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Luca Tomassini

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U.S. Agent - Il Fanatico Americano, recensione: il ritorno di John Walker

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Il ciclo decennale (1985-1995) di Captain America scritto dal compianto Mark Gruenwald, scrittore, editor e anima della redazione Marvel dalla fine degli anni ’70 fino alla sua prematura scomparsa avvenuta nel 1996 per un attacco cardiaco, è ricordato come uno dei più rappresentativi mai dedicati al personaggio. Il momento più iconico di questa classica run, quello per cui viene più spesso ricordata, è la sequenza in cui Steve Rogers è costretto ad abbandonare l’identità di Capitan America a causa di un contrasto con una commissione governativa che reclama il costume come una sua proprietà, citando una clausola che risaliva alla Seconda Guerra Mondiale, e il diritto di condizionare le attività dell’eroe a prescindere dall’individuo sotto la maschera. Condizioni inaccettabili per Rogers, convinto che la figura di Capitan America debba incarnare le aspirazioni e gli ideali espressi dal Sogno Americano, e che lo spingono a rassegnare le proprie dimissioni. La commissione troverà il sostituto di Rogers in John Walker, suo avversario col nome di Super Patriota, che in passato aveva condotto una campagna mirata a delegittimare Capitan America, da lui giudicato un attrezzo del passato ormai inadeguato a rappresentare gli ideali americani.

Walker indossa così l’iconico costume della Leggenda Vivente, mentre un Rogers spogliato della bandiera, ma non della voglia di combattere, prosegue la sua attività nei panni del “Capitano”, una variante della classica divisa di Capitan America di colore scuro. Dopo varie vicissitudini, verrà rivelato che la mente criminale che pilota le attività della Commissione non è altri che quella del Teschio Rosso, la nemesi per eccellenza di Cap. Nell’epilogo della saga i due “Capitani”, dopo un inevitabile scontro che porta però ad un chiarimento tra i due, collaborano per sconfiggere il Teschio. Rogers torna così ad indossare i panni di Capitan America, mentre Walker ripiega sulla divisa de “Il Capitano” assumendo il nome di U.S. Agent e iniziando una carriera di super-eroe governativo, non apprezzato particolarmente dai colleghi per la sua ottusità e perché simbolo dell’ingerenza dello Stato nelle loro attività. A tal proposito si ricordano le divertenti pagine di West Coast Avengers in cui John Byrne inserì U.S. Agent nelle fila della divisione californiana dei Vendicatori, tra lo sconcerto di Occhio di Falco e soci. Walker riuscirà invece a guadagnarsi il rispetto dei compagni, diventando un pilastro del gruppo.

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Il personaggio non ha mai avuto però molte occasioni per brillare in proprio, se si escludono due vecchie miniserie uscite tra gli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio. Così, in concomitanza col suo debutto televisivo nella serie tv The Falcon & the Winter Soldier, la Marvel ha annunciato il ritorno di U.S. Agent in una nuova mini scritta dal veterano Cristopher Priest per i disegni di Georges Jeanty. Priest è noto per aver supervisionato e scritto alcune delle migliori storie noir dell’Uomo Ragno nel periodo in cui indossava il costume nero (con lo pseudonimo di Jim Owsley), a metà degli anni ’80, e per aver rilanciato Pantera Nera per la linea Marvel Knights a cavallo degli anni 2000. I suoi lavori sono spesso caratterizzati da un occhio rivolto alle tematiche politiche e sociali, motivo per il quale la scelta di abbinarlo ad un personaggio controverso come U.S. Agent sembrava azzeccata. Come vedremo, però, non tutte le ciambelle sono riuscite con il buco.

La vicenda raccontata in Fanatico Americano prende il via in una piccola comunità del sud rurale degli Stati Uniti, dove la popolazione sta insorgendo contro la sede di una multinazionale della logistica, la Vertigo. L’azienda è in realtà una copertura dello S.H.I.E.L.D., e nasconde una misteriosa risorsa militare. Ad investigare su quello che sta accadendo viene inviato John Walker che, pur avendo conservato l’uniforme, ha perso il titolo e lo scudo di U.S. Agent a causa di un pasticcio combinato in un precedente incarico. Ora è un contractor indipendente, di cui il governo si serve per compiere missioni non ufficiali, ma la sua assegnazione al caso Vertigo nasce solamente dalla vendetta di un piccolo burocrate statale nei confronti di Val Cooper, il “boss” storico di Walker che di lui non vuole più sentir parlare. U.S. Agent si recherà quindi nella profonda provincia americana, tra una popolazione con cui sembra condividere una propria visione di cosa sia l’America. Non mancheranno ovviamente sorprese, a partire dalla scoperta della vera natura della Vertigo, oltre ad una rivelazione che riguarderà gli affetti familiari dello stesso Walker.

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U.S. Agent – Il Fanatico Americano parte da un buon presupposto, quello di usare il personaggio di John Walker per rappresentare la sensibilità dell’America profonda e rurale, quella che si è fatta convincere dalla retorica dell’ “America First” di Donald Trump. Se Steve Rogers incarna gli ideali più “liberal” del Sogno Americano, Walker è il suo contraltare a destra, un ultraconservatore che riflette gli umori dell’uomo della strada. Se Rogers è un puro, un idealista, Walker è un cinico pragmatico che non esita ad utilizzare la forza quando serve. Priest vorrebbe costruire intorno al personaggio una satira sociale che prenda di mira l’attualità politica degli Stati Uniti, ma il progetto riesce solo in parte e, nonostante una buona partenza, lo svolgimento risulta alquanto deficitario e non va oltre la dichiarazione d’intenti iniziale. L’analisi sociologica condotta dall’autore è superficiale e non incide, rendendo banale e convenzionale il ritratto di un’America di provincia che non va oltre il registro della parodia.

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Non fornisce un contributo all’esito finale dell’opera neanche l’apporto poco ispirato di Georges Jeanty, onesto faticatore del tavolo da disegno che dopo due decadi di carriera non si è mai affrancato dal ruolo di modesto mestierante della matita. Un disegnatore raramente associato a progetti d’alto profilo, dallo stile rigido e legnoso che non arricchisce in alcun modo la messa in scena dello script di Priest. Lo storytelling e l’organizzazione delle tavole di Jeanty è statico e ordinario e contribuisce a non innalzare il livello di Fanatico Americano oltre la soglia della sufficienza. Ed è un vero peccato, perché pochi personaggi come il controverso U.S. Agent si presterebbero ad incarnare una fase politica e sociale americana tanto convulsa come quella attuale. Ci sarà bisogno sicuramente di progetti di più alto profilo per rivedere il buon John Walker al massimo delle sue potenzialità.
Segnaliamo, in chiusura, le splendide cover realizzate dal nostro Marco Checchetto che valgono, da sole, un motivo per l’acquisto del volume.

American Ronin 1 - Incubus, recensione: il killer empatico di Milligan e ACO

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Proseguono le proposte Panini Comics targate AWA Studios, la nuova realtà editoriale creata da vecchie conoscenze dei fumetti Marvel come Bill Jemas e Axel Alonso, rispettivamente ex presidente ed ex redattore capo della Casa delle Idee. I due sono riusciti a coinvolgere nel loro progetto editoriale alcuni tra i nomi più prestigiosi del comicdom, da J. Micheal Straczynski a Mike Deodato Jr., che hanno dato il via al progetto con la serie The Resistance, passando per Garth Ennis e Frank Cho. Tra questi ci sono anche il veterano sceneggiatore britannico Peter Milligan e l’artista spagnolo ACO, autori di American Ronin, l’ultima delle collana AWA portate da Panini nel nostro paese.

Milligan è un autore che non ha certo bisogno di presentazioni, facendo parte di quella “British Invasion”, insieme a Grant Morrison, Neil Gaiman e Garth Ennis, che dalla seconda metà degli anni ’80 travolse il fumetto statunitense cambiandolo per sempre. Con opere come Shade The Changing Man, Enigma e X-Statix lo scrittore londinese ha lasciato un solco profondo nel comicdom americano, combinando innovazione e intrattenimento. American Ronin non ha lo stesso impatto rivoluzionario delle opere sopra citate ed è attraversato da un innegabile senso di déjà vu. Ciò nonostante, Milligan ha saputo imbastire un avvincente thriller spionistico.

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In un futuro prossimo che assomiglia tanto al nostro presente, il mondo è dominato da multinazionali come la Lincoln’s Eye, che decide le politiche delle maggiori potenze mondiali. La Lincoln è una corporazione che non si limita ad esercitare la sua influenza sui governi nazionali, ma che non esita a commettere azioni coercitive spesso letali servendosi di agenti potenziati. Si tratti di individui modificati geneticamente, che riescono ad entrare nella mente degli avversari assorbendone il materiale biologico. In questo modo, “entrano” letteralmente nella testa del nemico sfruttandone le debolezze. Uno di loro, auto-nominatosi “Ronin”, si ribella e cerca vendetta contro la Lincoln’s Eye per quello che gli è stato fatto. Tra il Ronin e la multinazionale esplode dunque una guerra senza quartiere che raggiunge il suo apice in Italia, a Roma, dove la Lincoln ha inviato alcuni dei suoi agenti più pericolosi per indirizzare le politiche del governo italiano.

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La lettura di American Ronin potrebbe provocare nel lettore avvezzo a tematiche di spionaggio e cyberpunk la sensazione di qualcosa di già visto, come dicevamo sopra. In effetti, letteratura di genere, cinema e fumetti negli ultimi trent’anni hanno declinato tematiche simili in ogni modo possibile e immaginabile. Se lo spunto di partenza non appare particolarmente ispirato ed originale, è nel suo svolgimento che si svela, per l’ennesima volta, tutto il mestiere di narratore di Peter Milligan. La trovata sulla quale è costruita la vicenda, quella dei killer che si iniettano il DNA delle vittime per scovarne le fragilità, consente all’autore di scavare nella psiche dei personaggi unendo così spessore psicologico ad una trama action mozzafiato.

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Ma l’intuizione vincete di Milligan è la consapevolezza di poter disporre, al tavolo da disegno, di un vero fuoriclasse, il disegnatore spagnolo ACO. Si tratta di un artista poco prolifico (oltre a numeri sparsi di Midnighter e Wonder Woman per DC Comics, memorabile è la miniserie di Nick Fury realizzata per Marvel su testi di James Robinson in cui aggiorna ai nostri tempi le atmosfere psichedeliche di Jim Steranko), ma di talento assoluto, un virtuoso dello storytelling che non finisce di sorprendere per le soluzioni grafiche mai banali offerte dalle sue tavole. Lo spagnolo alterna pagine (poche, in verità) in cui propone una divisione classica della tavola in griglie, salvo poi scardinare la narrazione demolendo l’ordine precostituito delle vignette. Al posto della struttura canonica delle pagine inserisce ovali, onomatopee e inquadrature sghembe che conferiscono ritmo e adrenalina alla narrazione già forsennata di Milligan.

Contribuiscono al risultato di grande impatto visivo le chine nette e precise di David Lorenzo mentre Dean White partecipa alla festa con la sue abituale palette di tonalità acide che lo confermano come uno dei migliori coloristi del settore.
Panini Comics presenta American Ronin con la consueta cura editoriale dei suoi cartonati da fumetteria, con un volume dall’ottimo rapporto qualità-prezzo che lascia il lettore in fervente attesa del capitolo successivo.

Crossed Deluxe 1, recensione: la fine del mondo secondo Garth Ennis

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Tra tutti gli esponenti della British Invasion che travolse il fumetto americano tra gli anni ’80 e ’90, la palma del più irriverente e sovversivo va sicuramente a Garth Ennis. Mentre Alan Moore, Neil Gaiman, Grant Morrison, Jamie Delano, Peter Milligan e gli altri terribili ragazzi inglesi operavano una raffinata decostruzione del media fumetto arricchendolo di qualità letteraria, Ennis lo prendeva letteralmente d’assalto con massicce dosi di humor nero, violenza e satira sociale e religiosa. Opere come Preacher, Hellblazer, Hitman realizzate per la DC Comics e il lungo ciclo di Punisher scritto per la Marvel hanno lasciato il segno, cementando la reputazione di Ennis come autore tra i più iconoclasti del settore. Ma il suo lavoro più scioccante e provocatorio doveva ancora arrivare. Nel 2008 la Avatar Press, casa editrice indipendente nota per aver calcato la moda delle bad girl negli anni ’90 e per essersi specializzata in seguito nell’horror attirando firme prestigiose come Alan Moore, Warren Ellis e lo stesso Garth Ennis, da alle stampe Crossed, una miniserie composta da prologo e da 10 capitoli, con la quale lo scrittore nord-irlandese firma la sua opera più sconvolgente.

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Crossed ha una struttura da tipico survival horror, il sottogenere probabilmente più frequentato dalla fiction di questo primo scorcio di millennio. Nel momento in cui l’opera di Ennis raggiunge gli scaffali delle fumetterie americane, The Walking Dead si colloca stabilmente sul podio delle serie più vendute e da lì a breve genererà una serie tv di grandissimo successo. Pur condividendone la struttura di massima, Crossed si discosta però di molto dal classico racconto a tema apocalisse zombie. Il plot e il suo incipit sono quanto di più abusato ci possa essere: un misterioso contagio si è propagato in tutto il globo, causando in breve tempo il collasso del mondo civilizzato e delle sue istituzioni. Ma l’epidemia che sta devastando l’umanità non trasforma le persone in morti viventi, bensì in sadici assassini. È come se il morbo da cui sono infetti li liberasse di qualsiasi freno inibitore, consentendogli così di lasciarsi andare a qualsivoglia sorta di efferatezza: stupri, omicidi, cannibalismo e altre oscenità da cui sembrano trarre un gran godimento. Gli “scrociati” (liberamente tradotto dall’inglese crossed) si muovono in branco e uccidono in modo truculento chiunque gli capiti sotto tiro; quando non ci sono vittime sacrificali nei paraggi, non è escluso che si massacrino tra di loro. La cosa più inquietante è che che gli scrociati, così ribattezzati a causa della piaga a forma di croce che il virus gli fa comparire sul viso, non hanno perso del tutto le loro facoltà intellettive, mentre il gusto per la perversione risulta amplificato fino a sfociare in una diabolica furia omicida che sembra divertirli molto.

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La storia segue un gruppo di sopravvissuti, il cui primo nucleo si forma all’esterno di una tavola calda di una cittadina americana di provincia, dentro la quale si è consumato all’improvviso un massacro senza senso. I superstiti ci mettono molto poco a capire che è successo qualcosa di terribile, che non è circoscritto alla macabra circostanza di cui sono testimoni. Organizzatosi intorno alle figure del pacato Stan e delle determinata Cindy, ragazza madre dotata di leadership e carisma, il gruppo decide di dirigersi verso il nord del paese, verso lande disabitate dove sperano di non incontrare gruppi di scrociati. Inutile dire che non sarà così, e capitolo dopo capitolo il numero di componenti della comitiva si assottiglierà sempre di più, in un crescendo di tensione e di scene di violenza estrema, a tratti difficilmente sostenibile.

Servendosi di un genere provocatorio e sovversivo come lo splatterpunk, con Crossed Ennis porta alle estreme conseguenze uno dei temi tipici della sua produzione, ovvero la denuncia dell’ipocrisia di una società governata dalla violenza, nonostante le apparenze. Gli scrociati solo la rappresentazione di un’umanità privata di etica e di qualsiasi compassione, quello che potremmo diventare se rinunciassimo ad aderire a regole e convenzioni sociali, se la nostra moralità e la nostra coscienza venissero inghiottite dalle tenebre. Ma l’autore non è tenero neanche con il gruppo di sopravvissuti, ritratti non certo come eroe ma come individui abbrutiti disposti a tutto pur di sopravvivere, anche ad abbandonare quel che resta della loro umanità. Esemplare in tal senso la sequenza che illustra l’incontro con il gruppo di orfani, il passaggio chiave dell’intero volume che non spoileriamo ma che è lo specchio dell’abisso in cui precipitano i protagonisti. Crossed è quindi un’opera con un messaggio? Forse si o forse no. Quello che è certo è che non deluderà gli estimatori dell’horror tout-court.

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Ennis è un maestro nell’usare la suspense, che esplode puntualmente in scene di violenza brutale sapientemente messa in scena da Jacen Burrows. L’artista, specialista del genere, rappresenta l’orrore senza lasciare nulla all’immaginazione. Un repertorio di nefandezze raccomandato solo agli stomaci forti, ma che centra l’obiettivo di scioccare il lettore. La linea chiara delle matite, abbinata ad una palette di colori luminosa, accentua l’effetto sconvolgente delle immagini.
Panini Comics raccoglie il primo ciclo di Crossed, abbinato allo spin-off Crossed: Badlands sempre firmato dagli stessi autori, in un poderoso volume deluxe che ci sentiamo di sconsigliare alle anime particolarmente sensibili.

Refrain, recensione: il ritorno del "Nero Criminale" di Carlotto, Ruju e Ferracci

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Tornano le atmosfere noir alla milanese concepite dal trio Massimo CarlottoPasquale RujuDavid Ferracci in Refrain, sequel del precedente e apprezzatissimo Ballata per un traditore, sempre edito da Feltrinelli Comics, che aveva aggiornato il poliziottesco all’italiana per i nostri giorni.

Erede della tradizione che vede tra i suoi maggiori esponenti lo scrittore Giorgio Scerbanenco e il regista Ferdinando Di Leo, Ballata per un traditore conferma l’impegno dello scrittore Massimo Carlotto nel mondo del fumetto, in cui ha portato gli elementi tipici dei suoi romanzi di successo, come la serie dedicata all’ “Alligatore”. Qui avevamo fatto la conoscenza del Commissario Lo Porto, corrotto funzionario di polizia che con la sua squadra aveva fatto da garante per decenni ad un patto scellerato tra istituzioni e le famiglie criminali milanesi. L’omicidio di suoi due vecchi collaboratori scatena una spirale di violenza e una resa dei conti rimandata da troppi anni. Il commissario Stefania Rosati, in particolare, ha un conto da chiudere con Lo Porto che fu il responsabile morale dell’assassinio di suo padre, il magistrato Cosimo Santini. Quando Lo Porto le fa il nome di Adriano Musitelli, killer della Mafia esecutore del delitto, la Rosati attraversa il confine tra legge e vendetta e lo fredda senza pietà. Non sa però di essere filmata da uomini di John Ogu, esponente della mafia nigeriana che, alleandosi a quelle russa e slava, vuole sostituire la criminalità locale ai vertici della cupola milanese. La storia si concludeva con Stefania Rosati ricattata dalla nuova alleanza mafiosa, che minaccia di diffondere il filmato in cui uccide Musitelli. Il commissario, suo malgrado, si trova così ad essere il “nuovo Lo Porto”: un funzionario pubblico corrotto che fa gli interessi della criminalità.

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Refrain riprende dal momento esatto in cui si concludeva la Ballata: la Rosati è sempre più invischiata nel gioco pericoloso in cui lo coinvolge Ogu, e al quale lei non può sottrarsi a causa del ricatto. La nuova alleanza tra mafia nigeriana, russa e slava la usa per sbarazzarsi dei concorrenti più agguerriti come i latinos, dandole soffiate che le servono per sgominare le bande rivali. Forte di questi apparenti successi, subito sfruttati a livello mediatico, la Rosati diventa il nome di riferimento nella lotta alla criminalità a Milano. Un nome talmente sotto i riflettori da insospettire qualche collega navigato. Di più non diremo per non rovinare il gusto della lettura, salvo che la situazione del Commissario Rosati si farà sempre più complicata e la costringerà a commettere azioni estreme che non saranno senza conseguenze.

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Con Refrain Massimo Carlotto e Pasquale Ruju, che affianca ai testi l’autore padovano, continuano il racconto della discesa agli inferi di un gruppo di servitori dello stato che finiscono col diventare peggiori della feccia che si propongono di combattere. Un abisso etico e morale che non lascia scampo a chi se ne fa lambire, anche se inizialmente mosso dalle migliori motivazioni. Carlotto e Ruju riescono ad abbinare introspezione psicologica e analisi sociologica (con un accenno alla retorica politica tipica dei nostri tempi) ad un’azione mozzafiato, con continui colpi di scena e twist di sceneggiatura che non finiranno di stupire e intrattenere il lettore.

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Il tratto spigoloso e rigorosamente in bianco e nero di David Ferracci costituisce il compendio grafico ideale per accompagnare un racconto noir disperato come quello imbastito dalla coppia di scrittori. Essenziale e quasi austera, la matita di Ferracci rende alla perfezione l’atmosfera nera della vicenda, accompagnando con uno storytelling forsennato lo script al fulmicotone di Carlotto e Ruju ma senza scadere mai nella spettacolarizzazione fine a se stessa. Un esito artistico di pregevole fattura, quello confezionato dal trio di autori, di cui l’ultima pagina preannuncia un inevitabile terzo capitolo.

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