La rabbia, recensione: la passione contro la violenza
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La rabbia ti acceca, ti fa perdere la ragione, ma altre volte, quando sai come incanalarla, quintuplica la tua forza di volontà e ti permette di reggere l'urto della vita.
Quello che Salvatore Vivenzio e Gabriele Falzone presentano nel loro libro per Shockdom, intitolato proprio La Rabbia, è una passione che soverchia l'asprezza della vita; un'ostinazione che è capace di sfogare, resistendo a un ambiente poco incoraggiante per un giovane. La "periferia", incarnazione della società oppressa dalla povertà della malavita, torna ad essere protagonista di una storia di riscatto, secondo un modello molto in voga negli ultimi anni in tutti i media.
L'ambientazione è quella di Quindici, comune in provincia di Avellino famoso per fatti di camorra (primo comune sciolto in Campania per mafia), che viene raccontato con spunti autobiografici da Vivenzio, nato e cresciuto nel piccolo comune. Cesare è il protagonista, un ragazzo che vive da solo con la madre, la quale, dopo una parentesi lavorativa in Germania, torna nella sua città di origine. Quindici è un territorio dall'alto tasso di criminalità, di cui è stato vittima lo stesso padre di Cesare.
Tra i primi amori e le amicizie del paese, lo sport diventa per Cesare la distrazione dall'asprezza di quel pezzo d'Italia sommerso. Con un chiaro riferimento alle storie di Pino Maddaloni o Clemente Russo, il pugilato è la leva che permette di levare dalla strada quei ragazzi a rischio, per indirizzarli sulla via dello sport e soprattutto della legalità; Cesare scopre la boxe e se ne innamora, il suo desiderio di combattere per sé, la sua arroganza, vengono incanalate per un fine.
Ma come è vero che il lupo perde il pelo ma non il vizio, così l'uomo non cambia mai del tutto. Quel ragazzo rimane sfrontato, non accetta i consigli del maestro che lo ha accolto, non è in grado di capire i suoi veri limiti e preferisce tornare su quella strada che aveva cercato di abbandonare, per poi ritrovarsi scottato. Una scelta sbagliata cambia la vita di Cesare.
Nonostante fosse dato per sfavorito, grazie alla sua rabbia vince l'unico incontro che avrebbe dovuto perdere. Vince eppure è sconfitto, perché ciò che abbandona è la sua vita nella sua città, accanto a sua madre, che lo ha sempre appoggiato; mentre cerca di fuggire verso un'altra Italia, non è la volontà di abbandonare quella vita non tanto semplice a guidarlo, ma il desiderio di continuare a vivere per, forse, chissà, un giorno tornare.
Questo è il finale aperto di una storia costruita non tanto sul pugilato, ma su uno scorcio di "periferia" italiana, con un occhio autobiografico che rende quel racconto riconoscibili a molti. Una storia in cui l'alternarsi degli episodi è frammentario, saltando da un avvenimento all'altro per raccontare Cesare e la sua rabbia: la narrazione presenta alcuni buchi forse, tra alcuni episodi, ma riesce a portare su carta e trasmettere il disagio di una povertà di spirito che pervade la cittadina di Quindici, tra agguati mafiosi e risse da strada. Una narrazione a cui fa da contrappunto un'illustrazione in bianco e nero molto precisa, in cui le ombre creano un'atmosfera polverosa e misera, parecchio adatta al tipo di storia.
Falzone, che campano non è, ha utilizzato molte referenze visive azzeccatissime, per rappresentare una cittadina di provincia, seguendo perfettamente la scrittura di Vivenzio. L'immersione nei luoghi è notevole, anche per chi non li conosce di prima mano, ma è facile immaginare tutti gli ambienti di questa Quindici, che sicuramente un cittadino riconoscerebbe al volo.