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Si alza il vento: recensione

Si alza il vento è un capolavoro. Inutile girarci troppo attorno, meglio mettere le cose in chiaro sin dall’inizio.
È un film d’animazione tra i migliori che siano mai stati realizzati; opera ultima, testamento figurativo, di un regista e sceneggiatore, Hayao Miyazaki, genio indiscusso dell’animazione giapponese.

Un’opera che lascia pesantemente il segno in chi ha il piacere di fruirne; già, perché non è solo un piacere visivo o uditivo quello che se ne ricava, ma un vero e proprio balsamo spirituale. Perché è proprio questo che Miyazaki ci lascia con la sua ultima fatica.
Un’elegia raffinata ed estremamente poetica della vita, la bellezza intrinseca del trovare una raison d'être, forza motrice vitale dell’uomo anche e soprattutto nell’hinc et nunc forzato, oppressivo che viene imposto da cause esterne (la malattia di Nahoko, il “decennio di attività dell’artista”). Lo scopo finale a cui puntare superando tutte le avversità.

Una cosa va detta però: non è il solito Miyazaki. È più intimo, più poetico, più riflessivo e in un certo modo più malinconico.
Con questo dramma basato su personaggi realmente esistiti, mescolando storia, domini onirici, tragedie, ermetismo, arte e speranze, il regista confeziona un prodotto estremamente intimo, personale, in cui traspare la sua persona, i suoi ideali, la sua interiorità. Lo percepiamo soprattutto nei personaggi; in Jirō, il protagonista, e nella sua smisurata passione nel dedicarsi ad un progetto, e in Caproni, nella sua saggezza, nelle sue parole.

Ci allontaniamo da La città incantata quanto da Ponyo e da Il mio vicino Totoro, questa volta l’obiettivo è puntato da un’altra parte.
Questo progetto fortemente voluto dal Maestro e dalla lunga gestazione prende il via nel 2010 dopo che l’anno precedente lo stesso regista aveva realizzato un omonimo manga, Kaze tachinu, fortemente incentrato sulla guerra e decisamente per un pubblico adulto. Questo fumetto si ispira nella parte finale al romanzo omonimo scritto da Tatsuo Hori e ambientato in un lazzaretto di malati di tubercolosi.
Scelta sofferta quella del regista di allontanarsi dalla connotazione magica, soprannaturale tipica delle altre produzioni dello Studio Ghibli, contestata da molti per i temi trattati come la guerra e il terremoto del Kanto del 1923, a seguito degli eventi del 2011. Difficilissima da accettare anche per Miyazaki stesso, fervente pacifista. Per questo la scelta di rifarsi al libro di Hori e di inventare così la storia d’amore, totalmente fittizia, tra l’ingegnere e la bella ma fragile Nahoko, in modo tale da non concentrare il film sulla creazione di un aereo e sul tema bellico, che resta sullo sfondo; marginale, astratto.

E così nasce una storia sull’amore e sulla vita, sul dolore e sulla speranza, sulla corruzione inevitabile del bello. Ancora una volta l’incredibile dolcezza nella rappresentazione delle relazioni umane dipinta eccezionalmente dal Maestro. E Miyazaki ci imprime la sua visione, la sua personalità, le sue ideologie. Tematiche come la bellezza dell’arte, l’elogio incondizionato della passione che porta alla realizzazione di un progetto, della totale dedizione di un uomo verso la sua creatura, la capacità di continuare a vivere anche se circondati dal dolore. “Le vent se lève! … il faut tenter de vivre!”, la citazione da Le cimetière marin di Paul Valéry spesso ripetuta, compendia magistralmente il tutto.

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La trama del film segue le vicende di Jirō Horikoshi, ingegnere e progettista giapponese creatore del Mitsubishi A6M, caccia leggero estremamente manovrabile ed efficace che fece la differenza nei primi anni del secondo conflitto mondiale, che impossibilitato a pilotare aerei per via della sua miopia, concentra tutti i suoi sforzi e la sua grande passione e intelligenza nella progettazione di aeroplani, riuscendo a colmare l’enorme arretratezza tecnologico-militare nel campo dell’aviazione del Giappone nelle prima metà del XX secolo. A questo personaggio, come già accennato precedentemente, si aggiunge Nahoko, incontrata per la prima volta su di un treno durante il terribile terremoto del Kanto del 1923 che in seguito diverrà sua moglie, bellissima quanto fragile ed effimera, affetta da tubercolosi, male che poi ne causerà al prematura morte.

Altri personaggi ruotano attorno ai due, su tutti Giovanni Battista Caproni, ingegnere aeronautico italiano, vero e proprio pioniere dell’aviazione mondiale, che Jirō stima e ammira e che incontra spesso nei suoi sogni, che funge da mentore, da guida, da ispirazione per il “giovane giapponese”. Un vero Virgilio per un protagonista che ha smarrito la speranza di poter volare.

Ed è proprio Caproni a pronunciare alcune tra le frasi più importanti e significative del film. Da “Prima di tutto viene il buon gusto. […] La tecnologia seguirà.” vera e propria dichiarazione di intenti di un Miyazaki ancorato alla tradizione, alla classicità e non proprio simpatizzante di tutte le nuove tecnologie che vengono introdotte continuamente nel mondo dell’animazione. Alla bellissima metafora delle piramidi: "Tra un mondo con le piramidi e un mondo senza piramidi, tu quale sceglieresti?”; esemplare condensazione della visione artistica del regista, che rivendica l’importanza e l’indipendenza dell’arte, destrumentalizzandola da qualunque critica a posteriori di una erronea fruizione del mezzo. Lo strumento realizzato, la creazione, deve essere celebrata per ciò che rappresenta, non per l’uso che ne verrà fatto. È il processo che porta alla genesi dell’artefatto che interessa a Miyazaki, non l’uso bellico a valle dell’iter.
La mirabile opera realizzata da Jirō è un tripudio di scienza, tecnologia e passione; il progettista è artista, è demiurgo in grado di materializzare i suoi sogni, mettere su carta la sua visione del mondo, le sue idee, il suo intelletto, celebrando la vita.

Abbiamo detto che ci si distacca dalla produzione precedente del regista. Questo è sicuramente un dato di fatto, ma lo stile che ha reso famoso lo Studio Ghibli, soprattutto per le ambientazioni, i fondali, le animazioni e le musiche, rimane, soprattutto nelle scene oniriche e nella natura, aspetti che vengono estremamente esaltati da questo tratto distintivo.

Insomma Si alza il vento è tutto questo. Un elegia e un testamento. Si perché lo spettatore attento scorge sottotraccia una nota malinconica che emerge sporadicamente attraverso alcune battute, alcune dichiarazioni presenti nel film. Quella paura di un mondo che si sta evolvendo verso una diversa concezione dell’arte, una sua strumentalizzazione e quasi, a volte condanna. Dove si perde di vista la vera espressione del genio per adattarsi a surrogati malsani e mainstream privi di estro, di "buon gusto".
“[…]dove sono andati i tempi di una volta per Giunone, quando ci voleva per fare il mestiere anche un po' di vocazione” sembra dirci Miyazaki, sintetizzandolo con Fabrizio De Andrè.
Forse il migliore Miyazaki di sempre. Di certo un lascito intenso e cospicuo per il cinema.
Resta il fatto che quest’opera è indubbiamente di mirabile fattura, una lezione di vita sulla vita stessa che aggrada gli occhi e il cuore.

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