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Luca Giovanelli

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Historica 68: Fredegonda – La regina sanguinaria, recensione: scene di lotta di classe nella Francia dell'Alto Medioevo

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L'alba dell'Europa medievale fu un periodo di faticosi tentativi per saldare ciò che rimaneva dell'Impero Romano con gli emergenti regni germanico-barbarici. Tempi di decadenza e instabilità, che la storia francese esemplifica molto bene: il re franco Clodoveo unifica i territori di quella che fu la Gallia romana, inaugurando la dinastia dei Merovingi, quindi alla sua morte lascia il regno ai suoi figli dividendolo in tre parti: Austrasia, Neustria e Borgogna. Negli anni successivi - siamo nel VI secolo - si susseguono una trentina di guerre in poco più di cento anni, alcune piccolissime, tutte però estremamente cruente. A questo va aggiunto un ricco corredo di delitti, vendette e congiure che anche gli storici più prudenti fanno fatica a inscrivere, per perfidia e sadismo, nei limiti consueti delle pur violente faide barbariche.

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Niente pace e molto sangue, dunque, ed era soprattutto nei palazzi del potere che tali azioni e macchinazioni prendevano drammaticamente corpo nel condizionare la Storia: perfettamente a suo agio in questo teatro piuttosto grandguignolesco era la figura di Fredegonda, natali umili e condizione servile, ma che grazie alla sua avvenenza si era garantita il letto e la fiducia di re Chilperico di Neustria. Virginie Grenier ci presenta la sua storia (originariamente pubblicata per Delcourt nella collana Les Reines des Sang) nel numero 68 di Historica: una donna che tenta il suo personalissimo riscatto sociale, grazie all'ambizione e ad armi proprie dei tempi violenti (e alla condizione sociale) in cui viveva, ovvero crudeltà, intrighi e un uso spregiudicato del sesso come strumento di accesso al potere.

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La narrazione procede su binari fluidi e riconoscibili in cui i personaggi sono delineati con poche tratti efficaci, anche se non particolarmente originali: la “nostra” Fredegonda come tutti i cattivi è dedita al vizio e alla lascivia, mentre i buoni sono ovviamente pii e cavallereschi (su tutti, la benevola regina Brunechilde, di nobili natali e quindi invisa alla protagonista). Partendo da una situazione canonica, Grenier imbastisce però un racconto estremamente avvincente, con tocchi teatrali e colpi di scena, che frustrano continuamente la convinzione del lettore che ci possa essere dietro l'angolo un esito lieto, giusto e soddisfacente per le vicende narrate. L'autrice sceglie infatti intelligentemente di non arroccarsi su posizioni moralistiche, né sembra partecipe in modo esclusivo di un unico personaggio. L'accento è sul ritmo e sulla costruzione delle suspense relativi ai complessi “giochi” di palazzo, pieni di sotterfugi, mosse e contromosse: non conosce riposo l'ostinazione e la tenacia con cui Fredegonda persegue i suoi scopi, ma alla fine la spunta; allo stesso tempo chi legge non ha sollievo, ma si ritrova “divertito” e coinvolto in un meccanismo ben congegnato.

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Gran parte delle vicende sono ambientate, dicevamo, negli spazi chiusi e angusti dei palazzi dei re Franchi; poche le scene di azione, comprese le battaglie, spesso limitate a una tavola e abbastanza stilizzate. Le armi vere sono altre: quelle della parola, veicolo di onore, latrice di menzogna e sospetto. L'universo fittamente regolato della vita di corte si traduce infatti in tavole dalla “gabbia” classica, ricche di dialoghi densi e equilibrati, ma fluide per numero di vignette, formato, soluzioni di montaggio. Sono privilegiati primi e primissimi piani, il taglio orizzontale delle vignette e un uso efficace di inserti per i dettagli, spesso rivelatori degli snodi principali della storia. Un approccio del genere sacrifica “l'ampio respiro” della pagina, impegna il lettore, ma restituisce alla narrazione un grande ritmo di fronte a vicende molto “parlate” e poco ”agite”. In questo modo inoltre offre ad Alessia De Vincenzi la possibilità di intervenire con il suo tratto morbido nel disegnare le figure umane – quelle femminili sensualissime in alcuni casi – e preciso nel dettagliare abiti, arredi, armi. Uno stile versatile, a suo agio sia con volti e corpi, che nelle scene più corali, ben servito da un buon lavoro di inchiostratura: meglio quello, definito e minuzioso, della seconda parte del volume affidate alla stessa De Vincenzi.
Altro punto forte sono i colori di Jose Luis Rio e Albertine Ralenti: vividi, sgargianti ed eleganti, che giocano bene con i contrasti “emotivi” e semantici (Fredegonda con vesti rosse e verdi opposta a Brunechilde nelle tinte “regali” gialle e blu) ma si compenetrano anche con le ombre delle retinature donando alla sfarzo delle ambientazioni una nota sinistra e inquietante.
Lettura estremamente gradevole e consigliata quindi, in attesa di un sequel che il finale aperto (e le vicende storico-biografiche della protagonista) lascerebbe prevedere. Speriamo.

Extremity 1: recensione: Un inventario variegato (e non proprio originale) della fantascienza moderna

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Thea e Rollo sono fratello e sorella, appartengono alla tribù Roto, in guerra atavica contro i conquistatori Paznina. Lei, che porta sul proprio corpo i segni del conflitto, ha dovuto rinunciare alle sue inclinazioni artistiche e intraprendere la medesima strada della vendetta tracciata dal padre; il secondo, macchiato dell'imperdonabile peccato di ripudiare la violenza, in un mondo dove questa è considerata strumento di giustizia, troverà in Shiloh, androide-killer pentito, quell'umanità e quell'affetto che gli viene negata dal risoluto genitore. Queste sono le premesse non proprio originalissime a dire il vero, di Extremity, serie fantascientifica a firma di Daniel Warren Johnson, ambientata in un mondo post-apocalittico crudo e spietato. Saldapress ne raccoglie i primi 6 numeri dell'edizione originale.

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L'autore, che cura disegni e testi, crea una space-opera in equilibrio fra fantascienza e fantasy, che ricorda Dune quanto Mad Max, Conan il Barbaro quanto l'immancabile Star Wars. Cronache del dopo-bomba unite a suggestioni tecno-medievali insomma con una trama costruita attorno ad un escalation di scontri e schermaglie fra fazioni e conflitti intrafamiliari. In più c'è uno spunto iniziale buono, che affronta il tema delle aspettative dei genitori per i figli e sulla volontà di questi di trovare la propria strada al di fuori del cammino che eredità e destino sembrano avere riservato loro. Non manca il dinamismo in Extremity quindi, anzi forse il difetto principale è che sono troppi gli elementi messi in moto e con eccesso di riferimenti e citazioni: gli ingredienti base del genere ci sono, stanno tutti al posto giusto, ma proprio lì dove te li aspetti, senza riservare grandi sorprese. Buon intrattenimento intendiamoci, ma non ci sono impennate dal punto narrativo, la storia è lineare, semplice, ma prevedibile, i personaggi sono caratterizzati abbastanza bene, ma sai già cosa faranno e in che direzione andranno. Forse il meglio riuscito è proprio Jerome, il padre, figura senza fronzoli ma dotata comunque di una sua monolitica complessità psicologica.

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Per ora ci accontentiamo – si fa per dire – dei disegni di Johnson, che rappresentano la parte migliore di questo volume: estremamente curati, gradevoli, ricordano in più punti Katsuhiro Ōtomo, e danno il meglio di sé nelle scene di azione, cinetiche, violente, ben distribuite su tavole orizzontali ampie che si aprono in un paio di occasioni in spettacolari splash page. Unica componente realmente “extrema” di un'opera altrimenti piuttosto canonica. Notevole anche “l'accompagnamento” cromatico di Mike Spicer che descrive l'ambientazione decadente con toni lividi (il verde, il viola) attraversati dall'impeto del rosso come colore cardine che condisce le scene più cruente.
Che cosa sia dunque questo Extremity, non si capisce bene e forse i prossimi numeri saranno decisivi per rispondere a questa domanda.

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Pussey!, recensione: Daniel Clowes, gli eroi prima della caduta e i nerd prima della rivincita

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Nelle tavole introduttive, con semplicità disarmante, Daniel Clowes evidenzia come l'immaginario collettivo mainstream odierno ricalchi grossomodo quello dei geek dei mid-80's: elfi, maghi, mostri e supereroi monopolizzano i gusti delle masse a livello mondiale, quando fino a pochi decenni fa questa era una nicchia ad uso e consumo di quelli che i più ritenevano dei disadattati sociali. Una bella rivincita come fa notare l'autore stesso per lui e per il personaggio ri-presentato in questo volume di Oblomov: Dan Pussey, buffo epigone del “professionista” che del comicdom statunitense riassume soprattutto sfortune e meschinità.

Un paio di passi indietro. Siamo tra la fine degli anni'80 e il primo lustro dei 90' quando il mercato americano dei comics inizia a espandersi. La frenesia editoriale è data dal nascere e dall'affermarsi delle case indipendenti che sfidano direttamente i colossi dell'intrattenimento cartaceo come DCe Marvel. Il fumetto seriale supereroistico, condito con nuove grafiche accattivanti e supportato da aggressive strategie di marketing, sembra destinato a “conquistare il mondo”.  Ma alcuni sentono già puzza di crisi. Fra questi ci sono alcuni folli (e follemente innamorati) del medium fumettistico come Daniel Clowes che, con spirito prettamente underground, decidono di farseli da soli i comics, e di offrire uno sguardo divergente e acuto su quel mondo adolescenziale che ne era il maggior consumatore e il potenziale destinatario. Eightball, creatura antologica clowesiana, è definita come “un' orgia di livore, vendette, desolazione, disperazione e perversioni sessuali”, e dalla sue pagine scaturiranno il fortunato Ghost World o capolavori come David Boring, solo per citarne due.

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Anche Pussey! quindi viene da lì: due degli otto capitoli (L'angolo del collezionista di fumetti e La morte di Dan Pussey) trattano in modo ferocemente satirico quella “bolla” speculativa che ha rischiato di mandare a gambe all'aria il settore a metà degli anni '90. Le altre parti seguono questa linea satirica fornendo un ritratto spietato e cinico di tempi, modi e meccanismi del dietro le quinte del mondo del fumetto. Le nove vignette per pagina sono lo schema, più o meno variato, con il quale Clowes scandisce gli spietati ritmi di produzione della immaginaria Infinity Comics, fucina di giovani talenti in cui approda anche il protagonista, giovane disegnatore alle prime armi. Ne seguiamo passo passo le tappe della carriera fino alla mesta dipartita: le prime pubblicazioni, le recensioni della stampa specializzata, il successo. Clowes non trattiene la sua matita nemmeno quando si affronta il tema del fumetto d'autore o dell'artisticità della Nona Arte, quello del ricambio generazionale e del rapporto fra editori e stampa specializzata.

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Quella di Dan Pussey è una parabola artistica e (dis)umana connaturata già nel nome del protagonista e dei comprimari (Szucker, Dick Small) così come nel loro visus grottesco e i tratti esasperati: le figure di Clowes con le loro teste sproporzionate incassate sul tronco e i denti enormi guardano spesso il lettore dritto in faccia e richiamano una presa in giro feroce, risultante di rabbia post-adolescenziale, acume critico e gusto puro di non prendersi mai troppo sul serio. Ma questi personaggi hanno sempre in sé anche qualcosa di tenero e disperato, come se l'amore per quel mondo di nerd al quale lo stesso Clowes apparteneva avesse forza uguale e contraria ai propositi di rivalsa che, nelle parole dell'autore, lo ha portato a creare questa serie.

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In epoca, come quella attuale, di pieno sdoganamento dei nerd e della loro cultura, di parodie dello stesso sdoganamento e di, talvolta, capitalizzazione di un intero immaginario, le riflessioni di Clowes (le sue didascalie e i balloon sovrabbondanti di testo) appaiono un dato acquisito e forse poco originale, ma sono interessanti in primo luogo perché vengono da un grande autore e dalla rivista che è stata il suo principale laboratorio di idee, segnalando quindi alcune traiettorie della sua poetica; in secondo luogo sono una testimonianza dall'interno, deformata quindi, ed emotiva ma sincera, di un preciso e cruciale momento della storia del fumetto americano. In terzo luogo Pussey! è molto divertente.

Replica 1, recensione: clonazione e umorismo nell'epoca del multi-tasking

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Saldapress raccoglie in volume i primi cinque numeri di Replica, serie del 2015 di Aftershock che fonde fantascienza e detective story. Il Transfer è un misterioso agglomerato che “fluttua dentro mille punti di spazio ripiegato, all'epicentro dell'universo conosciuto […] nessuno sa chi l'abbia costruito o perché […] un milione di specie si scontrano ogni giorno in questo guscio di ottanta chilometri di diametro. Un milione di specie, tutte in competizione, che sgomitano in questo gigantesco minestrone”. Fra questi ovviamente gli umani, che ne amministrano la giustizia e la pubblica sicurezza. Lo fanno come possono visto la mole di lavoro e gli inghippi burocratici: è per ovviare al sovraccarico di incarichi e all'incompetenza dei colleghi che il detective Trevor Churchill decide di “regalarsi” un clone, ma qualcosa va storto e il risultato sono 50 repliche di se stesso, ciascuna delle quali rappresenta una parte della sua personalità. In più un omicidio rischia di fare esplodere le tensioni razziali e socio-politiche del melting pot interplanetario del Transfer. Confusi? È giusto così. Sì, perché Replica del poliedrico e talentuoso Paul Jenkins (Inhumans, The Sentry, Wolverine: Origin) inizia come un'autentica implosione di generi, sotto-generi e influenze sci-fi: si va dalla space opera al cyberpunk, da Star Trek a Star Wars, passando per Blade Runner. Nulla di nuovo e molto di rimasticato quindi, e la prima impressione è proprio quella di trovarsi davanti qualcosa di non proprio originale.
Ma è un errore.

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In primo luogo perché Replica è divertentissimo. Credete freghi qualcosa all'autore inglese di essere “derivativo”?  Jenkins seppellisce ogni remora sotto coltri di umorismo e ironia. I dialoghi sono frizzanti e, in alcuni momenti, irresistibili. Lo “spezzettamento” del protagonista nei suoi molteplici alter ego dà il via ad una serie di gag comiche, battute e situazioni ai limiti del demenziale in cui caratteri e cliché di genere sono esasperati e quindi demoliti.
In secondo luogo la detective story avvince: Jenkins riesce magistralmente a bombardare il lettore con fatti, informazioni, particolari, descrizioni mirabolanti, ma allo stesso tempo lo tiene incollato alla storyline principale spingendolo dannatamente a voler sapere come andrà a finire. Il ritmo del racconto ti catapulta dentro il “mistero misterioso” senza accorgertene e ti rendi conto che tutto questo ti piace tantissimo.
In terzo luogo come ogni buona opera fantascientifica anche in Replica scorre una vena sotterranea di critica sociale, declinata attraverso uno spirito caustico e satirico che non risparmia nessuno. Il Transfer è la deformazione grottesca dell'ideale di una società multi-culturale in cui esseri umani e alieni convivono ma all'insegna di sospetto, competizione sociale e frenesia “consumistica”; Trevor Churchill è un archetipo di disorientamento e sfortuna che di fronte a un mondo disordinato si frantuma in tante parti mosso dal desiderio di forzare i propri limiti personali. Personaggi spassosi certo, ma anche soli e desolanti verso cui Jenkins mantiene uno sguardo a volte tenero e a volte feroci, ma a cui si può guardare solamente attraverso il filtro della risata.

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Replica si avvale inoltre di un ulteriore e per nulla secondario asso nella manica: i disegni di Andy Clarke (Batman, Judge Dredd). Il tratto realistico, ricchissimo di particolari, elegante, che ricorda in più punti quello del primo Travis Charest, dà forma all'ambientazione, sviluppandosi soprattutto su ampie vignette orizzontali, che esaltano le scene d'azione e sono particolarmente funzionali all'”affollamento” di certe sequenze. Niente sperimentalismi, ma il grande equilibrio e la pulizia formale del disegnatore britannico regalano possibilità suggestive a Dan Brown e ai suoi giochi cromatici.

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Intrattenimento e intelligenza tutt'altro che banali quindi in Replica, che dimostra come pur non inventando nulla di nuovo, la fantasia è sempre uno spazio infinito entro cui scrivere belle storie.

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