, d’amore, di un omicidio, d’arte. E dei mostri, naturalmente, da cui Karen Reyes, una bambina di dieci anni che cresce nella Chicago degli anni Sessanta è ossessionata, al punto da voler essere uno di loro, tanto da rappresentarsi, nel corso del volume, come un piccolo lupo mannaro. Ed è con questo espediente che viene fuori tutta la carica metaforica della figura del mostro: questo non fa paura per il suo aspetto ma, essenzialmente, perché è diverso da tutti gli altri. E Karen si sente diversa da tutti gli altri bambini, che la escludono e la prendono in giro: non parla di ragazzi, ha la testa fra le nuvole, disegna mostri sui quaderni di scuola, legge riviste pulp (le cui copertine scandiscono i vari capitoli del graphic novel) e guarda vecchi film dell’orrore. Gli eventi prendono una strana piega quando Anka Silverberg, una bizzarra signora di origini tedesche che abita nel suo palazzo, viene assassinata: toccherà a Karen vestire i panni dell’investigatore per scoprire il mistero dell’omicidio della donna.
Emil Ferris racconta le vicende di una famiglia, i Reyes, attraverso gli occhi di una bambina con problemi di adattamento, e lo fa con magistrale bravura, intessendo una storia larger than life in cui nessun personaggio resta indietro: ognuno di essi è caratterizzato in maniera credibile, con sottotrame che si intrecciano l’una con l’altra in questa enorme saga familiare.

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Il comparto artistico è curatissimo e, come la storia, davvero originale. Da outsider del fumetto Emil Ferris ha un approccio molto personale nei confronti del medium: l’intero volume è disegnato come se fosse il quaderno di appunti della protagonista, con tanto di righe per scrivere e buchi ai lati del foglio; se a questo si aggiunge che buona parte dei disegni sono stati realizzati con penne a sfera di vari colori, allora si ha davvero l’impressione di star sfogliando il quaderno segreto di una ragazzina. Qui Emil Ferris dà prova delle sue capacità di disegnatrice, realizzando sia bellissimi ritratti femminili (di Anka in particolare) che grottesche caricature di volti umani, inframmezzate da copie di dipinti famosi che la protagonista osserva e ricopia nel corso della storia. Se a questo si aggiunge che spesso la consueta griglia salta a favore di soluzioni apparentemente più libere (quello di Karen è pur sempre un quaderno di appunti), non si può non ammettere l’assoluta originalità del lavoro della Ferris rispetto ad altre produzioni coeve.

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