Huck, recensione: la purezza del supereroe secondo Mark Millar e Rafael Albuquerque
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Mark Millar ha abituato il lettore dei suoi fumetti e lo spettatore dei film ispirati ai suoi lavori alla decostruzione del mito supereroico (Kick Ass), a capovolgimenti narrativi (Wanted), alla ironica dissacrazione di modelli avventurosi (Secret Service), il tutto condito con violenza improvvisa e spesso esasperata, alimentando così l’effetto caustico dei suoi lavori. Con Huck, l’autore scozzese, intraprende una strada diversa avviata già con opere dal gusto classico come Starlight ed Empress, ovvero un recupero di atmosfere classiche, condite da una narrazione fresca e moderna.
Fin dalle prime tavole si rivela lo scopo di Millar: il revival del buonismo dei fumetti anni ’50, fatto di eroi sempre sorridenti, buone azioni, di cattivi monodimensionali con mire di conquista globale. Huck, difatti, è un giovane benzinaio cresciuto in un orfanotrofio e dove, fin da piccolo, gli è stato insegnato il dovere morale ed etico di compiere almeno una buona azione al giorno. Il giovane eroe vive in una piccola comunità e tutti hanno deciso di mantenere il suo segreto. Chiaramente, questo segreto non rimarrà a lungo tale: la rivelazione della sua esistenza al mondo, spalancherà le porte al passato di Huck, ignoto anche a lui.
Chiariamo subito che Millar non opera una decostruzione del mito supereroico anni ’50, piuttosto sceglie di muoversi sul confine tra citazionismo nostalgico e rielaborazione linguistica del fumetto action. Nonostante la storia sia ambientata ai giorni nostri, l’atmosfera è quella post bellica, dell’America rurale che, ipocritamente, pensava bastasse l’apparenza per creare la sostanza. E il fantasma che drammaticamente aleggia per tutta la storia è quello della Guerra Fredda, della corsa agli armamenti, non più nucleari, ma superumani. Il buono e sempliciotto Huck ha il compito di incarnare l’ideale dell’eroe “senza macchia e senza paura” e, in un contesto fumettistico contemporaneo in cui i supereroi sembrano solo combattere tra di loro piuttosto che aiutare l’umanità, questo ritorno alle origini si configura, dunque, come una novità. Millar si conferma sempre come un autore in controtendenza e capace di intercettare, nei propri lavori, diverse tensioni socio culturali.
L’autore torna ad esplorare l’icona di Superman (Superior e Nemesis, come anche Wanted, già erano stati terreno di sperimentazione), per poter raccontare ancora una volta le sfaccettature della vita quotidiana, realistica e vicina al lettore, in cui si intromette la dimensione supereroica. Se questa migliorerebbe o meno il nostro mondo, è un giudizio destinato solo al lettore.
Per questo capitolo del suo Millarworld, l’autore scozzese, sceglie Rafael Albuquerque. Il disegnatore, coadiuvato dagli straordinari colori di Dave McCaig, si allinea perfettamente con l’obiettivo narrativo dello sceneggiatore, passando, con pochi ma efficaci tratti, da un’atmosfera soleggiata ed idilliaca, ad una cupa e drammatica. Il suo tratto che, specie nelle scene maggiormente concitate, vira verso una deformità fisica ma dalla grande espressività plastica, descrive con chiarezza l’intromissione del linguaggio filmico che Millar ricerca costantemente nei suoi lavori.
L’edizione Panini Comics ha in calce l’interessante studio dei personaggi principali che ne mostrano l’evoluzione grafica e il lavoro del disegnatore sulla costruzione di alcune tavole del fumetto.