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Antonio Ausilio

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Blake e Mortimer: L'ultimo faraone, recensione: un capitolo poco convenzionale

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Il giornalista Daniel Couvreur, grande esperto di fumetto franco-belga, nel 2012 è entrato in possesso di un taccuino dove il compianto Edgar P. Jacobs aveva annotato vari spunti per nuove storie con protagonisti i suoi celeberrimi Blake e Mortimer. Dopo averne parlato con François Schuiten, questi rimase particolarmente colpito da un abbozzo di trama che aveva come sfondo l’enorme Palais de Justice di Bruxelles, una stramberia architettonica che non poteva lasciare indifferente l’autore de Le città oscure, da sempre affascinato da edifici e metropoli. Non solo, le leggende o le semplici dicerie riguardanti la costruzione del monumentale tribunale della capitale belga, su tutte le scarse notizie che si hanno sulla vita dell’architetto che lo progettò, Joseph Poelaert, che impazzì e morì, forse suicida, prima del termine dei lavori. Oppure il piano originale che prevedeva la costruzione di una piramide in cima all’edificio, poi sostituita da una semplice cupola, devono essere subito apparse al grande fumettista come lo sfondo ideale per rendere omaggio a uno dei capisaldi della bande dessinée, senza discostarsi troppo dalle sue opere precedenti.

Tuttavia, quando si diffuse la notizia che Schuiten sarebbe stato coinvolto in una nuova avventura di Blake e Mortimer, questa fu accolta dagli ammiratori di Jacobs in maniera contrastante: alcuni si dichiararono da subito entusiasti di vedere un grande autore all’opera con i due personaggi, altri non nascosero invece una certa apprensione per il fatto che un disegnatore dallo stile piuttosto lontano dalla ligne claire e più a suo agio con tematiche vagamente oniriche e surreali, potesse in qualche modo tradire la poetica del pupillo di Hergé. Infatti, da quando la Dargaud ha deciso di riprendere le avventure di Blake e Mortimer, dopo la scomparsa del loro creatore avvenuta nel 1987, tutti gli autori coinvolti nell’operazione si sono ben guardati dal prendere strade completamente diverse da quelle percorse da Jacobs. E così, i vari Jean Van Hamme, Yves Sente, Ted Benoit e André Juillard, solo per citare i più illustri, pur non rinunciando a elementi tipici del loro modo di fare fumetti, sono riusciti a mantenere nelle nuove storie quel brillante mix di fantascienza, spionaggio e archeologia avventurosa, che aveva portato i due personaggi alla popolarità (soprattutto in area francofona), accompagnando il tutto con tavole che non potevano che essere in puro stile linea chiara, tanto che, a prima vista, risultano difficilmente distinguibili da quelle realizzate dal maestro belga.

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Una continuità di contenuti che, invece, manca quasi del tutto nel volume realizzato da Schuiten e soci. Differenze che si notano appena nella bellissima copertina del disegnatore brussellese, e ancora meno nel titolo dell’opera – L’ultimo faraone – che richiama apertamente Il mistero della Grande Piramide, una delle più note avventure di Blake e Mortimer, a cui il nuovo capitolo si ricollega già dalle prime pagine. Man mano che si procede nella lettura, però, queste differenze emergono chiaramente, a cominciare dai disegni: lo stile di Schuiten, infatti, così diverso da quello di Jacobs, alla lunga crea una sorta di smarrimento nel lettore. Una sensazione accresciuta dai colori di Laurent Durieux, troppo scuri e freddi.

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È, però, la trama imbastita dallo stesso autore belga, con la collaborazione di Jaco Van Dormael e Thomas Gunzig (ai quali, pare, debba essere attribuita l’idea di riallacciarsi al Mistero della Grande Piramide), che procura le maggiori perplessità: dopo un inizio, tutto sommato, secondo le aspettative, che vede Mortimer recarsi al Palais de Justice di Bruxelles su invito di un certo Henri, il quale vuole condividere con il professore la sorprendente scoperta di misteriosi geroglifici, venuti alla luce in seguito a dei lavori di ristrutturazione dell’edificio, si ha un’improvvisa accelerazione degli eventi: mentre Mortimer è intento a decifrare i simboli egizi, infatti, Henri abbatte la parete su cui sono stati dipinti, causando la fuoriuscita di raggi energetici di origine ignota, che in brevissimo tempo bloccano il funzionamento di ogni apparecchiatura elettrica della città, rendendola, con il passare dei mesi, inabitabile. Nel frattempo, scopriamo che, sebbene l’esatto periodo temporale non venga rivelato, la vicenda è ambientata parecchi anni dopo le avventure “regolari”, con i due protagonisti ormai invecchiati e, apparentemente, non più amici come prima. Da qui in poi, la sceneggiatura comincia a diventare tortuosa e, in alcuni passaggi, anche poco chiara. Per di più, le differenze di stile con la scrittura di Jacobs diventano sempre più marcate: i raggi misteriosi che rendono Bruxelles una città fantasma, di fatto, sono l’unica, vera, concessione ai temi cari al creatore dei personaggi, i quali diventano i protagonisti di una singolare avventura, dove l’evento apocalittico che ha sconvolto la capitale belga viene usato a pretesto da Schuiten, Gunzig e Van Dormael per criticare, in maniera un po’ stravagante, gli eccessi e lo stile di vita contemporanei. Non si spiegherebbe altrimenti il lungo passaggio dedicato a una comunità di persone, adattatasi a vivere nelle rovine della città e ben contenta di non potersi più avvalere di ogni forma di tecnologia, di cui fa parte anche un probabile ex operatore di borsa, stanco del potere esercitato dalla finanza sulle decisioni prese dai governi mondiali. Un’idea che contrasta non poco con quello che Jacobs pensava della modernità: nelle sue storie, la scienza e il progresso non sono mai visti in senso negativo. Sono piuttosto gli uomini, a seconda della loro indole, a decidere se utilizzarli per il bene comune o per i propri meschini interessi.

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C'è dell'altro, una delle qualità più apprezzate del maestro belga era il taglio romanzesco della sua scrittura, con tavole ricche di vignette e dialoghi fittissimi, oltre a spiegazioni molto dettagliate delle apparecchiature tecnologiche rappresentate in quelle pagine, o dei monumenti e dei protagonisti storici della vicenda. Questo approccio è stato sostanzialmente mantenuto da tutti gli autori successivi, venuti prima di Schuiten, pur con qualche inevitabile adeguamento alla sensibilità dei lettori di oggi, che troverebbero un po’ antiquate alcune ingenuità narrative presenti nelle prime storie dei personaggi. Ai realizzatori de L’ultimo faraone sarebbe bastato seguire la stessa strada per non snaturare eccessivamente la serie, invece hanno preferito avventurarsi in un tentativo di rinnovamento così radicale, da rendere difficile l’accostamento di questo nuovo capitolo all’opera di Jacobs.

L’operazione, tuttavia, non è da bocciare in toto: le tavole di Schuiten spesso sono magnifiche, soprattutto quando può cimentarsi nella rappresentazione di architetture ardite e maestose, uno dei punti fermi della sua arte, e alcuni risvolti della trama sono ingegnosi (a partire proprio dai collegamenti con Il mistero della Grande Piramide, per nulla forzati o pretestuosi). Se non ci fosse stato il desiderio degli autori di lavorare a una storia di Blake e Mortimer, probabilmente il nostro giudizio sarebbe stato meno severo. Ma quando, invece, si decide di omaggiare un classico, non bisognerebbe mai commettere l’errore di tradirne, anche se in maniera non del tutto consapevole, lo spirito originale.

Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn: recensione

  • Pubblicato in Screen

Ebbene sì, lo ammettiamo, ci eravamo illusi che ai piani alti della Warner Bros., dopo il clamoroso successo di Joker, avessero capito la lezione: per quanto in netta controtendenza con i classici cinecomic visti finora, a cui non è per nulla assimilabile, la pellicola di Todd Phillips avrebbe dovuto almeno insinuare il dubbio in Walter Hamada, Geoff Johns e negli altri boss della DC Films, che lasciare la qualità in secondo piano, a favore del solito, vuoto, sfoggio di azione fracassona, difficilmente avrebbe condotto la nuova produzione al successo. E invece, forse perché abbagliati dai sorprendenti exploit commerciali dei film dedicati a Wonder Woman e Aquaman (che, sebbene siano i risultati migliori del cosiddetto DC Extended Universe, a malapena possono essere avvicinati alla media delle pellicole dei Marvel Studios), ecco arrivare questo Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn, che già a partire dal titolo fa capire quanto la confusione (anche se verrebbe da dire, l’incompetenza) regni ancora sovrana nella divisione supereroistica della Warner. Come spiegare, altrimenti, la decisione di realizzare un film in cui l’unica vera protagonista è Harley Quinn e lasciare il nome del personaggio relegato al sottotitolo scritto in caratteri microscopici, a malapena visibile sulle locandine e nei titoli di testa? Ma, come vi abbiamo riferito nei giorni scorsi, qualcuno, nel frattempo, deve essere rinsavito, perché, dopo il deludente esordio al botteghino, ad alcune catene cinematografiche americane è stato concesso di cambiare tale titolo (Birds of Prey and the Fantabulous Emancipation of One Harley Queen) nel più semplice, e meno equivocabile, Harley Queen: Birds of Prey (una correzione che, tuttavia, denota la fretta e la poca lucidità con cui la DC Films è corsa ai ripari: non sarebbe stato meglio rinominare la pellicola come “Harley Queen and the Birds of Prey”?).

E dire che, all’inizio, il film si lascia anche vedere, con un divertente prologo animato che, in pochi minuti, riassume le origini dell’antieroina interpretata da Margot Robbie e ne introduce il nuovo status quo, dopo le vicende narrate in Suicide Squad (la mediocre pellicola di David Ayer del 2016, di cui questo Birds of Prey deve essere considerato uno spin-off), riuscendo anche a liberarsi subito, in maniera piuttosto abile, della presenza ingombrante del Joker (che viene solo citato, ma non compare mai nella pellicola). La Robbie, tra l’altro, mostra di trovarsi molto a suo agio nei panni della protagonista e anche Ewan McGregor, almeno nella prima parte del film, gigioneggia divertito nell’ostentare il sadismo del suo personaggio (il boss del crimine Roman Sionis, alias Black Mask). Il problema è che, molto presto, la giovane regista Cathy Yan deve arrendersi di fronte alla pochezza della sceneggiatura (opera di Christina Hodson, già autrice dello script del non certo esaltante Bumblebee), che, a parte qualche felice trovata iniziale (Harley che adotta una iena e la chiama Bruce, come l’alter ego di Batman o le scene che vedono la protagonista sfruttare la fama del suo ex fidanzato per rimanere impunita), si arena quasi subito in una sequela di cliché scontatissimi, da riuscire ad annoiare anche spettatori con ben poche pretese.

Perché alcuni cinema hanno modificato il titolo di Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn

La povera filmmaker di origini cinesi ce la mette davvero tutta a far emergere il suo talento, cercando di sopperire alle banalità della trama con frequenti derive cartoonesche ed estetica pop in dosi massicce. Purtroppo, però, alla fine, il film appare più come un poco riuscito intruglio citazionista di opere di ben altro spessore che un lavoro veramente originale: alcune scene volutamente camp nel lungo combattimento finale, per esempio, vorrebbero essere un omaggio alla mitica serie televisiva di Batman degli anni Sessanta, ma pur essendo una commedia action e nonostante la follia della protagonista, la pellicola arriva a sfiorare la divertente demenzialità dello show con Adam West solo a tratti. Inoltre, l’evidente tentativo di emulare l’umorismo scorretto dei due lungometraggi dedicati a Deadpool, non si concretizza quasi mai, con un’irriverenza di facciata, che somiglia solo vagamente alla giocosa volgarità delle due pellicole interpretate da Ryan Reynolds.

Forse consapevole di questi limiti, nel finale, la produzione decide di rifugiarsi in uno sviluppo degli eventi più che convenzionale, dove l’inevitabile scontro tra buoni e cattivi riesce a trovare l’unica sua ragion d’essere nelle belle scene di lotta coreografate da Chad Stahelski (noto per aver diretto i tre film di John Wick). Veramente troppo poco, per un film teoricamente concepito per ridurre la distanza con i rivali dei Marvel Studios. E se qualcuno ancora dubitasse della pessima scelta del titolo, tenete presente che le varie Renee Montoya, Helena Bertinelli (Cacciatrice), Cassandra Cain e Black Canary, sono, spesso, poco più che delle comparse. Inoltre, interpretazioni inadeguate (su tutte quella di Rosie Perez nei panni del detective Montoya), inspiegabili trasformazioni dei personaggi dei comic book (cosa c’entra la paffuta ladruncola del film con la figlia di David Cain e Lady Shiva dei fumetti?) e caratterizzazioni ridicole (trovare qualcuno che possa giudicare divertente l’improponibile Cacciatrice che compare nella pellicola, è un’impresa non da poco) riescono a mettere in ombra non solo l’ottima Margot Robbie, di cui abbiamo già detto, ma anche la brava Jurnee Smollett-Bell, la cui Black Canary è l’unico personaggio di un certo spessore, oltre alla protagonista, che avrebbe meritato più spazio.
Insomma, se questo è quello che ci dobbiamo aspettare con i prossimi film della Warner/DC, allora poveri noi: già tremiamo a quello che ci toccherà sopportare quando sullo schermo torneranno i big della casa editrice newyorkese.

Apocalisse, recensione: il Libro della Rivelazione secondo Castelli e Roi

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Quando nel corso del 2018 la Sergio Bonelli Editore ha inaugurato l’etichetta Audace con la miniserie di Deadwood Dick e il primo volume di Senzanima, nessuno si sarebbe aspettato di vedere, in un tempo così breve, un numero tanto elevato di nuove proposte, per di più progressivamente sempre più lontane dai fumetti generalmente associati alla casa editrice milanese. Per questo motivo, dopo aver assistito all’arrivo di filoni narrativi poco tradizionali (Cani sciolti, Darwin), a rivisitazioni moderne di personaggi storici (Mister No Revolution) e all’esplorazione di nuovi generi (K-11, Attica, Il confine), l’uscita di un volume come Apocalisse non avrebbe dovuto sorprenderci più di tanto. Invece, una volta iniziata la lettura, questa trasposizione a fumetti dell’opera di San Giovanni è apparsa, subito, come uno dei più insoliti e inattesi progetti del nuovo corso della Bonelli. È vero che avere al timone dell’opera due pesi massimi come Alfredo Castelli e Corrado Roi (autori rispettivamente di testi e disegni), tra gli alfieri riconosciuti del fumetto di qualità della casa editrice, sarebbe dovuto bastare a garantire al volume un buon successo di vendite, ma una scelta così coraggiosa e non priva di incognite, ha rappresentato ben più che una semplice scommessa editoriale. Crediamo, piuttosto, che essa debba essere intesa come la prova evidente dell’intenzione della Bonelli di voler, finalmente, sfruttare potenzialità, di cui, in passato, l’editore di via Buonarroti sembrava non essere consapevole: molti di coloro che hanno avuto la possibilità di visitare lo stand della Bonelli all’ultima edizione di Lucca Comics and Games, per esempio, saranno probabilmente rimasti letteralmente frastornati dalle tante novità a disposizione dei lettori, rispetto alla pur ricca offerta degli anni precedenti, che se da un lato continuavano a celebrare la tradizione (il “texone” di Claudio Villa, il numero 400 di Dylan Dog), dall’altro rendevano manifesta la volontà dell’editore di muoversi con decisione verso altre strade e, addirittura, di investire su altri media (ci riferiamo, ovviamente, al film di Dampyr, teorico apripista di un ambizioso universo cinematografico bonelliano). Quindi, sebbene non sappiamo se il lavoro di Castelli e Roi sarà in grado di raggiungere una platea così vasta da garantire, a breve, ulteriori esperimenti di questo tipo, l’idea che alla Bonelli non manchi (passateci il gioco di parole) l’audacia di avventurarsi su percorsi in cui il ritorno economico è tutt’altro che assicurato, rappresenta un forte segnale di vitalità per il fumetto italiano, a dispetto della scarsa attenzione tuttora riservatagli dalla cosiddetta cultura ufficiale del nostro Paese.

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Questa lunga introduzione, pur se necessaria a sottolineare il favore con cui abbiamo accolto una svolta editoriale così importante, nasconde anche un altro scopo: ritardare il più possibile l’inizio della nostra analisi critica, di cui non neghiamo le difficoltà, e che, come sarà chiaro a breve, dovrà necessariamente vertere quasi esclusivamente sui disegni di Roi. Sulla sceneggiatura di Castelli, infatti, che coltivava questo progetto da anni, c’è ben poco da dire: gran parte di essa riprende con piccole variazioni il testo originale, o meglio, solo quella parte che il papà di Martin Mystère ha ritenuto essenziale a far sì che l’opera non venisse snaturata. Ora, decidere se la selezione operata dal vulcanico autore milanese sia stata corretta o meno non è certo un’impresa facile, soprattutto per chi, come noi, non può vantare nel proprio curriculum studi di esegesi biblica. Teoricamente avremmo potuto prendere in considerazione solo le brevi parti poste all’inizio e alla fine del volume (i passaggi, che, più di tutti, ricordano una storia del detective dell’impossibile), o gli intermezzi di poche tavole, con protagonisti illustri personaggi, che in tempi più o meno recenti si sono interessati al testo di San Giovanni (un escamotage utilizzato da Castelli probabilmente per venire incontro ai tradizionali lettori bonelliani, incautamente avvicinatisi a un’opera così complessa, solo perché attratti dal nome degli autori). Tali parti, però, non sono così estese da permetterci di utilizzarle per una valutazione complessiva, e, soprattutto, non sono altro che una conferma non solo della vastissima cultura di Castelli, ma anche della sua inesauribile curiosità, che, in tanti anni di carriera, gli ha permesso di attingere a qualunque fonte disponibile relativa a un determinato argomento e di utilizzarle a fini puramente narrativi.

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Passando, quindi, ai disegni di Roi, difficilmente qualcuno avrebbe potuto immaginare un artista migliore di lui per dare forma al simbolismo profetico di San Giovanni, la cui interpretazione è, ancora oggi, oggetto di forti controversie. Le figure rarefatte, i giochi di ombre, i frequenti chiaroscuri, il magistrale utilizzo del bianco e nero, sono tutti elementi che il disegnatore varesino ormai padroneggia alla perfezione e che, oltre a essere diventati l’essenza della sua arte, in questa opera, risultano fondamentali a comunicare il forte senso di angoscia indotto dagli eventi che preludono alla fine del mondo. Un testo con queste caratteristiche, inoltre, che determina l’assenza di un preciso indirizzo iconografico, è l’ideale per un autore che ha sempre preferito atmosfere vagamente oniriche o al limite del surreale. Ma, proprio in virtù della considerevole libertà creativa a sua disposizione, Roi adotta anche due scelte stilistiche curiosamente controcorrente: innanzitutto, le stelle sono rappresentate in maniera quasi fiabesca, nella classica forma stilizzata a cinque punte, mentre per raffigurare la Luna, il disegnatore arriva addirittura a omaggiare un pioniere del cinema fantastico come Georges Méliès, un autore che nei suoi lavori non si è mai avvicinato ai temi trattati dal Libro dell’Apocalisse.

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Bisogna anche sottolineare, tuttavia, che l’assenza, per larghi tratti, di una vera sceneggiatura, tende a penalizzare il lavoro di Roi, le cui tavole, a volte, sembrano più delle illustrazioni a corredo di un testo letterario, che reali pagine di un fumetto. In questo modo, però, il rischio è di scivolare nel puro esercizio di stile, che poco a che fare con la narrativa disegnata.
Non possiamo negare, infatti, che il risultato finale ci abbia lasciati un po’ freddini: sarà che non siamo abituati a pensare a un Castelli capace di rimanere quasi sempre nascosto dietro un semplice adattamento, ma il rischio che l’opera possa essere ricordata solo per i disegni di Roi è davvero molto alto.

Guardiani della Galassia 1-6: La sfida finale, recensione

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Che Donny Cates stia diventando una delle stelle più luminose di quell’affollatissimo firmamento che è, oggi, il fumetto americano è cosa ben nota anche ai lettori italiani, i quali, durante l’ultima edizione di Lucca Comics & Games, non hanno mancato di mostrargli tutto il loro entusiasmo, prendendo d’assalto lo stand Saldapress, dove lo scrittore texano era uno degli ospiti più prestigiosi. La sua rapida scalata al successo ha colto di sorpresa anche i boss della Marvel che, prima di affidargli i testi di Thor dopo la fine del lungo e celebrato ciclo di Jason Aaron (il primo numero della testata del Dio del Tuono, che vedrà all’opera Cates in coppia con il disegnatore Nic Klein, è annunciato per gennaio 2020), lo avevano sempre destinato a collane vicine alla chiusura o in attesa di un rilancio editoriale. È questo il caso dei Guardiani della Galassia, che, terminata la run di Gerry Duggan (il quale aveva stancamente proseguito sulla stessa strada del suo predecessore Brian Michael Bendis, cercando di riproporre su carta lo stile leggero e scanzonato dei due film di James Gunn dedicati ai personaggi) sembravano essere destinati a una progressiva discesa nelle retrovie dell’Universo Marvel.

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Già dal primo numero del nuovo corso, Cates opera un deciso cambio di rotta: riallacciandosi direttamente agli eventi di Infinity Countdown e Infinity Wars - le non certo esaltanti miniserie con cui la Casa delle Idee ha tentato di riportare in auge le Gemme dell’Infinito -, la vicenda si apre in un punto misterioso del cosmo, dove Eros (alias Starfox), fratello di Thanos, ha riunito gli esseri più potenti dell’universo, per ascoltare il testamento del defunto titano adoratore della morte. Costui, in realtà, sconcertando tutti, rivela, attraverso un messaggio registrato, di avere impiantato la sua coscienza in un’altra persona, in modo da poter tornare in vita, nel caso di una sua prematura scomparsa. Thanos, naturalmente, non rivela l’identità di questa persona, ma i sospetti di Eros si concentrano subito su Gamora, figliastra del titano e responsabile della sua morte, di cui si sono perse le tracce alla fine di Infinity Wars. Il piano di Thanos, però, è ben più complesso di quello che sembra, tanto che, mentre iniziano i preparativi per catturare Gamora, la riunione viene improvvisamente interrotta dai membri dell’Ordine Nero, intenzionati a impadronirsi del corpo decapitato del titano, su ordine di Hela, la dea asgardiana della morte. Da qui in poi, la narrazione procede spedita, con continui ribaltamenti di fronte, insospettabili tradimenti e nuove alleanze tra i vari personaggi, nel tipico stile di Cates, dove dialoghi brillanti e veloci accompagnano uno sviluppo degli eventi incalzante, in cui i momenti di riflessione sono ridotti al lumicino.

Allo scrittore texano piace intrattenere il pubblico senza creare troppi grattacapi e lo fa giocando rispettosamente con decenni di continuity Marvel: a pochi sfuggirà il parallelismo tra la caccia a Gamora e quella ben più famosa a Marvel Girl/Fenice consumatasi sulle pagine di Uncanny X-Men quarant’anni fa. Allora le truppe d’assalto erano guidate dalla Guardia Imperiale Shi’ar, oggi, a omaggiare quella saga indimenticabile, rimane il solo Gladiatore assieme a pochi fedeli alleati, in squadra con personaggi portati alla ribalta dai blockbuster dei Marvel Studios (Nebula su tutti) o intelligentemente ripescati dal recente passato della Casa delle Idee (ne è un esempio il misterioso Zak-Del, meglio noto come il Fantasma). A difendere la fuggitiva, invece, non ci sono più gli X-Men, ma ciò che resta della squadra di Star-Lord dopo i tragici eventi delle due miniserie sopracitate, pronti a unirsi a nuovi, quanto improbabili, alleati. Tra questi, meritano una citazione il Ghost Rider Cosmico, creatura dello stesso Cates, a cui l’autore mostra di essere particolarmente affezionato, non perdendo occasione di inserirlo in qualche nuova trama, non appena se ne presenta la possibilità, e Beta Ray Bill, il Thor alieno creato da Walter Simonson, che, a quanto pare, è un altro personaggio molto caro allo sceneggiatore texano, tanto da averlo utilizzato, di recente, anche ne La morte degli Inumani.

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Cates, a ogni modo, non si limita a un semplice, per quanto ingegnoso, remake della Saga di Fenice Nera, ma porta avanti la narrazione senza perdere mai di vista il tema portante della vicenda (incentrata sul diabolico piano ordito da Thanos e Hela), non mancando neanche di regalarci qualche momento sentimentale (se non proprio romantico) o ricco di humor. Un punto fermo del suo stile, presente in quasi tutte le sue opere, a cui l’autore ha preferito non rinunciare, per poter bilanciare i non pochi passaggi più cupi imposti dalla trama, che rappresentano il vero punto di rottura rispetto alle precedenti gestioni di Bendis e Duggan.

Sul fronte artistico, Cates ritrova Geoff Shaw, con cui aveva già collaborato su God Country e altre serie Image, oltreché sulla mini-saga Thanos vince. Pur non mostrando capacità tali da indurci a inserirlo tra i disegnatori di punta della Marvel, il suo tratto riesce a garantire nei volti dei personaggi quel minimo di espressività tale da rendere il lettore consapevole delle loro emozioni. Inoltre, l’estrema variabilità con cui costruisce le tavole ben si addice ai frequenti cambi di ritmo voluti da Cates: particolarmente efficaci sono, in proposito, le splash-page, che, utilizzate in chiusura dei vari episodi o nei momenti più importanti della storia, risultano decisive a sottolineare in maniera dirompente i nuovi sviluppi della trama.

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Al termine di questa avventura in sei parti, presentata in Italia con il titolo di La sfida finale (che, purtroppo, fa perdere il senso dell’originale The Final Gauntlet, evidente richiamo a The Infinity Gauntlet, la miniserie degli anni Novanta di Jim Starlin, George Pérez e Ron Lim, che è stata la principale fonte di ispirazione degli ultimi due film degli Avengers), vediamo nascere la nuova formazione dei Guardiani, pronta a lanciarsi alla ricerca di Rocket Racoon, in una saga che segnerà anche l’addio di Cates alla testata (Shaw, invece, ha lasciato i personaggi proprio con il sesto numero, per seguire lo sceneggiatore texano in un nuovo progetto creator-owned), impossibilitato a scriverne i testi, dopo aver iniziato a lavorare alle nuove storie di Thor.

Per ora Panini Comics si è limitata a presentare il ciclo di Cates e Shaw nel tradizionale albetto spillato. Speriamo, però, che, a breve, ne venga proposta anche una versione in volume: non stiamo certo parlando di una pietra miliare del fumetto americano, ma in mezzo a tanti rilanci strombazzatissimi, poi rivelatisi una mezza delusione (con I Fantastici Quattro di Dan Slott in prima fila), questa nuova incarnazione dei Guardiani della Galassia rappresenta una bella boccata di aria fresca, ben meritevole di una confezione più prestigiosa.

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