Discesa all'inferno 1-2, recensione: il thriller da incubo di Garth Ennis e Goran Sudzuka
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Fin dai suoi esordi in terra anglosassone, Garth Ennis è sempre stato un autore noto per opere alquanto provocatorie, contrassegnate da uno smaccato gusto per il grottesco o da un umorismo cinico e iconoclasta. Discesa all’Inferno (in originale A Walk through Hell), recente fatica dell’autore nordirlandese (uscita negli USA per la AfterShock come miniserie di dodici numeri, che la Saldapress ha raccolto in due volumi cartonati), sembra invece seguire - almeno all’inizio - strade più canoniche, tanto da poter essere quasi ascritta a un genere specifico. Una rarità per Ennis, che, storie di guerra a parte, anche nelle sue sporadiche incursioni in territori a lui meno congeniali (ci riferiamo a personaggi più mainstream come Punisher o Nick Fury) ha sempre fatto in modo di lasciare la sua impronta ben in evidenza, dando a intendere che, per uno come lui, seguire le regole di un determinato genere, significherebbe arrendersi a una scrittura troppo scontata e banale.
A una prima lettura la trama di questa nuova opera sembra proprio quella di un comune thriller dai risvolti soprannaturali. Protagonisti della vicenda sono due agenti del F.B.I. di cui conosciamo solo i cognomi, Shaw e McGregor, che, alla fine del loro turno, invece di tornare a casa per la vigilia di Natale, decidono di andare a controllare un magazzino, dove, qualche ora prima, due loro colleghi sono entrati per indagare, senza più dare notizie di sé. Pur se scoraggiati dalla polizia locale e da alcuni agenti dei reparti speciali, terrorizzati da quello che hanno trovato all’interno del deposito, Shaw e McGregor decidono di entrare nell’edificio diventando, in breve tempo, preda di quelle che - inizialmente - sembrano solo inquietanti allucinazioni per poi diventare qualcosa di molto diverso. In una di queste, inoltre, fa la sua comparsa Paul Carnahan, un pedofilo assassino che, sebbene già morto, continua a perseguitare Shaw nei suoi tumultuosi sogni notturni.
Come in ogni racconto di suspense che si rispetti, nella parte iniziale della storia (cioè quella raccolta nel primo volume), l’incubo in cui precipitano i due agenti del F.B.I. tende a palesarsi a poco a poco, ed Ennis è molto abile ad accrescere, a più riprese, i momenti di tensione, interrompendoli immediatamente nell’istante di massima intensità, attraverso la rievocazione di alcuni eventi del passato. In questo modo il lettore ha la possibilità di tirare il fiato e di prepararsi allo shock successivo cercando, nel frattempo, di incastrare i vari pezzi del puzzle attraverso i flashback di cui dicevamo, che ricostruiscono - in maniera volutamente irregolare e spezzettata (rendendo la vicenda ancora più misteriosa e sinistra) - sia l’indagine che ha segnato la carriera dei due protagonisti, sia alcuni momenti della loro vita, apparentemente determinanti per le scelte professionali di entrambi. È in questi primi cinque capitoli che l’autore di Preacher dà il meglio di sé: le poche concessioni al “gore” servono solo ad accentuare le atmosfere disturbanti e vagamente paranoiche della trama, non a mettere in mostra il suo abituale spirito anarchico.
A completare il tutto, una caratterizzazione dei personaggi da manuale, anche quella apparentemente scontata dello psicopatico Carnahan. Ad aiutarlo, i disegni del croato Goran Sudžuka, solo in apparenza troppo “puliti” e poco evocativi. In realtà, grazie anche ai colori del connazionale Ive Svorcina, e a una costruzione delle tavole estremamente variabile, l’autore balcanico riesce a trasferire in immagini il continuo cambio di registro narrativo voluto da Ennis. Nei passaggi in cui la tensione prende il sopravvento, inoltre, il largo uso dei primi piani dei personaggi (o anche solo dei loro occhi), accresce notevolmente la loro espressività, permettendo al lettore di percepire chiaramente l’angoscia e l’orrore che essi stanno vivendo in quel momento.
Nel secondo volume, che racchiude gli ultimi sette capitoli della miniserie, e che può ancora contare sul buon lavoro di Sudžuka, la tematica di fondo cambia progressivamente, con una narrazione sempre più contorta, che sembra quasi prendere a modello alcune delle opere più controverse di David Lynch. Nel finale, per di più, l’autore nordirlandese sembra più interessato a filosofeggiare sulla natura del male in senso assoluto, con avvenimenti reali e immaginari che diventano indistinguibili, mischiandosi in maniera poco chiara persino con discutibili riferimenti all’attualità politica statunitense. In verità, già nel primo volume si poteva intuire che le intenzioni di Ennis fossero proprio quelle quando, dopo le drammatiche tavole introduttive, i due protagonisti appaiono sullo sfondo di tweet di persone intente a discutere gli avvenimenti iniziali, cercando di far emergere, in poche battute, le forti contraddizioni e le enormi differenze presenti nella società americana contemporanea. Oppure, subito dopo, dai discorsi a tavola dell’agente McGregor che, senza giri di parole, decide di inveire contro l’attuale inquilino della Casa Bianca. Tuttavia, tutto viene presto messo in secondo piano dalla raccapricciante vicenda principale, ed è solo arrivando al finale, che quelle brevi scene iniziali acquistano un significato reale. Ma, per quanto possiamo comprendere i motivi della frustrazione dello scrittore nordirlandese, così come trovare condivisibili i suoi giudizi sullo stato comatoso della politica mondiale (e di quella statunitense in particolare), abbiamo trovato un po’ fuori luogo l’accostamento di una vicenda, che vorrebbe farci riflettere su questioni dal sapore quasi biblico, con le imbarazzanti “imprese” dei governanti del suo paese d’adozione (con tanto di nomi e cognomi!). È questo non proprio piccolo neo, unito al finale un po’ confuso, che ha determinato il nostro giudizio sull’opera nel suo complesso: lusinghiero ma non entusiastico, come la lettura del primo volume sembrava, invece, far presagire.