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Leonardo Cantone

Leonardo Cantone

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Ritorno al Noir, la recensione di Tyler Cross 1: Black rock

Il noir è un genere sempre molto difficile forse perché necessita, nel suo sviluppo, di elementi stabili, ben definiti, archetipali, dai quali non si può esimere: detective hard boiled, la femme fatale bionda, il gangster pericoloso, le ombre, l’oscurità, la metropoli peccaminosa. Frank Miller, ad esempio, ha saputo esplorarlo, nel fumetto, alla perfezione.
Non sono da meno Fabian Nury e Brüno che, giocando con questi elementi, e spesso ribaltandoli, sono riusciti a creare un grande noir.

Negli USA degli anni ‘50, Tyler Cross è un gangster al soldo di chi paga meglio e, come tale, accetta un incarico pericoloso che ha a che fare con un grosso carico di eroina: rubare la droga al figlioccio irrispettoso del suo attuale datore di lavoro, un vecchio boss mafioso che non vuole andare in pensione. Ma come ogni noir che si rispetti, le cose non andranno per il verso giusto e Tyler si ritroverà in un piccolo paese del Texas a fare i conti con la famiglia Pragg che tiene sotto controllo l’intera comunità. Se il politically correct vuole che il protagonista si ravvedi e salvi la situazione, Nury e Brüno scelgono la via più decadente.

Tyler Cross 1

Tutta l’aria che si respira è da noir: puzza di sigarette, odore di polvere da sparo, primi piani, dettagli, lame di luce che tagliano le ombre. Nury sceglie, rispettandone comunque le direttive narrative, di sovvertire i “luoghi comuni” del genere. Alla metropoli, lo sceneggiatore, sceglie il deserto che con il suo caldo e la sua sabbia bloccano i personaggi e appesantiscono l’atmosfera, tanto quanto farebbero i vicoli sporchi e maleodoranti di una città. Al posto del Detective, il gangster Cross, riesce a catturare la curiosità e condurre il lettore attraverso la trama, senza che quest’ultimo giudichi il suo operato: dopotutto è un criminale. Alla femme fatale bionda e prosperosa pronta a sedurre chiunque posi gli occhi sulle sue curve, troviamo Stella, ragazza in attesa di essere salvata, anche da se stessa. Nury costruisce personaggi senza abbellimenti: non ci sono eroi positivi, ognuno a modo suo – su tutti, i membri della famiglia Pragg, senza possibilità alcuna di riscatto – colpevole di aver fatto troppo o troppo poco.

Tyler Cross 2

La solida sceneggiatura non poteva che trovare espressione grafica migliore nel disegno di Brüno: sintetico, caricaturale, cromaticamente piatto – che ricorda le operazioni stilistiche di Tim Sale e Bruce Timm – che con una straordinaria frammentazione della tavola conferisce un ritmo perfetto al racconto. Ed è proprio sull’utilizzo sapiente delle vignette che Nury e Brüno riescono a catturare il lettore: dettagli, numerosi, di mani, sguardi, pistole, dune e nubi di fumo ci immergono nelle scene, rendendoci parte integrante della storia, destinatari unici della visione complessiva dell’azione. Il tratto grafico indugia sul sangue, sui corpi, sul sudore e la polvere creando un cortocircuito tra la rappresentazione spregiudicatamente sintetica e contenuto drammaticamente realistico.

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L’incursione narrativa e visiva nel western strizza l’occhio a Sergio Leone, con una ipotetica fusione tra Il buono, il brutto e il cattivo e C’era una volta in America: la criminalità organizzata della metropoli si scontra con banditi dell’America rurale del sud. Ma i riferimenti al noir in tutte le sue espressioni mediali sono numerose: le strisce di Dick Tracy nella deformazione caricaturale dei personaggi, i romanzi di Raymond Chandler nella prosa evocativa della voce fuori campo e il cinema di Howard Haws nel black humor di cui è intrisa la storia.
Tyler Cross riesce dunque a porsi come ponte tra il grande noir “classico” e la sua declinazione moderna, a testimonianza che il genere, forse troppo spesso dichiaratamente dimenticato ma fin troppo spesso utilizzato, riesce ancora a trovare spazio nel cuore del lettore.

Prometheus: Fire and stone, l’Alien Universe in espansione: la recensione

Il progetto dell’Alien Universe continua a prendere forma, ad ampliarsi e a legare ancora di più i propri sottoprodotti: l’unione dei brand di Aliens, di Predator e di Prometheus trova compimento nella maxisaga Fire and Stone.

Come già scritto nella recensione di Aliens, tutti i recenti prodotti fumettistici legati allo xenomorfo alieno contribuiscono a ricostruire l’ampia ed articolata saga iniziata nel 1979 col film diretto da Ridley Scott.
Fire and Stone: Prometheus, scritto da Paul Tobin e disegnato da Juan Ferreyra si pone, difatti, subito dopo l’omonima pellicola, sempre diretta da Scott, del 2012. Il film, forse il peggiore della saga, aveva lasciato aperti numerosi interrogativi a cui la serie a fumetti cerca, solo in parte, di dare risposta. Il pianeta che fa da setting al racconto è, infatti, il medesimo del film: LV-223. I protagonisti del fumetto dovranno svelare il mistero legato al fallimento della missione precedente. L’interrogativo più accattivante, e centrale della pellicola come del comic, è quello dell’identità e degli scopi degli Ingegneri: umanoidi giganti che, spinti dalle loro mire creazionistiche, sembrerebbe abbiano non solo contribuito alla nascita del genere umano, ma anche di altre specie aliene, tra cui gli stessi xenomorfi.

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Paul Tobin, dunque, riprende li dove il film di Scott era terminato: gli xenomorfi sono “nati” e hanno popolato l’intero pianeta creando, a loro volta, ibridi animali. L’elemento che, indubbiamente, colpisce durante la lettura è l’atmosfera: sono pressoché assenti cunicoli bui di astronavi o la minaccia del vuoto dello spazio, ma, legando questo franchise a quello di Predator, la foresta che nasconde minacce sembra essere l’elemento di connessione adatto. Simile all’idea del film, la serie a fumetti vede l’azione svolgersi sul suolo del pianeta, permettendo agli autori – e, dunque, ai lettori – di esplorare le possibilità animalesche della fauna locale mostruosamente ibridata con gli xenomorfi: scimmie, tori, squali, solo alcune delle specie che, ora, fanno ufficialmente parte dell’Alien Universe. Come nella saga filmica di Predator la foresta, la natura, è inospitale e nasconde segreti e misteri che, parzialmente, nel corso della lettura verranno svelati. Dopotutto, Prometheus, è solo un capitolo della saga, non tutto può, e deve, essere rivelato.

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Il compito di Paul Tobin è triplice e perfettamente riuscito: recuperare la trama della pellicola cinematografica – che fa, dunque, da prequel non solo alla saga filmica, ma all’intero universo multimediale degli xenomorfi – di arricchire l’Alien Universe di elementi inediti e, contemporaneamente, legarlo nell’atmosfera all’altro brand parallelo, non con solo semplici easter egg, ma livellarlo ad un unicum narrativo che sia coerente. Ulteriore elemento inserito da Tobin per legare il suo racconto a quello filmico, è la scelta di introdurre, specie nella prima parte, un forte richiamo all’utilizzo del mezzo video: in Aliens di James Cameron del 1986, i marine protagonisti portano con loro delle telecamere con cui registrano la missione, così, anche i protagonisti del fumetto, sono spesso mostrati attraverso il filtro – chiaramente simulato dal disegno – di uno schermo o di una telecamera.

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Medesimo discorso lo si può applicare alle scelte visive di Juan Ferreyra: ampie splash page, costruzioni orizzontali a doppia pagina del layout e vertiginose inquadrature, indugiano verso uno sguardo cinematografico che conferisce un grande ritmo alla narrazione, specialmente nelle numerose scene d’azione. Se il disegno, forse, si concede un po' troppo alla deformazione anatomica, riesce ad essere funzionale al racconto e all’intero impianto artistico delle scene. Straordinariamente ripresi ed adattati sono, infatti, gli elementi iconici dell’Alien Universe: xenomorfi ed ingegneri su tutto, ma anche l’interno delle astronavi o le tute spaziali dei protagonisti.

Per i fan della saga di Alien questo è, indubbiamente, un periodo d’oro: non solo il fruitore ha la possibilità di esplorare su numerose traiettorie l’universo narrativo, ma anche di ricostruire il legame tra i diversi prodotti multimediali che già ha amato e conosciuto. Con l’imminente uscita di Alien Covenant questa parallela saga a fumetti non può che essere il compendium necessario per rivivere a tuttotondo l’affascinate terrore per i sibilanti xenomorfi.

Alla ricerca di un canone, la recensione di Aliens 1 di Saldapress

Che lo Xenomorfo ideato esteticamente dall’artista surrealista Hans Ruedi Giger sia parte integrante dell’immaginario collettivo è un dato incontrovertibile: nonostante la poca dimestichezza con la saga fantascientifica inaugurata dal film Alien (1979) diretto da Ridley Scott, chiunque conosce la creatura aliena sibilante e spaventosa capace di generare, da quasi quarant’anni, profonda inquietudine. Il parassita alieno non solo fa preda degli esseri umani, li caccia e li uccide, ma li trasforma in incubatori della propria specie: la paura non è rivolta, dunque, alla sola morte, ma alla contaminazione e alla agonia consapevole e, sopratutto, all’ignoto. Le creature si muovono nell’oscurità, attraverso i cunicoli, alimentano il terrore per ciò che non si conosce e ricordano l’impotenza dell’essere umano.

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Tali, strutturali, premesse ne hanno decretato il continuo successo. Non stupisce, dunque, che, dopo il discutibile prequel Prometheus (2012), Ridley Scott voglia ancora indagare il mondo degli xenomorfi attraverso il nuovo capitolo Alien: Covenant.
Ma, circa un anno prima, la Dark Horse, aveva già scelto di esplorare il vasto mondo cinematografico di Alien – in precedenza già arricchito da numerose serie a fumetti e serie videoludiche – con una nuova collana dall’inequivocabile titolo di Aliens. Il titolo della serie, difatti, sceglie una ben precisa collocazione temporale all’interno della saga cinematografica e, cioè, tra il primo film di Scott e Aliens – scontro finale (1986) di James Cameron.

Ogni fan delle pellicole conosce il nome di Ellen Ripley, interpretata da Sigourney Weaver, unica sopravvissuta del disastro della nave spaziale Nostromo frutto del primo incontro con le creature degli Xenomorfi, e ha familiarizzato con le mire economiche della Weyland-Yutani Corporation. La nuova serie Dark Horse inizia questo nuovo viaggio, proprio dalle nascoste logiche espansionistiche della multinazionale: il primo albo edito in Italia dalla Saldapress, dunque, raccoglie le prime due uscite americane della miniserie Defiance, scritta da Brian Wood e disegnata da Tristan Jones, che raccontano il tentativo di recupero del relitto di una nave cargo alla deriva, l’Europa, che si rivela essere in realtà una missione per la cattura gli Xenomorfi. Ma quello che può sembrare uno sviluppo narrativo “canonico” per i capitoli della saga di Alien, concede invece un colpo di scena che condizionerà l’intero sviluppo della miniserie.

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Brian Wood cambia la protagonista “storica” e la sostituisce con la marine coloniale Zulla Hendricks, per poter così essere libero di espandere l’universo narrativo della saga, ancorandola contemporaneamente a quello intero multi-mediale di cui si compone: un cameo – che, sicuramente, non rimarrà tale – vede Amanda Ripley, figlia di Ellen, adulta come nel videogame Alien: Isolation (2014), parlare con la protagonista della miniserie. La volontà di Wood, attestata nella perfetta adesione dell’atmosfera narrativa del fumetto a quella dei film, è di far in modo che il suo lavoro vada a comporre un capitolo di quella che è un’epopea fantascientifica che trova completezza attraverso media diversi, che siano cinematografici, fumettistici o videoludici. La sceneggiatura, riesce, dunque, nel proprio compito: l’eroina forte dal conflittuale rapporto con un sintetico, la “missione di recupero”, l’essere intrappolati e costantemente minacciati, i silenzi dello spazio siderale rotti dal sibilo degli Xenomorfi, sono quegli elementi che proiettano il lettore, fin dalle prime vignette, in quello che potrebbe essere un nuovo capitolo cinematografico di Alien.

A restituire tale atmosfera, non poteva non contribuire il disegno di Jones: dettagliato, dai tratti sottili e spesso nervosi, trova grande ricchezza nei dettagli, specie quelli fantascientifici – come le astronavi o gli stessi protagonisti alieni – che legano esteticamente la miniserie a fumetti alla saga cinematografica. Da segnalare, indubbiamente, i colori di Dan Jackson, capaci, nonostante una vaga sensazione di piattezza, di esaltare il tratto di Jones, rimarcando l’angoscia e la paura dei corridoi di una nave spaziale, popolata di angoli bui, sporcizia e metallo.

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Indubbiamente, tale miniserie non può, ma non dovrebbe, essere intesa al di fuori del contesto filmico. Rispetto alle numerose serie a fumetti precedenti, quella di Wood e Jones, vuole essere parte integrante e non spin-off o mero corollario dei capitoli filmici: l’obiettivo è quello, palese, di creare – come sta succedendo con Star Wars – un “canone” coerente e ben strutturato, una vera e propria mitologia degli Xenomorfi, che necessariamente trova sviluppo narrativo attraverso supporti e linguaggi diversi che concorrono verso la definizione di un unico universo.

Il jazzista del fumetto alla ricerca della mancanza, intervista a Giulio Rincione

Nel panorama fumettistico contemporaneo, Giulio Rincione, ha saputo ritagliarsi uno spazio estremamente riconoscibile grazie al suo tratto peculiare, intenso e, spesso, disturbante, al servizio di un racconto denso di significati, stratificato e dal grande impatto emotivo. Paranoiae e Paperi sono esemplificati per l’arte, sia grafica che narrativa, di Rincione: quale artista raffinato, gioca con il disegno e con le immagini attraverso un tratto nervoso ed inquietante, dalla grande potenza visiva, in cui un uso sapiente del colore è fondamenta espressiva e figurazione di temi socialmente ed emotivamente che in pochi sanno raccontare con tale sapienza. Editato dalla Shockdom, ha pubblicato lavori come Noumeno, Paranoiae e Paperi ma la deformazione grottesca, quasi caricaturale, delle sue figure si è adattata perfettamente anche ai personaggi della Bonelli, disegnando sulla serie di Dylan Dog (Color Fest, in uscita a maggio), Orfani e 4Hoods (in uscita ad autunno).
Sabato 1 aprile, abbiamo avuto modo di intervistarlo, ospite alla fumetteria Stregomics di Benevento.

Ciao, Giulio. Come nasce Rincione fumettista?
Rincione fumettista nasce a 15 anni quando ho cominciato a fare fumetti per i miei compagni di classe in cui prendevo in giro i professori, inventavo delle storie. Li ho capito che volevo raccontare tramite il fumetto e farlo come lavoro nella vita. In seguito ho frequentato la Scuola del Fumetto di Palermo dal 2009 al 2012 e li mi sono formato come disegnatore. Ma il vero Giulio Rincione disegnatore nasce nel 2013 quando, assieme a Francesco Chiappara e Lucio Passalacqua, fondo il collettivo indipendente Pee Show e mi affermo col mio stile, cercando di studiare e di esplorare una nuova strada e di trovare un mio percorso personale.

Come mai avete deciso di fondare il collettivo di Pee Show?
Perché dopo un anno in cui abbiamo girato per le fiere con il book in cerca di un editore, le cose non erano andate benissimo. Quindi abbiamo preferito dire la nostra senza cercare un editore, creando qualcosa che avesse l’obiettivo principale di essere “diverso”, di essere “sperimentale”, di essere “alternativo” e abbiamo cominciato con l’autoproduzione. E, da lì, le cose sono cambiate: non eravamo noi a muoverci, ma gli altri a venirci a cercare.

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Il tuo tratto e la composizione visiva delle tavole sono elementi di grande riconoscibilità della tua produzione. Come nasce tale tecnica espressiva?
La mia tecnica non è mai arrivata a maturazione e non arriverà mai a un punto in cui sarò soddisfatto, e viene da tutta una serie di elementi, autori che mi piacciano e che vengono mischiati col mio stile, col mio modo di intendere la linea e il segno. Io ho continuato a sperimentare: per ciò che riguarda la deformazione delle figure, delle prospettive, del colore, partendo da quello che è un mio gusto grafico, che vado scoprendo e maturando nel tempo. Ma è qualcosa che non posso spiegare passo passo. È qualcosa che continua a cambiare e dipende dall’esperienza. 

Dave McKeane, tra i tuoi autori d’ispirazione, viene definito “collagista digitale”. Ti ritroveresti anche tu in tale definizione?
In realtà, molto è basato sull’improvvisazione mentre lavoro. Spesso mi ritrovo a fare delle parti in collage, ma che non avevo previsto all’inizio. Oppure, mi metto a dipingere e mi accorgo che sto virando verso un segno più grafico, quindi… Io sono molto istintivo in quello che faccio: ho delle conoscenze tecniche che sicuramente metto in atto e delle lezioni che cerco di ricordare, ma non ho mai studiato abbastanza per poter risolvere qualunque problema mi si presenti. Direi che sono un istintivo perché, forse, “collagista digitale” è un po' limitante, perché questa tecnica non è costante nella mia produzione.
Mi piacerebbe diventare un “jazzista del disegno”. Non posso darmi da solo questa etichetta, ma mi piacerebbe diventarlo.

Paranoie è un intenso viaggio introspettivo nelle ansie e nelle paure del protagonista, costretto a scendere a patti con la propria identità. Com’è nato questo progetto?
È nato dopo un periodo ne troppo semplice ne troppo complicato, un periodo che tutti noi possiamo attraversare, durante il quale ho raccolto informazioni e, sopratutto, emozioni, aspettando il momento in cui avrei potuto sfruttarle per un nuovo libro. La trama è venuta dopo.

La serie Paperi nasce da una sola illustrazione: un triste Paperoga sotto la pioggia, osservato dal suo creatore, un divertito Walt Disney. Per i diversi racconti che compongono Paperi, hai lavorato con tuo fratello Marco, com’è stato collaborare insieme a lui?
Il progetto nasce su internet, grazie ai social network. Sentivo il bisogno di dare un volto ad alcuni pensieri, ad alcune sensazioni, e per contrasto ho voluto dargli l’aspetto di un papero, che riprenda leggermente i tratti disneyani. Nasce, così, l’immaginario del “papero Rincione”. Reduce da Paranoiae non volevo ricominciare a scrivere, volevo dedicarmi al disegno ed è subentrato Marco. Lavorare con lui è stato quasi liberatorio. Siamo gemelli, abbiamo convissuto quasi l’intera vita assieme, ci conosciamo alla perfezione ed è stato come se scrivessi per me stesso, anche meglio. E sopratutto con la sorpresa del “non sapere”, nonostante i soggetti, molto spesso, li decidevamo assieme.

Perché scegliere la simbologia o la metafora del mondo animale, specialmente dei paperi?
Innanzitutto mi piace disegnare paperi. Ed è una cosa fondamentale per un disegnatore, occuparsi di qualcosa che gli fa piacere realizzare, non deve soffrire e basta mentre disegna. L’immaginario Disney e dei suoi paperi, ricorda subito il fumetto umoristico e allegro e, così, noi abbiamo creato un’immagine stridente rispetto al contenuto. Come aggiungere sale e zucchero assieme e sentire le papille gustative impazzire. L’obiettivo era creare un forte contrasto.

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Un copertina prima e una storia poi su Dylan Dog, la parte della metanarrazione nella terza stagione di Orfani, un episodio in uscita per 4 Hoods. Che vuol dire lavorare in Bonelli?
È iniziato più di un anno fa ed è stato bello che non si sia più arrestato. Per un motivo o per un altro, ho sempre avuto qualcosa da fare. Lavorare per la Sergio Bonelli è stato come lavorare per me stesso: chiamandomi, loro sapevano di volere quel tipo di stile ed io non mi sono dovuto forzare, non mi son dovuto restringere o adattare. Il senso è questo: essere se stessi ed apprezzare la diversità che può dare un artista rispetto ad un altro.

Hai realizzato i disegni del web comics Il Cuore della Città per i testi di Francesco Savino. Come è nato questo progetto?
Nasce più di un anno fa, quando, Francesco Savino, durante il Cartoomics, mi aveva chiesto se ero disponibile a disegnare per lui una storia destinata al web. La cosa che mi ha fatto dire di si è stato vedere quanto lui tenesse davvero a questa storia, vedere che era particolarmente preso dalle tematiche che raccontava. Quando accetti un lavoro è importante avere la passione e l’entusiasmo di volerla fare.

Cercando di rintracciare un filo conduttore tra i tuoi lavori, che sia grafico o contenutistico, quale tracceresti?
A livello grafico è sempre il binomio tra pennellata, linea forte, grezza, piatta e una voglia volumetrica e tridimensionale che devono alternarsi in maniera del tutto improvvisata e che non posso prevedere. A livello di tematica, per ciò che sento più mio, più che la ricerca di un qualcosa che “c’è”, è la ricerca di un qualcosa che “manca”. E spesso, a mancare è l’allegria, i sentimenti positivi e di intrattenimento. Questo, non perché io sia un depresso cronico o una persona triste, ma perché mi sono reso conto che, dopo una certa età, non ero più in grado di essere divertente per gli altri, ma più propenso a raccontare qualcosa di più peso. Sicuramente se qualcuno volesse leggere qualcosa di Rincione, di certo non si aspetta “rose e fiori”.

E, quindi, il ragazzo di 15 anni che divertiva i compagni di scuola?
Molto spesso me lo chiedo. Sono cresciuto, ho preso le mie delusioni e quindi, probabilmente è rimasto li, bloccato in un limbo, in quella classe. Chissà che un giorno non lo possa rincontrare. Forse, quando farò pace con tutti i miei fantasmi.

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