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Luca Tomassini

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Avengers: Endgame, la recensione del film

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Arriva finalmente nelle sale italiane, con due giorni di anticipo sugli USA, Avengers: Endgame, il sequel di quell’Infinity War che lo scorso anno ha frantumato ogni record d’incasso, lasciando milioni di spettatori col fiato sospeso ad interrogarsi sulla sorte di molti dei loro beniamini, da Spider-Man al Doctor Strange passando per Black Panther, annientati insieme a metà della popolazione dell’ universo dal Titano Pazzo Thanos. Oltre a fornire una risoluzione alle vicende iniziate un anno fa, il film tira le somme di undici anni di vita del Marvel Cinematic Universe e chiude il cerchio di un percorso inaugurato nel 2008 col primo Iron Man, facendolo in modo spettacolare, coinvolgente e commovente.

Avengers: Endgame è epica allo stato puro e dona una mitologia potente ai nostri tempi, una vera e propria catarsi filmica per milioni di ragazzi che vedranno il film, come i fumetti ideati da Stan Lee, Jack Kirby e degli altri padri fondatori della Marvel che lo hanno ispirato hanno rappresentato a suo tempo una catarsi in quadricromia per intere generazioni di lettori, oggi padri (ma ancora fanciulli dentro), che accompagnano al cinema i figli per assistere alle avventure di Capitan America, Thor e Iron Man.

Il geniale e iconoclasta fumettista scozzese Grant Morrison, nel suo romanzo-biografia SuperGods, attribuisce il successo dei moderni cinecomics ai tempi incerti che viviamo, come se la percezione di un presente minaccioso abbia favorito l’ascesa di “golem” cinematografici, metafore del Bene e della Luce evocati da una comunità sempre più impaurita e in cerca di campioni. In tal senso, nulla come la lotta senza quartiere tra un manipolo (che diventa una legione nello straordinario finale) di Vendicatori e il folle Thanos può incarnare la metafora dell’eterna lotta tra il Bene e il Male. Un Male che indossa la veste di un cinismo apparentemente razionale e lucido, un’idea di “soluzione finale” che ha attraversato le pagine più buie della storia dell’umanità. Avengers: Endgame è prima di tutto un film sulla resistenza, anche quando la rassegnazione sembra l’opzione più semplice, sul resistere a soluzioni facili come quelle offerte dai tanti pifferai magici oggi sparsi per il globo, che non possono nemmeno vantare il carisma né tantomeno lo spessore psicologico di un Thanos.

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Difficile parlare a caldo degli aspetti tecnici di un film che scuote così tanto sotto l’aspetto emotivo. Il celebre critico francese André Bazin sosteneva la centralità del montaggio nella produzione di significato di una pellicola: non possiamo sapere se il fondatore dei Cahiers du Cinema avrebbe apprezzato Endgame, ma bisogna certamente lodare il lavoro, in sala di montaggio, dei registi del film, i fratelli Anthony e Joe Russo, e dei loro collaboratori Jeffrey Ford e Matthew Schmidt. Non deve essere stato facile districarsi tra quintali di pellicola girata, un paio di dozzine di protagonisti principali e una trama che chiama in causa l’intera storia del Marvel Cinematic Universe, ma la titanica impresa può dirsi perfettamente riuscita.

Per quanto la trinità costituita da Downey Jr., Evans e Hemsworth svolga il suo lavoro con la consueta professionalità (con la definitiva deriva macchiettistica dell’ultimo a fare da contraltare alla solennità di alcuni passaggi), sono le seconde linee a rubare la scena. È piacevolmente singolare che il cuore di un film dalle dimensioni gargantuesche come questo sia rappresentato dai due eroi più impensabili, uno minuscolo e uno senza poteri. L’Ant-Man di Paul Rudd conquista finalmente la sua centralità all’interno del progetto MCU, diventando addirittura il motore che dà il via all’intera vicenda, mentre l’Occhio di Falco di Jeremy Renner incarna l’umanità in un gruppo costituito da dei del tuono e da leggende viventi.

Avengers: Endgame riporta la narrazione epica all’interno del linguaggio cinematografico e si candida a diventare un classico, un’epopea dei nostri tempi. È un finale di partita, ma come tutti i lettori di fumetti Marvel ben sanno, questo coincide sempre con inizio. Tutto nuovo, tutto differente.

Moon Knight – Notti di Luna Piena, recensione: le origini dell'oscuro eroe Marvel

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Negli anni ’70 la Marvel attraversò un periodo di straordinario rinnovamento creativo la cui analisi è fonte di grande interesse per gli storici del fumetto. Ai fasti della Silver Age anni ’60, in cui i padri fondatori Stan Lee, Jack Kirby e Steve Ditko posero le fondamento dell’universo ancora oggi conosciuto, fece seguito un decennio fortemente sperimentale in cui videro la luce le saghe delle atmosfere psichedeliche dei Captain Marvel e Warlock di Jim Starlin, le storie lisergiche del Doctor Strange di Steve Englehart e il talento irriverente di Steve Gerber che sbocciò su serie cult come Howard the Duck e The Defenders.

Le pubblicazioni della Casa delle Idee di quegli anni furono fortemente influenzate dalle mode del momento, soprattutto cinematografiche: se sullo schermo facevano furore i film della blaxploitation, ecco arrivare su carta Luke Cage, Hero for Hire, Black Goliath e il debutto di Blade sulle pagine di Tomb of Dracula. Proprio il successo dei film horror della britannica Hammer e di pellicole come L’Esorcista aveva suggerito alla Marvel il varo di testate dalle atmosfere tenebrose, pensate per un pubblico adulto: dalla già citata collana dedicata al Principe dei Vampiri a collane in bianco e nero come Vampire Tales e Monsters Unleashed, dove fra gli altri, debuttò Werewolf by Night.

Tradotto liberamente dall’Editoriale Corno come “Licantropus”, Jack Russell si trasformava in un lupo mannaro a causa di un retaggio famigliare, decidendo però di usare la sua maledizione solo contro criminali e delinquenti. L’antieroe ebbe l’onore di una serie personale di scarso successo commerciale, che oggi è ricordata soprattutto per aver ospitato il debutto di un personaggio di ben altro spessore, che sarebbe presto entrato nelle preferenze dei Marvel fan. Nel numero 32 della testata, datato agosto 1975, “Licantropus” si scontrava col misterioso Moon Knight, vigilante assoldato dal losco “comitato” per catturarlo. Creato da Doug Moench e Don Perlin, “Lunar”, come venne ribattezzato in Italia dalla sempre fantasiosa Corno, catturò l’interesse dei lettori che ne chiesero a gran voce il ritorno. Questo avvenne dapprima nell’antologico Marvel Spotlight e in seguito in appendice alla rivista in bianco e nero Rampaging Hulk, dove il modesto Perlin venne sostituito da una scoperta dell’editor della rivista Richard Marshall, un giovane illustratore che sarebbe diventato un nume tutelare del fumetto degli anni ’80: Bill Sienkiewicz.

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Poco dopo, Moon Knight ottenne finalmente la prima serie a suo nome, a cinque anni dalla sua prima apparizione. Nel primo numero della nuova testata, firmata sempre da Moench e Sienkiewicz, gli autori raccontavano l’origine del Cavaliere Lunare, fino a quel momento taciuta. Il suo alter-ego, Marc Spector, era un mercenario al soldo di Raoul Bushman, spietato terrorista che operava in scenari politicamente caldi come Sudan e Egitto. L’assassinio del Dr. Arlaune, archeologo di fama mondiale, da parte di Bushman, spinge Spector a ribellarsi contro il suo datore di lavoro. Dopo aver avuto la peggio, quest’ultimo viene abbandonato a morire nel deserto. A un passo dalla morte, l'uomo viene salvato da alcuni adepti del dio egizio Khonshu, che lo portano nel tempio di quest’ultimo. Al suo risveglio, Spector è un uomo nuovo, convinto di essere l’araldo in terra della divinità egizia.

Tornato negli USA, Marc decide di dedicare la sua nuova vita alla lotta contro il crimine nei panni di Moon Knight, avvolto in un costume e un mantello color argento che gli donano una sembianza spettrale. Se fin qui il personaggio non sembra essere niente di più di una mera versione “made in Marvel” di Batman, dotato com’è di gadget, un elicottero guidato dal fidato amico Frenchie e una schiera di collaboratori tra cui l’amata Marlene, la figlia del Dr. Arlaune che lo ha seguito in America, Moench introduce un ingrediente fino ad allora inedito in un fumetto di supereroi: la schizofrenia. Oltre a quella del vigilante, Spector aggiunge altre due identità alla sua psiche frammentata: il milionario Steven Grant, alias che costruisce investendo i profitti realizzati come mercenario e grazie al quale vive in una lussuosa villa fuori New York, e il tassista Jake Lockley, abituato a bazzicare i bassifondi per cercare di carpire indiscrezioni necessarie alle sue indagini. La schizofrenia non era un argomento molto frequentato nella fiction dell’epoca, che al massimo aveva saputo darne solamente una connotazione fortemente negativa, vedi il personaggio dell’assassino travestito da donna interpretato da Micheal Caine in Vestito per uccidere di Brian De Palma, film del 1980 uscito in contemporanea con la serie di Moench/Sienkiewicz. La figura di Marc Spector, che utilizzava il suo disagio mentale a fin di bene, risultava del tutto originale, anche se per un suo maggiore approfondimento psicologico avremmo dovuto aspettare il contributo fornito al personaggio tre decadi più tardi da autori come Brian Michael Bendis, Warren Ellis, Jeff Lemire e Max Bemis.

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 Le storie concepite da Moench erano dei veri e propri noir urbani, nelle quali Moon Knight affrontava avversari che sembravano usciti dai recessi più squallidi della metropoli come il serial killer denominato “Tagliagole” (evidente retaggio del passato dello sceneggiatore, speso tra la cronaca cittadina per i quotidiani e le riviste horror in bianco e nero della Warren e della divisione per adulti Curtis della stessa Marvel), anche se non mancano momenti sopra le righe come la trasferta caraibica in cui Spector si troverà ad affrontare vodoo e zombie, e altri prettamente supereroistici come l’incontro con Daredevil.

Proprio l’apparizione dell’alter-ego di Matt Murdoch rende inevitabile il paragone con il lavoro che Frank Miller stava facendo nello stesso periodo sulla testata dell’Uomo senza Paura: per quanto godibili, le storie di Moon Knight concepite da Moench perdono inevitabilmente il confronto con la rivoluzione di storytelling messa in atto da Miller. La prosa enfatica dello sceneggiatore, infatti, ha superato male la prova del tempo, e i disegni di Bill Sienkiewicz sono interessanti come testimonianza dei primi passi di un futuro, grande innovatore del tavolo da disegno, più che per la prova in se stessa, ancora troppo condizionata dall’influenza del “mentore” Neal Adams. Nelle prime storie del volume, la portata innovatrice dell’arte di Sienkiewicz è spiacevolmente contenuta dalle chine troppo lineari di veterani Marvel come Frank Springer e Frank Giacoia, mentre la matita dell’autore si sposa alla perfezione con le chine cariche di ombre di Klaus Janson, lo storico collaboratore di Miller che ebbe anche il tempo, tra un numero di Daredevil e l’altro, di prestare il suo riconoscibilissimo pennello ad una manciata di storie di Moon Knight. Il numero spartiacque della raccolta è il nono, in cui Sienkiewicz cominciò a chinarsi da solo, abbandonando man mano le influenze adamsiane e le linee nette e muscolari per virare verso un tratto nervoso e carico d’inquietudine, espressa tanto dalla postura dei corpi quanto dalle angoscia che percorre il viso dei personaggi. L’ultimo numero del volume, il quindicesimo, contiene già in potenza tutte le peculiarità del Sienkiewicz che sarà, dall’uso scenografico di chine e onomatopee alla pennellata aspra e violenta, foriera di una furia sperimentatrice ed avanguardista che lo spingerà a portare tra le pagine dei comics americani elementi grafici di movimenti artistici europei come la secessione viennese (vedi Daredevil: Love & War e Elektra: Assassin).

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Panini Comics raccoglie i primi quindici numeri della serie classica di Moon Knight in un corposo e prezioso volume cartonato, indispensabile per comprendere l’evoluzione di un’artista che ha rivoluzionato il concetto stesso di fumetto popolare. Restiamo ovviamente in attesa dell’annuncio, da parte dell’editore modenese, di un eventuale secondo volume contenente la conclusione della serie e la definitiva consacrazione di Sienkiewicz tra i grandi della Nona Arte.

Dumbo: la recensione del film

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Avviso ai naviganti: chi scrive è un “burtoniano” della prima ora, un ammiratore del cinema di Tim Burton fin dal suo primo incontro cinematografico col cineasta di Burbank datato 1988, celebratosi con la visione di Beetlejuice in una sala quasi deserta della sua città. Etichettate fin da subito con aggettivi come “dark”, “cupe”, “eccentriche”, le sue opere fanno parte dell’immaginario collettivo di una generazione che viveva la sua adolescenza mentre i suoi film più canonici arrivavano sul grande schermo. Di questa generazione, Burton ha saputo mettere in scena gli eroi come nessuno aveva mai fatto prima o avrebbe fatto dopo (i due Batman), ne ha rappresentato le insicurezze con un sublime tocco poetico in un momento della vita in cui solitudine ed emarginazione sono gli stati d’animo più frequenti (Edward Mani di Forbice), riuscendo anche a stuzzicarne l’interesse cinefilo (Ed Wood, Sleepy Hollow).

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L’ultimo decennio non ha prodotto purtroppo pellicole di Burton all’altezza dei tempi migliori, successo commerciale di Alice in Wonderland a parte, e nonostante film come Dark Shadows e Miss Peregrine avessero in teoria i requisiti per entrare nel pantheon di opere “tipiche” del regista, si sono rivelati passi falsi sia sotto l’aspetto creativo che remunerativo. La notizia che l’autore si sarebbe occupato della versione live-action di Dumbo, classico Disney del 1941, sembrava la conferma di un ulteriore allontanamento del cineasta dalle atmosfere peculiari della sua cinematografia. A visione avvenuta, possiamo affermare che Dumbo è, sorprendentemente, il più “burtoniano” dei film di Tim Burton dai tempi de La Fabbrica di Cioccolato.
Il motivo dell’interessamento del regista per la favola dell’elefantino volante è assolutamente logica: tra tutti i protagonisti dei lungometraggi classici Disney, Dumbo è il più vicino alla sensibilità del filmaker, interprete ideale della poetica dell’emarginato e dell’escluso che attraversa tutta la filmografia del cineasta.

La pellicola si apre col ritorno a casa di Holt Carrier (Colin Farrell), ex star del circo reduce dalla Grande Guerra in cui ha patito la perdita di un braccio. Tornato tra i suoi amici circensi, Holt ritrova i figli Milly e Joe, che nel frattempo hanno perduto la madre per una malattia. Il proprietario del circo, l’impresario Max Medici (Danny DeVito), conferisce all’uomo un nuovo incarico, per farlo sentire utile nonostante la sua disabilità: gli chiede di occuparsi degli elefanti e in particolare della nuova arrivata, una elefantessa proveniente dall’India che sta per partorire un cucciolo. Quando quest’ultimo viene alla luce, attira l’ilarità del pubblico per le sue lunghe orecchie, che lo rendono oggetto di scherno. Ma Dumbo ottiene il suo riscatto quando Milly e Joe gli insegnano ad usare le sue orecchie per volare, suscitando così l’interesse dell’ambizioso imprenditore V.A. Vandemere (Micheal Keaton) che lo vuole trasformare nell’attrazione principale del suo faraonico parco divertimenti Dreamland, la cui stella indiscussa è la trapezista francese Colette Marchant (Eva Green).

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Ennesima variazione sulla poetica dell’emarginato tipicamente burtoniana, come dicevamo, Dumbo contiene altri stilemi caratteristici dell’autore, a partire dal tema della genitorialità mancata e della perdita (Batman, Edward Mani di Forbice, Sleepy Hollow, ]Big Fish, La Fabbrica di Cioccolato) o della famiglia da ritrovare sotto altre forme (il circo, come in Batman – Il Ritorno, ma anche i fantasmi di Beetlejuice o l’allegra combriccola di cialtroni di Ed Wood).
A proposito di famiglia, Burton per Dumbo ha riunito la “sua” famiglia, dall’attore feticcio Michael Keaton, col quale non lavorava dai tempi di Batman – Il Ritorno e al quale regala una parte da milionario eccentrico perfetta per le sue qualità istrioniche, a Danny DeVito, ancora nella parte di un circense dopo Big Fish (singolare che sia il regista che l’attore abbiano dichiarato di non amare il circo, sempre ritratto dal cineasta nelle sue caratteristiche più inquietanti, al contrario dell’amato Federico Fellini), a Eva Green, nuova musa del filmaker con cui è giunta al terzo lungometraggio.

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Nonostante il contributo di altri storici collaboratori del regista (Danny Elfman compone una colonna sonora ricca dei suoi abituali cliché musicali, Collen Atwood disegna costumi che rubano l’occhio ma sono le scenografie di Rick Heinrichs a stupire, soprattutto con il look avveniristico conferito a Dreamland), Dumbo non riesce realmente a spiccare il volo come il suo omonimo protagonista, per la conclamata difficoltà dell'autore ad empatizzare con un materiale non di sua ideazione. La parabola dell’elefantino sembra essere anche quella del suo regista, un professionista che eccelle in una dimensione più intima e personale ma che non si trova a suo agio con le rigide imposizioni dello showbiz hollywoodiano e delle major, per le quali ha comunque girato alcuni dei suoi film più riusciti. Ed è questo il paradosso alla base della non completa riuscita di Dumbo: la visione di un autore e la possibilità di lavorare a progetti più personali hanno ancora diritto di cittadinanza nel cinema americano dei reboot, remake, dei franchise da spremere all’infinito? È sulla risposta a questa domanda che si gioca non tanto il destino di Dumbo e del suo regista, che rimane comunque il cineasta visionario per eccellenza degli ultimi tre decenni, quanto quello del cinema a stelle e strisce.

Captain Marvel: la recensione del film

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Tra tutti gli eroi portati sul grande schermo negli ultimi undici anni da Kevin Feige, grande capo dei Marvel Studios, la Carol Danvers interpretata da Brie Larson in Captain Marvel presenta una particolarità di non poco conto: mentre Tony Stark e Steve Rogers sono rispettivamente Iron Man e Capitan America fin dalla loro ideazione, salvo brevi intervalli, Carol ha guadagnato i gradi di “Capitano” solo in anni recenti.

Il Captain Marvel creato da Stan Lee e Gene Colan nel 1967 era infatti Mar-Vell, comandante rinnegato dell’Impero Kree che si ribella ai suoi superiori guerrafondai per diventare il più grande difensore del pianeta Terra. L’alter-ego di Carol, che a seguito di un incidente durante uno scontro tra Mar-Vell e il suo rivale Yon-Rogg aveva acquisito capacità del tutto simili a quelle del Capitano, era stato per decenni quello di Ms. Marvel. In questi panni si era unita agli Avengers, diventandone un membro prezioso e conquistando il cuore dei lettori grazie a una caratterizzazione estremamente umana realizzata da autori come Chris Claremont, Kurt Busiek e, in anni recenti, Kelly Sue DeConnick e Marguerite Stohl.

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Allo scoccare di questo decennio la Marvel decise che per Carol era arrivato il momento di raccogliere l’eredità del defunto Mar-Vell e di diventare il nuovo Capitan Marvel. L’operazione venne guardata con sospetto dai tanti lettori che amavano Carol nei panni di Ms. Marvel e all’inizio non fu premiata dalle vendite. L’uscita del film a lei dedicato, in cui è interpretata da un premio Oscar come la Larson, cambia sicuramente le carte in tavola e la consegna ad un pubblico più ampio, che non aveva mai sentito parlare di lei prima ma che è pronto a eleggerla a sua nuova beniamina.

La pellicola diretta dagli sconosciuti Anna Boden e Ryan Fleck non poteva realizzare una trasposizione cinematografica né della space-opera psichedelica e filosofica realizzata negli anni ’70 da Jim Starlin col suo ciclo di Captain Marvel, né dilungarsi sulle tormentate vicende della Carol Danvers/Ms. Marvel fumettistica: la coppia di registi ha optato per una sintesi tra le mitologie dei due personaggi, omaggiate durante tutta la pellicola (e questo risulta essere il motivo della segretezza della reale identità dei personaggi interpretati da Jude Law e Annette Bening, segretezza protetta da un’abile strategia di marketing).

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Introdotto da un omaggio al recentemente scomparso Stan Lee, che non potrà fare a meno di commuovere anche lo spettatore più insensibile, il film si divide tra una un’anima sci-fi (soprattutto nel bel prologo su Hala, capitale dell’Impero Kree splendidamente visualizzata dalle sontuose scenografie di Andy Nicholson) e l’ormai classico format “da commedia” tipico dei prodotti del MCU, garantito dalla brillante sceneggiatura scritta, oltre che dalla coppia Boden/Fleck, da Nicole Perlman (Guardians of the Galaxy) e da Meg LaFauve (Inside Out).

Priva di particolari guizzi di regia, votata all’unità stilistica scelta da Feige per le produzioni Marvel Studios, la pellicola trova la sua ragion d’essere nella sua azzeccatissima protagonista: Brie Larson è una Carol Danvers bella e carismatica, caparbia come la sua controparte cartacea. Il suo è un “viaggio dell’eroe” perfettamente compiuto, che esplode letteralmente in un finale dove effetti speciali mozzafiato dispiegano la potenza deflagrante dei suoi poteri. Un’eroina consapevole di se stessa, che non esita a rivolgersi allo sconfitto villain di sesso maschile dicendogli “Io non ti devo niente”, rivolgendosi idealmente anche a tutti quelli che pensano che una donna non possa essere protagonista di un blockbuster milionario come questo.

Vero e proprio prequel che si svolge negli anni ’90 del MCU (corredato da una colonna sonora da sballo che comprende, tra gli altri, Garbage, No Doubt e Hole), Captain Marvel fornisce risposte a vecchie domande (come ha fatto Nick Fury a perdere un occhio? E il Tesseract ad arrivare sulla Terra?), omaggia classici dei fumetti Marvel come la guerra Kree/Skrull dandone una lettura aderente alla realtà politica attuale e introduce quella che, c’è da scommetterlo, sarà una delle protagoniste principali del futuro dei Marvel Studios.
E, probabilmente, l’arma definitiva contro Thanos, il Titano Pazzo, in Avengers: Endgame.

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