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Luca Tomassini

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King of Spies, recensione: la vecchia spia chiude i conti

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Mark Millar è uno sceneggiatore di fumetti che della legittimazione del fumetto tra la cultura alta, ossessione di molti dei suoi colleghi, se ne frega allegramente. Della natura popolare della cosiddetta Nona Arte Millar riesce a cogliere il lato punk e anarchico, usandola come veicolo per le sue idee gioiosamente sovversive, tradotte in script sempre scanzonatamente sopra le righe. Una vena trasgressiva che ha caratterizzato fin dagli esordi il lavoro dello sceneggiatore, passando per il periodo dorato in Marvel ricco di hit come Ultimates, Civil War, Old Man Logan e le serie di sua creazione come Kick-Ass e Kingsmen – The Secret Service, tradotte con successo sul grande schermo.

La facilità di concepire soggetti accattivanti che sembrano fatti apposta per una trasposizione sul grande schermo lo porta sul finire degli anni 2000 ad interrompere la collaborazione con le major del fumetto per creare una propria etichetta, la Millarworld, con cui comincia a sfornare miniserie disegnate dai migliori artisti del comicdom, reclutati grazie alla capacità attrattiva delle sceneggiature di Millar. Nel 2017 arriva un colpo di scena che in realtà è perfettamente coerente con la direzione che Millar ha dato alla sua carriera nell’ultimo decennio: la cessione di Millarworld al colosso dello streaming Netflix, attratto dalla possibilità di poter disporre di un bel pacchetto di storie firmate da uno dei migliori scrittori di comics e pronte ad essere tradotte in immagini. A dire la verità la prima serie tv targata Millarworld/Netflix, Jupiter’s Legacy, non è stata esattamente un successo, né di pubblico quantomeno di critica. Ciò nonostante, Millar continua a sfornare miniserie a raffica. La maggior parte delle opere post-accordo con Netflix scritte da Millar negli ultimi anni, nonostante la confezione scintillante e il coinvolgimento dei migliori disegnatori su piazza, non sembrano altro che soggetti pronti per l’adattamento cinematografico, privi del peso specifico dei lavori che lo hanno reso famoso. A questo destino si sottrae però King Of Spies, l’ultima fatica di Millar, da poco pubblicata nel nostro paese da Panini Comics Italia. Si tratta di una scatenata spy-story, genere che Millar ha già frequentato con successo con la summenzionata Kingsmen, che va però oltre la serie di “pitch” partoriti a ritmi industriali che hanno caratterizzato le ultime opere.

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Se il nostro giudizio sull’opera dovesse basarsi solo sulla trama, tutto sembrerebbe già visto. Il protagonista, Roland King, è una vecchia spia in pensione che ha dedicato l’esistenza al servizio della Corona, un James Bond che in nome del bene superiore ha fomentato rivoluzioni o le ha stoppate sul nascere, ha rovesciato governi, insomma ha eseguito senza mai obiettare tutte le missioni assegnategli dai servizi segreti britannici, sporcandosi le mani di sangue. Il prezzo da pagare è stato quello di trascurare la famiglia e di perdere l’affetto del figlio. Quando gli viene diagnosticato un tumore che gli lascia solo sei mesi di vita, Roland coglie l’occasione per riflettere sulla propria vita: e il bilancio non è esattamente positivo. Guardandosi indietro, la vecchia spia si rende conto che, con le sue azioni non hanno favorito in alcun modo la gente comune, ma soltanto favorito gruppi di potere politici e religiosa, o media corrotti. Roland decide quindi che dedicherà il poco tempo che gli resta per cercare di rimediare il più possibile ai tanti errori commessi nella propria vita. E qui comincia il bello, perché la trama assume i connotati di un “revenge movie” in cui King chiude i conti e inizia a far fuori tutti i gangli di questo potere marcio. La sua furia non risparmierà nessuno: premier, presidenti, papi, nessuno sarà più al sicuro. Finché i servizi segreti non decideranno di fermarlo, lanciando una caccia all’uomo in cui coinvolgeranno anche suo figlio.

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La trama di King of Spies non brillerà certo per originalità, ma è il sottotesto anticonformista a dare alla mini una marcia in più che la rende irresistibile. Scagliando la furia di King contro quelli che vengono chiamati i “poteri forti”, Millar interpreta forse furbescamente, ma centrando in pieno il bersaglio, il sentire comune di tanti cittadini che hanno la sensazione di non essere padroni del proprio destino, che viene deciso altrove. Lo sceneggiatore inglese padroneggia al meglio il proprio mestiere, mettendo in scena un plot adrenalinico, avvincente e pieno d’azione, ricco dei suoi tipici dialoghi taglienti e di scene a sensazione che galvanizzeranno il lettore. Ma dietro all’azione esplosiva si nascondono anche riflessioni importanti sulle conseguenze delle nostre azioni e sull’eredità che lasciamo a chi viene dopo di noi.

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Fondamentale per la riuscita di King of Spies è l’apporto dei disegni di Matteo Scalera, in una delle prove migliori della sua carriera. Notevolissimo il lavoro di design dei personaggi (a partire dal protagonista Roland King, ritratto come un invecchiato ma sempre affascinante Pierce Brosnan) e lo storytelling adrenalinico che lascia davvero senza fiato. Il montaggio delle scene d'azione è magistrale, con l'uso di vignette che tagliano la pagina orizzontalmente come uno schermo cinematografico. La scelta delle inquadrature è audace e contribuisce a trasmettere al lettore l'effetto cinetico dell'azione raffigurata. Scalera fa ampio uso di una inchiostrazione molto spessa e carica di nero sulla quale si innesta la palette di colori soffusi di Giovanna Niro, un connubio felice che determina un risultato finale di grande effetto.
King of Spies è un’opera che fa quello che un fumetto dovrebbe fare, divertire e intrattenere, e lo fa ad altissimi livelli.

Batman: Detective Comics 1 - Il Quartiere, recensione: i vicini di casa del Cavaliere Oscuro

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Il biennio 2020/21 è stato foriero di grandi cambiamenti per Batman e le collane a lui dedicate. Già nel 2019 Tom King, con la conclusione del suo lungo ciclo sul personaggio, aveva dato un significativo scossone allo status quo del personaggio. Durante la saga City of Bane, infatti, avevamo assistito all’assassinio del fidato maggiordomo Alfred Pennyworth da parte dell’implacabile villain. Ma il successore di King su Batman, James Tynion IV, avrebbe osato ancora di più. Nella saga Joker War del 2020 il Principe Pagliaccio del Crimine decide di chiudere i conti con Batman. I duelli infiniti contro il suo eterno rivale non lo divertono più e, dimostrando di conoscere da sempre l’identità segreta del Cavaliere Oscuro, Joker sferra un attacco decisivo tanto contro Batman quanto contro Bruce Wayne, riuscendo a sottrargli una consistente parte del suo ingente patrimonio.

Dovendo rinunciare anche a Villa Wayne e alla Bat-Caverna, il finale della saga ha quindi fornito a Batman e a Bruce Wayne un nuovo starting point. Una situazione narrativa fresca, anche se non del tutto inedita, di cui hanno beneficiato i team creativi che nel 2021, nell’ambito dell’iniziativa Infinite Frontier, hanno preso le redini di Batman e Detective Comics. Se la prima ha visto ancora all’opera James Tynion IV, coadiuvato ai disegni dalla giovane stella Jorge Jimenez, Detective Comics è passata nelle mani di un nuovo team creativo formato da Mariko Tamaki (testi) e Dan Mora (disegni). La Tamaki ha un interessante background di autrice indie, con al suo attivo opere intimiste moto acclamate dalla critica come E la chiamano estate, arrivata anche da noi qualche anno fa grazie a Bao Publishing. Mora, invece, è semplicemente la rising star del momento, la giovane stella del tavolo da disegno su cui la DC sta puntando maggiormente e questo volume rappresenta il suo primo incarico di prestigio per l’editore.

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La saga di debutto del nuovo team di autori si chiama Il Quartiere e il titolo non è messo lì a caso, ma suggerisce già il nuovo setting in cui si troverà ad operare il Cavaliere Oscuro. Anche il clima a Gotham è diverso dal solito ed è diventato ostile nei confronti dei suoi vigilanti mascherati: gli eventi di City of Bane e di Joker War hanno messo a ferro e fuoco la città e hanno esasperato i cittadini. Il clima avverso nei confronti di Batman e dei suoi alleati è stato funzionale all’ascesa a sindaco di David Nakano, un ex agente di polizia il cui compagno di pattuglia è stato ucciso a margine di uno scontro tra il Crociato Incappucciato e la sua nemesi. Il nuovo sindaco non fa quasi distinzione tra eroi e criminali, ritenuti due facce della stessa medaglia, e la sua politica è quella di osteggiare l’attività delle “maschere”. Batman si trova improvvisamente a dover fare a meno di due tradizionali assi nella manica a sua disposizione: la collaborazione con le forze dell’ordine, che a seguito del nuovo corso politico in città non può proseguire come prima, e la smisurata ricchezza di Bruce Wayne che, come dicevamo sopra, ha subito un pesante ridimensionamento e non può più finanziare in modo illimitato le attività del suo alter-ego. Ma intendiamoci, anche se il suo patrimonio ha subito un duro colpo, Bruce Wayne non è di certo diventato povero. È ancora in grado, infatti di potersi permettere un appartamento a Fort Graye, un quartiere residenziale di Gotham dove vive l’alta borghesia un po’ snob della città.

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Le pagine che la Tamaki dedica all’inserimento di Bruce in un nuovo e inedito contesto sociale sono senza dubbio le più interessanti del volume. In 84 anni di avventure a fumetti avevamo visto il Cavaliere Oscuro alle prese con qualsivoglia minaccia, ma mai una così apparentemente ordinaria e subdola: il vicinato. L’élite di Gotham, ricchi e rampanti imprenditori di start-up le cui vite non sono mai state toccate dalle difficoltà che vivono i cittadini dei bassifondi di Gotham. Si tratta di un setting del tutto originale, una novità assoluta nella storia di Batman, che tocca anche la geografia urbana delle sue avventure. La Gotham “dark déco” della tradizione lascia il passo ad un quartiere moderno ed elegante, ben visualizzato dalle linee dettagliate di Dan Mora. Bruce non avrà molto tempo per adattarsi alla nuova situazione, perché l’omicidio di una sua vicina costringerà Batman a entrare in azione. Teniamo presente che il nome della collana è pur sempre Detective Comics, e quindi ci ritroviamo ben presto proiettati in una storia in cui l'eroe potrà mettere a frutto le sue ben note qualità di investigatore, supportato dal ritorno di una classica eroina “urban” della DC, Huntress. In un crescendo di tensione e di ulteriori omicidi, il Cavaliere Oscuro farà la conoscenza di un nuovo e minaccioso villain che porterà la vicenda verso atmosfere horror che non sono, queste no, una novità assoluta per le collane di Batman. Seppur avvincente, lo sviluppo della vicenda mette del tutto da parte l’interessante premessa iniziale de "Il Quartiere", che dà il titolo al volume, ed è un vero peccato.

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Valore aggiunto del volume è il comparto grafico assolutamente esplosivo firmato da Dan Mora e Viktor Bogdanovic. Mora, come dicevamo in apertura, è l’artista del momento, capace di fornire una sintesi moderna tra la muscolarità classica del fumetto americano, di cui Jim Lee è il punto di riferimento massimo, e l’energia e la vivacità dei manga. L’artista costaricano ha tutte le carte in regola per diventare un nuovo punto di riferimento grafico per il settore, grazie alle sue tavole dinamiche e deflagranti di azione che, però, non rinunciano mai alla cura di sfondi e dettagli. Si vedano, a tal proposito, le pagine in cui Mora visualizza con dovizia di particolari il quartiere che dà il titolo al volume. Bogdanovic, invece, è un disegnatore meno raffinato di Mora, che si rifà chiaramente allo stile di Greg Capullo ma senza mutuarne lo stesso livello di precisione nei dettagli. L’artista svizzero riempe le sue tavole di corpi dotati di una muscolarità steroidata, esagerata, che che ci riporta quasi ai tempi dello stile Image dei primi anni. Una scelta stilistica che ben si sposa con la svolta action/orrorifica della trama e che può anche compiacere il lettore, ma che perde nettamente il confronto con il tratto moderno ed elegante di Mora.

Batman: Detective Comics – Il Quartiere, presentato da Panini Comics in un solido cartonato soft-touch, è uno dei capitoli più interessanti della produzione seriale recente dedicata al Cavaliere Oscuro, e nonostante perda presto lo spunto originale che ne aveva caratterizzato la partenza, merita sicuramente la lettura.

King Thor, recensione: l'ultimo canto di Jason Aaron

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Nell’autunno del 2012 l’intero parco testate Marvel viene interessato da un rilancio denominato Marvel NOW!. Come conseguenza diretta dell’evento Avengers VS X-Men, che ha impazzato negli albi della Casa delle Idee durante l’estate precedente, tutti i principali personaggi subiscono un restyling e un cambio di team creativo. In quel momento, chi segue abitualmente le testate Marvel non ha ancora la percezione che, in quella sarabanda di cambiamenti da cui sono interessate, stanno nascendo almeno due grandi classici moderni: se gli Avengers di Jonathan Hickman sono già attesi da notevoli aspettative, la vera sorpresa è costituita dal Thor di Jason Aaron. Perché se è vero che nel 2012 Aaron è uno dei giovani sceneggiatori più interessanti su piazza, che ha all’attivo l’ultima serie cult della storia della Vertigo, Scalped, e ha già lavorato per la Marvel realizzando ottimi cicli di Ghost Rider e Wolverine, nessuno può comunque immaginare che sta per rilasciare un ciclo di Thor che segnerà la storia del personaggio. Una run che i lettori metteranno sul podio delle migliori di sempre a lui dedicate, dietro solo a quelle mitiche firmate Stan Lee/Jack Kirby e Walter Simonson.

Il Thor di Jason Aaron debutta quindi nell’ottobre 2012, con i disegni di un altro autore che da giovane promessa si è ormai trasformato in splendida certezza, Esad Ribic. Aaron introduce subito un villain che diventerà uno dei più temibili mai affrontati dal Tonante, Gorr l’uccisore di Dei, un personaggio segnato dal dolore e dal lutto, condizione che lo porta a rifiutare il concetto stesso della possibile esistenza di un Dio. L’arrivo di Gorr coinciderà per Thor con l’inizio di un percorso personale che lo porterà per la prima volta ad esplorare il proprio senso di inadeguatezza mettendo persino in discussione il suo ruolo di divinità.

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Il ciclo di Aaron è una lunga epopea in tre capitoli, che raccontano la crisi e la caduta di Thor, l’ascesa di Jane Foster nel ruolo di Dea del Tuono e la lotta contro la malattia che l’ha colpita, la Guerra dei Reami e il ritorno di Thor Odinson al ruolo che gli spetta. Nel 2019, per concludere una lunga saga che gronda epica da ogni pagina, Jason Aaron e Esad Ribic sono tornati a collaborare per King Thor, miniserie di 4 numeri che chiude tutte le trame lanciate dallo scrittore nel corso del suo ciclo.

King Thor riprende una delle idee più interessanti proposte dallo sceneggiatore dell’Alabama durante la sua run settennale, quella di un Thor anziano che, millenni nel futuro, ha ereditato dal defunto Odino il ruolo di Re di Asgard e di Padre di Tutti. Peccato che la cittadella degli Dei sia ormai in rovina come la Terra, ricreata con un atto d’amore dallo stesso Thor. E l’universo stesso, sull’orlo della distruzione, non se la passa affatto bene. In questo scenario apocalittico alla fine dei tempi si svolge lo scontro finale tra Thor e il fratellastro Loki, ora detentore della All-Black, la Necrospada un tempo impugnata da Gorr. Che potrebbe tornare per un’ultima sfida…

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Jason Aaron chiude il cerchio del suo epico ciclo di Thor tornando dove aveva iniziato 7 anni prima. Una chiusura perfetta per un ciclo di 100 storie per il quale lo scrittore si riunisce al disegnatore col quale aveva debuttato sulla serie del Tonante, Esad Ribic, e col quale aveva ideato Gorr, il Macellatore di Dei, nonché la versione futura di Thor protagonista di questa miniserie che rappresenta davvero la summa del lavoro svolto dallo sceneggiatore sul personaggio. In queste pagine ci sono tutti le tematiche importanti che Aaron ha saputo infondere nel suo ciclo, elevandolo sopra la media del fumetto mainstream: la conoscenza di se stessi e la consapevolezza del proprio ruolo nell’ordine delle cose, i dubbi sulle proprie reali capacità, il timore della propria inadeguatezza (che in queste pagine si traduce nei dubbi che lo stesso Thor ha nei confronti del suo ruolo di dio e sugli dei in generale, posizione che tradisce l’ateismo di Aaron di cui lo stesso autore non ha mai fatto mistero), i difficili rapporti con la propria famiglia (il fratello Loki), con le proprie origini di cui si cerca di essere degni (il padre Odino) e l’eredità che ci lasciamo alle spalle, che nel caso di Thor è rappresentato dalle nipoti guerriere Atli, Ellisiv e Frigg. Ma non solo: in un afflato meta narrativo che ha contraddistinto tutta la sua gestione, Aaron ci parla del valore salvifico del racconto, della funzione delle storie che ci eternano nella leggenda. Ci saranno sempre storie di Thor, anche dopo l’addio dello sceneggiatore, che nella commovente postfazione saluta i lettori dopo sette anni di perfetta gestione di un personaggio che, ci racconta, non avrebbe mai pensato di scrivere e che ora gli mancherà terribilmente.

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Il commiato di Aaron è splendidamente illustrato dalle matite di Esad Ribic e dai colori di Ive Svorcina, da qualche anno collaboratore prediletto dell'artista croato. La palette di colori digitali di Svorcina conferisce profondità ed epica alle matite di Ribic, dando vita a tavole mozzafiato il cui valore travalica i confini di un comic book echeggiando i grandi pittori del passato. Affreschi che trasudano epos, di grande impatto evocativo, che conferiscono grandezza e possanza all’ultimo canto (per ora) di un ciclo che è già entrato nella leggenda. E per celebrare la fine di questa indimenticabile run ecco sfilare, nell'ultimo capitolo, gli altri artisti che hanno accompagnato Aaron in questi sette anni, Russell Dauterman, Mike del Mundo e Das Pastoras, ospiti come Chris Burnham, Andrea Sorrentino e Oliver Coipel, che ha legato il proprio nome al ciclo di Thor scritto da J.M. Straczynski.
Un vero e proprio "parterre des rois" per chiudere quello che sarà ricordata come una delle gestioni chiave della storia fumettistica del Dio del Tuono.

I Fantastici Quattro di Walter Simonson, recensione: quando FF tornò ad essere "The World's Greatest Comics Magazine"

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Fantastic Four è stata la prima collana del neonato Universo Marvel a vedere la luce nel novembre 1961, la testata dove hanno debuttato personaggi iconici che avrebbero costituito l’architrave di questo meraviglioso regno dell’immaginario come il Dottor Destino, Galactus, Silver Surfer, gli Inumani, Pantera Nera e tanti altri. Un tale carosello di meraviglie, nei primi 102 numeri firmati dalla magica coppia Stan Lee/Jack Kirby, da far meritare alla serie il titolo di The World’s Greatest Comics Magazine, orgogliosamente sfoggiato in copertina. Un titolo che la testata ha continuato a meritare per larga parte della sua vita, attraversando però anche dei periodo bui. Nel 1981 lo scrittore/disegnatore John Byrne, supestar dell’epoca, assunse le redini della testata col numero 232 al motto di “back to the basics”, il ritorno alle atmosfere che avevano reso grande la collana durante gli anni di Lee e Kirby aggiornandole ai tempi moderni e riportandola alla grandezza che le competeva. Il ciclo di Byrne durò cinque anni, fino al numero 294 del 1986, anno in cui l’artista lascia la Marvel per andare a curare il rilancio di Superman in casa DC Comics.

Fantastic Four non regge l’urto dell’abbandono di Byrne e, pur contando inizialmente sull’apporto di una serie di validi sostituti come Roger Stern ai testi e Jerry Ordway e John Buscema ai disegni, la serie scivola di nuovo in un baratro creativo sancito dallo sciagurato ciclo di Steve Englehart. Englehart è un nume tutelare del fumetto americano che ha contribuito a rinnovare negli anni ’70 con celebrati cicli di Batman e Avengers, ma purtroppo è evidente fin dai suoi primi numeri di Fantastic Four che ha perso l’antico tocco. Il suo contributo alla serie termina in modo inglorioso, con le sue ultime storie firmate con uno pseudonimo. Nella vignetta finale del suo ciclo, lo stesso Englehart si commiata dai lettori dicendo che ci vorrà qualcuno migliore di lui per risollevare le sorti della testata. E quel qualcuno arrivò nella figura di Walter Simonson.

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Simonson è una figura chiave del fumetto statunitense degli anni ’80, grazie soprattutto ad un lungo ciclo di The Mighy Thor che è probabilmente il migliore mai apparso sulla collana del Tonante. L’aurea mitica delle sue saghe, abbinate a un tratto potente amplificato dall’uso originale di splash page e onomatopee, vero e proprio marchio di fabbrica dell’artista che le rende un elemento fondamentale della composizione della tavola, sono gli ingredienti di una gestione della testata del Dio del Tuono che resta scolpita nella storia della Marvel come uno dei suoi più grandi cicli.

Il gusto per l’avventura epica rendeva Simonson la scelta ideale per la testata dei Fab Four, che aveva ormai perso la grandezza delle origini. L’artista arriva sulla collana col numero 334, ma decide di presentarsi con una storia in tre parti che costituisce una sorta di “antipasto” al suo ciclo. C’è infatti da pagare dazio ad Atti di Vendetta, il crossover Marvel dell’estate del 1989, di cui questo trittico costituisce un classico tie-in. La cosa più interessante di questo mini-ciclo di partenza è il fatto che giri interamente intorno all’idea di un Atto di Registrazione dei Super-Eroi, quasi vent’anni prima di quella Civil War che sarà uno dei più grandi successi della storia Marvel. Ma al contrario dell’opera di Mark Millar e Steven McNiven, caratterizzata da un oppressivo senso di “gravitas”, il tono scelto da Simonson è leggero e scanzonato, e il concetto stesso di una schedatura dei super-umani viene bollata come una immane stupidaggine, buona solo per una parodia. Ci troviamo in tempi ancora spensierati, lontani anni luce dall’atmosfera plumbea post 11 settembre che caratterizzerà Civil War. Simonson si concede quindi un divertissment in tre atti, in attesa della partenza vera e propria del suo ciclo, scrivendone i testi e lasciando le matite ad un veterano come Rich Buckler e a un ottimo artigiano come Ron Lim, che segnerà gli anni ’90 Marvel con le saghe cosmiche realizzate insieme a Jim Starlin. Niente a vedere comunque con la potenza del tratto di Simonson, che deflagrerà con tutta la sua forza a partire dal numero 337. Un numero non casuale, quello scelto per il reale debutto dell’artista sulla testata del Quartetto. Un richiamo al suo celebre ciclo di Thor, il suo più grande successo, iniziato proprio col numero 337 del novembre 1983.

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Durante questo acclamata run del Dio del Tuono, Simonson aveva introdotto nuovi elementi e personaggi destinati ad avere un forte impatto nell’economia dell’Universo Marvel, come Beta Ray Bill e la TVA, la Time Variance Authority, un’organizzazione che si prefigge di monitorare le diverse linee temporali del multiverso non esitando a cancellare quelle ritenute ridondanti o pericolose. Alla fine degli anni ’80, durante il suo breve ciclo di Avengers, Simonson aveva imbastito una saga temporale con protagonisti Nebula e il consiglio dei Kang, costituito da una serie infinita di “varianti” del classico avversario dei Vendicatori.
Arrivato su Fantastic Four, Simonson decide di riprendere alcune trame lasciate in sospeso in altre collane e di gettare i Fantastici Quattro in una spericolata avventura attraverso il tempo e lo spazio. Il pretesto per dare via all’azione è quasi risibile: una “bolla temporale” proveniente dal futuro mette a rischio il flusso del tempo interrompendone il normale scorrimento. Senza perdere tempo, Reed Richards imbarca il resto del gruppo e due ospiti speciali di livello, Thor e Iron Man, sulla “tempo-slitta” Rosebud II, omaggio al Quarto Potere di Orson Welles. La comitiva si tuffa Nel flusso temporale, come recita il primo arco della gestione Simonson, per ritrovarsi in una sarabanda di azione e di guest-star di rilievo che qui è inutile elencare.

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Il titolo di quest’arco narrativo dice già tutto: spetta al lettore abbandonarsi a questo flusso di azione spettacolare, colmo di grandeur cosmica come nella migliore tradizione della collana, gustandosi alcune delle tavole migliori mai prodotte per Fantastic Four, cariche di invenzioni sbalorditive. Se l’uso delle splash page e delle onomatopee erano già marchio di fabbrico caratteristico dell’autore già all’epoca, nella sua gestione dei Fab Four Simonson si superò, con soluzioni grafiche di altissimo profilo. Forse nessuno come questo artista, nel fumetto americano, ha reso tanto bene su tavola l’idea del movimento e le tavole del viaggio del Quartetto e dei loro alleati nel flusso spazio-temporale ne è uno splendido esempio. Uno stilema grafico-narrativo che si ripete più volte durante la run, con una spettacolare ripetizione di vignette compresse a bordo pagine, che poi si decomprimono fino ad esplodere al centro della tavola. Lo stesso Simonson ha dichiarato una volta che i fumetti sono “illustrazione con l’aggiunta del tempo”, e queste pagine ne sono la dimostrazione.

Spettacolare la sfida tra Richards e il Dottor Destino nel numero 352, dove i due avversari abbandonano la narrazione centrale dell’albo per duellare nel tempo a bordo pagina. Qui Simonson utilizza il duo-shade, una tecnica pioneristica di epoca pre-digitale per disegnare in tonalità di grigio, molto in voga all’epoca (John Byrne ne fece ampio uso nelle sue opere coeve). Ma le invenzioni grafiche studiate dall’artista in questo ciclo troppo breve si sprecano e potrebbero essere oggetto di un saggio, si veda il grande utilizzo di linee cinetiche a suggerire il movimento o il taglio diagonale delle tavole doppie, entrambi mutuati da Katsuhiro Ōtomo, autore che all’epoca esercitava una forte influenza su molti artisti occidentali.

Con Walter Simonson Fantastic Four tornò ad essere veramente The World’s Greatest Comics Magazine, e lo spirito di Jack Kirby rivive nelle spettacolari tavole della sua run. Una sequenza passata alla storia anche per una saga di culto, quella dei Nuovi Fantastici Quattro, un trittico scritto da Simonson ma disegnato dalla superstar Arthur Adams. Successe che, per dedicarsi anima e corpo alla realizzazione del celebrativo numero 350, il buon Walt pensò di affidare le matite dei numeri 347-349 ad un’artista eccelso come Adams, congegnando una trama adatta alle sue corde. La coppia di autori prese i personaggi singoli più venduti dalla Marvel dell’epoca, Spider-Man, Wolverine, Hulk e Ghost Rider e li riunì in un gruppo, costituitosi per andare alla ricerca dei Fantastici Quattro, misteriosamente scomparsi. Grazie alle tavole energiche ma raffinate di un Adams in forma strepitosa, il trittico dedicato ai Nuovi Fantastici Quattro - che era nato solo come un riempitivo - ebbe un successo strepitoso e il gruppo si riunì più volte nel corso degli anni.
Panini Comics raccoglie l’intero ciclo dei Fantastic Four di Walter Simonson in due volumi cartonati, a loro volta inseriti in un prestigioso cofanetto, che non può mancare nella libreria degli appassionati del grande fumetto americano.

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