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Paolo Pugliese

Paolo Pugliese

Big Robot

Pubblicato per la prima volta in Italia tra il 1980 e il 1981 dalle Edizioni Bianconi, Big Robot è un fumetto pionieristico, unico nel suo genere, diventato nell’arco di trent’anni oggetto di culto per chi ebbe la fortuna di leggerlo. Il protagonista è un gigantesco automa componibile, guidato dal giovane Antares, che funge da principale mezzo di difesa della Base Union, avamposto fortificato della civiltà terrestre (dopo che quasi tutto il pianeta è stato devastato da un conflitto nucleare), opposto alla minaccia di una razza aliena senza nome guidata dal misterioso imperatore Orkus.
La peculiarità principale che differenzia questo eroe dai tanti altri colossi d'acciaio di Manga e Anime è la sua origine al 100% italiana.

Sconosciuto soprattutto alle nuove generazioni di lettori, l’autore di Big Robot – Alberico Motta - è un nome storico del fumetto italiano; uno dei pochi, sapienti, artigiani della nostra editoria illustrata, autore di tante storie umoristiche per la mitica casa editrice Bianconi, delle quali firmava sia testi che disegni. Dopo aver curato per anni numerosi personaggi made in Italy come Geppo, Nonna Abelarda, Soldino, Provolino, Cucciolo e persino Tom & Jerry (serie italiana su licenza, che fu esportata in molti paesi europei), nel 1978 prese atto dell’incredibile shock culturale che la generazione di adolescenti e preadolescenti italiani affrontò con l’arrivo dei cartoni animati (e dei robottoni giapponesi): "Goldrake" fu il primo, trasmesso dalla Rai, seguito da altre creature di Go Nagai come "Jeeg Robot", "il Grande Mazinga" e "Getter Robot" (che fu intitolato "Space Robot"), andati in onda sulle reti locali.
Da grande appassionato di fantascienza, Motta fu affascinato dall’avanguardia tecno-narrativa degli Anime giapponesi, decidendo di cavalcare il trend ed ideare una serie nostrana di genere Mecha: Big Robot. Un esempio pressoché unico (al tempo) di “manga italiano”, ma anche coraggioso quanto ingiustamente misconosciuto fumetto che, se da un lato riproponeva con una certa elementare efficacia gli elementi della narrativa animata nipponica, dall’altro lo faceva con una precisa quanto tagliente impostazione fantascientifica, rimodulandone i concetti basilari con freschezza, senza limitarsi ad una banale imitazione.

Nel dettaglio, gli incipit principali della serie replicavano chiaramente quelli dei primi cartoni giapponesi dell’epoca: dagli invasori alieni al robot gigante, il cui design era a metà strada tra Goldrake e Jeeg Robot (del quale replicava anche l’assemblaggio delle parti del corpo); dalla base scientifica corazzata al giovane pilota motociclista (un mix dei celebri Actarus e Hiroshi Shiba), fino a characters secondari “classici” come il professore/scienziato/leader della base, il bambino amico del pilota, il robot scientifico, il cattivo inquietante e via dicendo. D’altro canto, però, nonostante l’esplicita derivazione nipponica, il risultato finale di Big Robot non era né scialbo né scontato, perché nelle sue storie non mancavano spunti originali né tantomeno elementi drammaturgici che non ci si aspetterebbe di leggere in un fumetto per ragazzi.
A riguardo, l’impostazione narrativa delle storie era semplice e lineare ma, a sorpresa, conteneva citazioni di fantascienza sia di origine letteraria (i romanzi dell’Urania) che cinematografica ("Guerre Stellari", "1975: Occhi Bianchi sul Pianeta Terra"), rappresentate dal contesto post-atomico e da personaggi come il villain alieno Fuher o gli androidi Luno e Trone (repliche nostrane di Lord Fenner, R2-D2 e C1P8). Erano poi presenti anche diverse tematiche adulte, come il senso di precarietà risultante dalla devastazione dell’ambiente terrestre, le conseguenze dell’inquinamento radioattivo, per non parlare di ardite riflessioni (per un fumetto di quegli anni) come quelle sul culto religioso e il potere che ne deriva nell’episodio ambientato nella preistoria; oppure, inquietanti dettagli riguardanti la tormentata figura di Fuher, comandante in capo delle forze di Orkus, che agiva sotto la minaccia di orribili mutilazioni in seguito a ogni eventuale insuccesso.

Sul fronte grafico, lo stile semi-Disneyano di Motta, dal timbro plastico e pulito, ben si prestava alle dinamiche e alle atmosfere “robotiche” del fumetto, schivando il rischio di scopiazzatura e conquistando una propria identità stilistica, anche in virtù di un discreto design che rielaborava con creatività gli archetipi degli eroi del Sol Levante, facendo sì che Big Robot sia ancora molto godibile da leggere nonostante gli oltre trent’anni di età.
Due parole, infine, sull’edizione di questo volume. Frutto di una coraggiosa iniziativa della Kappalab, casa di produzione multimediale ed editoriale fondata dal gruppo dei "Kappa boys" (ai quali si deve, praticamente, l’arrivo dei Manga in Italia), la ristampa di Big Robot ripropone il formato pocket della sua prima edizione, ma con un montaggio diverso delle tavole (quello originale prevedeva due vignette a pagina) e disegni restaurati.
Il volume contiene anche interessanti extra, costituiti da alcuni editoriali firmati dallo stesso Alberico Motta che con molta onestà ripercorre le origini del personaggio, rivelando episodi autobiografici e i dettagli del suo lavoro sul fumetto.

Il Mondo di Ran #1

Sono storie di "ordinaria stregoneria", recita il promo della casa editrice J-Pop nel presentare le avventure quotidiane di Ran Uruma, una ragazzina con grandi poteri e ben poca esperienza. E mai frase fu più azzeccata nell’inquadrare un fumetto nei suoi elementi basilari. Il Mondo di Ran è un manga appartenente al genere "Slice of Life" (letteralmente “spaccato di vita”), che presenta eventi realistici, appartenenti alla vita di tutti i giorni, nel cui contesto quotidiano però si inseriscono pian piano elementi fantasy. I parenti di Ran, gli Uruma, sono da generazioni una famiglia di streghe e stregoni che interagiscono con il mondo dei mortali. I grandi poteri si passano da madre e figlia e, infatti, la mamma di Ran è la strega più potente in circolazione e sempre molto impegnata nel suo lavoro, mentre suo papà si occupa della casa e dei figli.

In questo primo volume, lo sceneggiatore e disegnatore Aki Irie presenta la piccola protagonista Ran e i personaggi di contorno (padre, madre, fratello maggiore e l’ambiguo Otaro) in maniera naturale e senza forzature, prendendosi il tempo giusto nel delineare progressivamente il background e la caratterizzazione dei protagonisti. L’autore evita accuratamente convenzioni narrative tipiche di molti mangaka, come le introduzioni brusche con i classici “spiegoni”, oppure l’iperemotività dei characters e il conseguente estremismo nel delinearne peculiarità o reazioni passionali che, spesso, sfociano nel caricaturale.
Aki Irie, invece, preferisce impostare la sua storia su linee narrative realistiche e non scontate, in virtù di uno stile di racconto raffinato e introspettivo che rivela anche una particolare attenzione sulle peculiarità caratteriali dei vari personaggi. La piccola Ran è descritta con diligenza e naturalezza per quello che è: una bambina di dieci anni, immatura e impulsiva come può essere solo un fanciullo, le cui vicende sono scandite da una quotidianità divisa tra casa e scuola, nelle cui pieghe si inserisce una progressiva componente favolistica (rappresentata da un suo particolare potere magico che provoca scompiglio all’interno della famiglia), elemento narrativo che comunque non prende mai il sopravvento, ma costituisce solo una delle tessere della storia.

Un altro pregio di questo manga è che i personaggi non “recitano” sulla carta, accompagnando il lettore lungo la trama con scelte di comodo, bensì “vivono” facendo cose non comprensibili in maniera immediata ma progressivamente svelate nel coso di un’evoluzione narrativa realistica (nonostante gli elementi magici) e senza eccessi. Al suo racconto d’autore, Aki Irie allinea anche uno stile di disegno elegante e dettagliato che, nonostante l’utilizzo di nozioni e termini grafici tipici dei manga, presenta anche una certa ricercatezza visiva.
L’edizione della J-Pop, infine, è più che discreta presentandosi con una copertina originale ed evocativa; l'unica pecca riscontrata è che l’albo in questione non presenta al suo interno alcun apporto redazionale, né un’introduzione né tantomeno una scheda sull’autore.

Justice League Dark #1

Una strega fuori controllo sta provocando il caos e nemmeno la Justice League riuscirà a fermarla. Questa è la visione di Madame Xanadu, una singolare avventuriera con la capacità di intravedere squarci del futuro. Ma attraverso l’uso dei suoi tarocchi, il futuro non è determinato e può essere rimodellato: l’unico modo per fronteggiare la minaccia è quello di trovare alcune persone legate al mondo dell’occulto e unirle in un gruppo. Lo stregone John Costantine, il fantasma Boston Brand/Deadman, la maga Zatanna, l’alieno cangiante Shade e il killer psichico Mindwarp si uniranno per creare una Justice League oscura, che potrebbe avere successo solo se i suoi membri si fideranno gli uni degli altri e troveranno un modo per agire insieme.

Con questa terza uscita della collana di volumi DC Dark (che segue quelli su Animal Man e Swamp Thing) esordisce Justice League Dark, il ramo arcano della Lega della Giustizia, che attesta l’indubbia qualità ed originalità delle varie serie di estrazione ex-Vertigo all’interno dell’operazione "The New 52" della DC comics. Le gesta di un gruppo di singolari quanto riluttanti anti-eroi è narrata da un autore di culto come Peter Milligan il quale, sebbene firmi un lavoro sotto tono rispetto ai suoi estri creativi degli anni ’90 (ricordiamo capolavori come Enigma, Shade the Changing Man e X-Statix del 2001), d’altro canto conferma anche il suo eccezionale talento nel cesellare in maniera non convenzionale i personaggi che scrive, con un’attenzione maniacale per la loro sfera intima ed emotiva che sfocia in una notevole opera di scavo psicologico, alla ricerca di chiavi di lettura inedite dei loro aspetti più reconditi.

La scelta di Milligan è quella di presentare i protagonisti di JLD come pedine inconsapevoli di una partita a scacchi con il fato, venendo in corso d’opera ridefiniti come eroi dalle loro stesse imperfezioni ed errori. Ben lungi dall’essere paladini senza macchia e senza paura, i vari John Costantine, Deadman, Madame Xanadu, Zatanna e Shade sono personalità problematiche le cui capacità paranormali ne tracciano i limiti e le difficoltà caratteriali irrisolte: al brutale cinismo venato da un malcelato senso di superiorità di Constantine (il personaggio meno approfondito da Milligan), si alterna l’impulsività di una Zatanna sempre tesa a mettersi alla prova per superare una profonda insicurezza; lo sceneggiatore svela poi il malessere emotivo di Deadman nel “vivere” la sua condizione di fantasma senza poter avere contatti intimi con la fidanzata Dawn (metà femminile della coppia di supereroi Hawk & Dove), oppure l’inadeguatezza e la fragilità di Shade nella propria quotidianità esistenziale e sentimentale a causa dello scarso controllo sulla propria meta-veste, che gli fornisce il potere di distorcere la realtà ma spesso gli ritorce contro le proprie fantasie e i propri incubi. Infine c’è la veggente Xanadu, pragmatica e manipolatrice, il cui potere ha segnato la sua vita con una profonda solitudine e una stanchezza emotiva sfociate nella dipendenza di droghe per attenuare le sue visioni.

L’approfondimento psico-emotivo dei protagonisti viene utilizzato da Milligan come strumento principale dello sviluppo della storia, dipanandola attraverso le loro singole e progressive caratterizzazioni. L’incipit trainante della saga, ovvero il mistero della strega, è in sé abbastanza semplice e lineare, fungendo da pretesto per l’entrata in scena dei singoli personaggi e il loro graduale avvicinarsi gli uni agli altri, con lo sceneggiatore inglese che sfrutta un canovaccio basilare scomponendolo ben presto in un mosaico di ritratti paralleli, con intuizioni ed elementi basici che vanno ad arricchire il filo narrativo della trama stessa. Il risultato è un fumetto noir-fantasy dalla struttura corale dove è quasi assente l’elemento supereroistico e il cui aspetto più brillante è la descrizione delle vicende, dei dubbi e dei fragili aspetti caratteriali dei vari personaggi: un punto di forza che, paradossalmente, è anche la debolezza maggiore di questo fumetto, visto che fagocita l’interesse del lettore relegando in secondo piano tutto il resto della narrazione.
Il disegnatore Mikel Janin dà un apporto pregevole al fumetto in virtù del suo stile pittorico ed iperrealista, dimostrandosi poliedrico nel saper alternare sequenze d’azione ad altre di confronto verbale, inventando soluzioni psichedeliche arricchite con la grafica digitale per dare il giusto peso e le giuste atmosfere alla dimensione arcana di questa serie, con trovate horror di un certo – disturbante - effetto.

Justice League of America: Il Chiodo

Nuova uscita della collana Grandi Opere DC della Lion Comics, Justice League of America: Il Chiodo è un volume che ogni lettore della DC comics dovrebbe avere in libreria. Contenente la ristampa integrale della miniserie JLA: The Nail, pubblicata in Italia una quindicina di anni fa dalla Play Press, sulle pagine dell’antologico Play Press Magazine, e mai più ristampata; la Lion la recupera in una veste editoriale appropriata, ovvero un elegante quanto agile cartonato, con una buona rilegatura e qualità di stampa, unitamente a un’interessante postfazione dell’autore Alan Davis.

Ex-collaboratore grafico di Alan Moore per fumetti inglesi come Captain Britain, Marvel Man/Miracle Man e D.R. & Quinch nei primi anni ‘80, Davis diventa famoso in tutto il mondo disegnando per la Marvel la scoppiettante Excalibur di Chris Claremont, ma ben presto dimostra di essere un autore completo firmando anche i testi di vari comics tra i quali c’è lo sfortunato e bellissimo ClanDestine, da lui ideato. Alla DC Comics, tra i vari progetti che realizza graficamente (Batman: Anno II) c’è anche JLA: Il Chiodo, appartenente alla linea di fumetti Elseworld che propone storie alternative al DC Universe classico, nelle quali i personaggi principali della casa editrice vivono avventure diverse dal solito per incipit, tematiche e ambientazioni, slegate dalla continuity ufficiale. La miniserie di Davis, che firma sceneggiatura e matite, si annovera tra i migliori Elseworlds della DC, accanto ad opere come Venga il Tuo Regno, Gotham by Gaslight, Il Ritorno del Cavaliere Oscuro e Superman: Red Son.

Davis immagina come un semplice, banale, chiodo possa mettere in moto una serie di eventi a valanga tali da stravolgere la storia della DC comics come noi la conosciamo. Il chiodo del titolo è quello che per strada buca la ruota del camioncino dei coniugi Kent, impedendo loro di trovare il razzo proveniente da Krypton con a bordo il bimbo destinato a diventare Superman. Il disegnatore inglese rivela una lucida vena creativa, unita ad una non indifferente conoscenza della continuity della DC comics, sconvolgendola profondamente nell’immaginare un mondo senza Superman, con una Justice League diversa alle prese con la xenofobia della gente e le macchinazioni perverse di persone al di sopra di ogni sospetto. Come viene giustamente sottolineato nella sinossi del volume, Davis realizza un lavoro certosino nella costruzione delle vicende e delle caratterizzazioni di grandi personaggi DC, gettando una luce differente sulla loro natura e fragilità, mostrando come la vita sia una mediazione continua tra eventi imprevedibili e scelte consapevoli.

Con una pregevole eleganza narrativa e grafica, Davis realizza una storia tesa e drammatica, stupefacente per concetti di base e ricchezza di dettagli e sfumature, che da un lato anticipa diversi avvenimenti della continuity ufficiale della DC, come l’elezione di Luthor alla presidenza degli Stati Uniti, e dall’altro offre un intenso ritratto alternativo di icone come Batman, Green Arrow e Hawkgirl. Raramente, ad esempio, Bruce Wayne è stato raccontato così profondamente umano, stanco e fallace, descrivendone con poche, realistiche, pennellate il cammino di sofferenza, ma anche di riscatto grazie al rapporto con Catwoman. Sullo sfondo, appaiono le amare e dolorose caratterizzazioni di un Green Arrow mutilato nel fisico e nella mente, di un Martian Manhunter triste e solitario, di una Hawkgirl guerriera ferita e feroce, di un Joker folle e spietato, che insieme contribuiscono a rendere questa miniserie un’epopea tragica ed adulta, visivamente spettacolare e narrativamente connotata da un’evoluzione cupa, angosciante e imprevedibile, che coinvolge nella sua lettura fino ad arrivare ad una conclusione ricca di colpi di scena (una sola domanda: che fine ha fatto Superman?), lasciando il lettore assolutamente soddisfatto dopo aver chiuso il libro.

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