A poche settimane dalla pubblicazione italiana di The Magic Order, Mark Millar è tornato in fumetteria con Jupiter’s Circle, un bel volume cartonato di quasi 300 pagine, dove Panini Comics ha raccolto le due, omonime, miniserie, uscite negli USA tra il 2015 e il 2016, in cui l’autore scozzese ha voluto raccontare la giovinezza di quegli eroi invecchiati e disillusi, che avevamo conosciuto nella precedente Jupiter’s Legacy. Per fare questo, Millar reinterpreta a modo suo la Silver Age dei comics, immaginando l’America di fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta, non più come un paese preso a modello per i suoi valori e popolato da infallibili eroi senza macchia e senza paura (che erano tornati a riempire le pagine di gran parte dei fumetti dell’epoca), ma piuttosto come una nazione ancora impreparata a diventare la prima potenza mondiale e, per questo, piena di contraddizioni, dove anche i pochi che possiedono super-poteri, sono tutt’altro che privi di difetti. Ancora una volta, l'autore scozzese ci racconta di esseri semi-divini, che invece di elevarsi al di sopra di tutti gli altri, tradiscono, di continuo, la propria umanità. Essere capaci di volare o poter leggere nelle menti altrui non sono qualità che rendono immuni dalle debolezze delle persone comuni e persino lo stesso Utopian (il cui nome è già una dichiarazione di intenti) fallisce proprio per essere la personificazione della perfezione. Ogni aspetto della sua vita viene pianificato per rendere quella del resto della popolazione mondiale la migliore possibile.
Il motto “da grandi poteri, derivano grandi responsabilità”, che per Spider-Man è un monito continuo a non usare le sue abilità ragnesche per i propri interessi, per Utopian diventa quasi l’unica ragione della sua esistenza. Essere sempre al servizio degli altri e credere di fare in ogni momento la cosa giusta, sono, tuttavia, due atteggiamenti che non gli permettono di ascoltare punti di vista diversi dal suo, edi comprendere le ragioni di chi non la pensa come lui. E più che i primi dissidi con suo fratello Brainwave (solo un preludio alle terribili conseguenze future, già note da Jupiter’s Legacy), è l’evoluzione di Skyfox a evidenziare in maniera chiara le contraddizioni del suo modo di agire. La decisione di rimanere a tutti i costi neutrale rispetto alle decisioni del governo, confidando che queste vengano sempre prese nell’interesse del popolo, è soltanto l’estrema dimostrazione di fedeltà ai suoi ingenui principi. Un’illusoria visione del mondo che lo condiziona a tal punto, da arrivare a far finta di non vedere gli evidenti errori commessi da tutte le nazioni del pianeta. E non è un caso che sia proprio Skyfox a rappresentare il punto di vista opposto. Il suo essere così insofferente alle regole e il suo carattere impulsivo, lo portano rapidamente a contestare gli ideali del suo leader e, complice anche una cocente delusione d’amore, a riconsiderare la sua vita ,schierandosi al fianco delle persone più deboli o in difesa delle vittime delle azioni più discutibili promosse dal governo americano (anche a costo di diventare un fuorilegge).
Sembra, quasi, di rivivere lo scontro tra Iron Man e Capitan America in Civil War (uno dei più grandi successi creativi ed editoriali di Millar). Anzi, a dirla tutta, già in Jupiter’s Legacy era possibile intravedere qualcosa di simile: in quel caso era Utopian il “Capitan America” della situazione, l’eroe fedele ai propri valori, che soccombeva di fronte alla folle presunzione di Brainwave. Mentre in Jupiter’s Circle si ha un totale ribaltamento delle parti: Utopian diventa “Iron Man”, il paladino del governo pronto a dare la caccia a Skyfox/Capitan America, solo perché quest’ultimo ha deciso di contestare platealmente le scelte più opinabili prese dal suo paese. Ma prima di arrivare a questo, che, se vogliamo, è un po’ l’essenza del Millar-pensiero, all’inizio l’autore scozzese si limita semplicemente a mostrare i tanti vizi e le poche virtù di questi presunti paladini della giustizia. Sebbene i membri dell’Unione siano chiaramente ispirati alla Justice League, infatti, a Millar interessa poco descrivere le loro gesta eroiche (che, per questo motivo, rimangono quasi sempre sullo sfondo), ma piuttosto quello che si nasconde dietro di esse: Skyfox è un ubriacone, Flare tradisce la moglie con una diciannovenne e gli altri sono o, banalmente, troppo irascibili, oppure gelosi del successo altrui. Semplici esseri umani, che devono andare a letto presto, perché i loro bambini non li fanno dormire la notte, o che non riescono neppure a resistere a piccoli vizi come il fumo (mai si sono visti tanti super-eroi con in mano una sigaretta).
Millar, inoltre, non manca di lanciare le sue consuete stoccate agli aspetti più controversi della società americana: dopo un inizio apparentemente tranquillo, infatti, ci mostra Blue Bolt fare il possibile per apparire come un playboy impenitente, ma solo per celare a tutti la propria omosessualità. Nell’America perbenista di fine anni Cinquanta, una cosa del genere doveva rimanere un segreto e l’autore scozzese è abilissimo ad accomunare la situazione dell’eroe a quella di tanti divi del cinema dell’epoca costretti per anni a nascondere il proprio orientamento sessuale dietro matrimoni di comodo. A Millar, però, non basta trovare un parallelismo con l’ipocrisia di Hollywood per esprimere a chiare lettere il suo messaggio, quindi la vita privata di Blue Bolt diventa anche un escamotage per criticare violentemente un aspetto ancora peggiore degli Stati Uniti di quel periodo: il tentativo di ricatto di Edgar J. Hoover, allora onnipotente direttore dell'FBI, infatti, ricorda tristemente i numerosi tentativi dell’élite al potere di limitare la privacy e la libertà di pensiero dei cittadini americani.
Se le debolezze degli altri, però, possono solo portare a un danno per sé stessi, per Brainwave la situazione è differente. Millar non prova praticamente mai a giustificarlo. Accecato dal suo evidente complesso di inferiorità nei confronti del fratello, ma anche dalle continue mortificazioni che deve subire dall’immaturo e vanesio Skyfox, il personaggio manifesta più di una volta la sua volontà di ergersi al di sopra degli altri, così come non si fa nessuno scrupolo a manipolare le persone per raggiungere i suoi fini. Inoltre, è così forte il desiderio di Millar di dipingerlo come una persona moralmente discutibile, che, a volte, i dialoghi in cui lo coinvolge sono decisamente forzati (si veda, per esempio, il passaggio in cui gli fa esternare i suoi dubbi sull’avere in squadra un omosessuale). Questo eccesso di manicheismo e qualche rappresentazione un po’ troppo stereotipata di personaggi realmente esistiti (su tutti, gli esponenti della Beat Generation) sono, probabilmente, gli unici difetti attribuibili ai suoi testi, per il resto sempre molto convincenti, sia nel tratteggiare l’estrema fragilità dei vari protagonisti, che nella perfetta ricostruzione storica.
Non si può dire altrettanto del comparto artistico, soprattutto considerando che Jupiter’s Legacy poteva vantare i disegni di un fuoriclasse come Frank Quitely (qui, purtroppo, autore solo delle belle copertine dei primi sei episodi). Sicuramente un’opera del genere sarebbe stata perfetta per il compianto Darwyn Cooke, il cui tratto ben si sarebbe adattato alla rievocazione dell’America dei primi anni Sessanta (basta sfogliare la sua bellissima The New Frontier, per rendersene conto). Invece, i vari Wilfredo Torres, Davide Gianfelice, Chris Sprouse, Ty Templeton e altri ancora, pur cercando di imprimere nei loro disegni l’atmosfera retro voluta da Millar, raramente riescono nell’impresa. Quello che ha sorpreso maggiormente in negativo è stato Chris Sprouse, che altre volte aveva mostrato di essere proprio l’autore giusto per operazioni di questo tipo (ne è un esempio il Tom Strong di Alan Moore). Forse le chine di Walden Wong sono state determinanti al risultato finale, ma sta di fatto, che si fa veramente fatica a riconoscere lo stile lineare e pulito di Sprouse nelle tavole a lui attribuite. Anche un disegnatore meno quotato come Wilfredo Torres ha fatto di meglio in altre occasioni (recentemente lo si è visto all’opera, con esiti ben diversi, su Quantum Age, spin-off di Black Hammer). Tutti i disegnatori coinvolti, insomma, sembrano quasi più interessati a conservare un’omogeneità nel tratto (probabilmente per non confondere i lettori), che a preservare il loro stile. Quello che alla fine ottengono, però, è un insieme di vignette poco dinamiche e povere di dettagli, con l’aggravante di mostrare spesso personaggi un po’ inespressivi.
A ogni modo, disegni a parte, Jupiter’s Circle resta un ottimo fumetto: Millar riesce a scrivere, per l’ennesima volta, una storia di super-eroi imperfetti e problematici, senza dare quasi mai l’impressione di raccontare cose già viste. Speriamo solo di poter leggere, prima o poi, Jupiter’s Requiem, il più volte annunciato finale della saga, di cui al momento, sembrano essersi perse le tracce.