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Livio Fiorani

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Doomsday Clock 1, recensione: arriva in Italia la serie evento di Geoff Johns e Gary Frank

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Nell'era della connessione globale, in cui tutti siamo in grado di conoscere istantaneamente ciò che accade dall'altra parte del mondo, risulta difficile dire qualcosa di nuovo, se non che di interessante, su un evento deflagrato oramai quasi un anno e mezzo fa.
Tanto è trascorso dall'uscita negli U.S.A. del primo numero della miniserie Doomsday Clock che, complice anche una rimodulazione dell'originale programmazione (la serie è presto divenuta bimestrale, da poco è stato dato alle stampe il nono episodio), solo in questi giorni approda nel Bel Paese.

È ben probabile che la variazione della periodicità sia ascrivibile al tempo necessario all'artista incaricato, l'oramai italiano d'adozione Gary Frank, di completare le tavole di quella che fin d'ora può tranquillamente affermarsi sarà un'opera di altissimo livello, sia narrativo che grafico. Seppure uno iato di 60 (e talvolta oltre) giorni tra un'uscita e l'altra possa andare a discapito della leggibilità nell'immediato, la scelta della DC Comics appare pienamente condivisibile: è evidente come la serie sia stata concepita per rappresentare un punto fermo nell'universo narrativo della casa editrice e non come uno dei tanti, periodici "eventi"; l'obiettivo, palese anche se non dichiarato, è quello di creare un long-seller, in grado di rivaleggiare con altri fumetti iconici (lo stesso Watchmen, Il Ritorno del Cavaliere Oscuro, La Nuova Frontiera). Per realizzare tutto ciò la DC ha ben compreso come un'elevata ed uniforme qualità grafica costituisca un requisito fondamentale. La qualità, del resto, paga sempre: in tal senso la scelta dello sceneggiatore è una ulteriore dichiarazione di intenti. Geoff Johns è stato ed è senz'altro ancora il principale "architetto" di cui la casa di Burbank disponga e, soprattutto, è un profondissimo conoscitore di tutte le pieghe narrative del multiverso DC, oltre che un vero amante dei personaggi.

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La scelta del team creativo, quindi, appare di alto livello e, per quanto ci riguarda, è stata fin dall'origine adeguatamente rassicurante sulla bontà del progetto. Al di là delle presunte (e, probabilmente, reali) contrarietà di Alan Moore al nuovo sfruttamento dell'universo narrativo dallo stesso creato (già espresse, del resto, rispetto alle serie del progetto Before Watchmen, alcune delle quali, nondimeno, sono risultate assolutamente godibili e adeguatamente in linea con lo spirito dei personaggi e dell'opera principale) l'apparente idea di fondo è semplice, eppure geniale: come è possibile correggere un evidente errore di programmazione - i Nuovi 52, originati dall'evento Flashpoint e pensati come un ennesimo reboot dell'universo narrativo, hanno mostrato evidenti limiti, non aggiungendo molto alle serie già in sofferenza ed, anzi, scontentando per numerosi aspetti i fan di lunga data - ed, insieme, generare hype nella comunità fumettistica, sempre più scettica circa la reale incidenza degli (spesso promessi e quasi mai mantenuti) sconvolgenti novità?

Confessiamo che diversi anni addietro Johns ci ha conquistati "a vita" con la Rinascita di Lanterna Verde: riportare in auge Hal Jordan dopo gli sconquassi a cui lo stesso era stato sottoposto e le azioni commesse come Parallax era quasi impossibile. Eppure l'autore statunitense ha trovato il grimaldello giusto, sotto forma di "impurità"… Allo stesso modo alla base di tutta l'architettura della articolata storyline di cui Doomsday Clock costituirà il culmine - non per caso introdotta da un numero speciale intitolato "Rinascita" - si pone un "piccolo" dettaglio seminato da Moore: il Dr. Manhattan, raggiunta alla fine di Watchmen una chiara dimensione divina, aveva affermato la sua intenzione di creare vita nell'universo…
La serie dovrebbe, quindi, valere a fugare i (pochi) dubbi circa l'identificazione dell'anomalia che ha sottratto un quid all'universo DC (eliminando dalla continuity la Justice Society e la Legione dei Super Eroi, facendo dimenticare l'esistenza di Wally West e modificando il passato di alcuni eroi,  tra cui Superman) e portare allo scontro (auspichiamo non fisico o, comunque, non solo) tra Superman ed il presunto deus ex machina: il Dr. Manhattan.

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Venendo al numero introduttivo bastano poche pagine per comprendere come gli autori abbiano fatto centro: siamo nel 1992, sono passati alcuni anni dal dirompente finale di Watchmen e la situazione, se possibile, è ancora peggiore di quanto non fosse stata in precedenza. Chiunque legga questo articolo dovrebbe già sapere che le macchinazioni di Veidt sono state svelate grazie al diario di Rorschach; Ozymandias è quindi in fuga, ricercato per l'omicidio di oltre tre milioni di persone e il mondo è al collasso: i sovietici accusano il governo americano di collusioni con Veidt e si preparano ad invadere la Polonia, il presidente Redford (!) ha adottato provvedimenti di aspra repressione della libertà di stampa, i coreani hanno testato missili in grado di raggiungere gli USA. In questo apocalittico scenario Rorschach (o, almeno, un Rorschach) è alla ricerca dell'unica soluzione per evitare il collasso: trovare il Dr. Manhattan. Per fare ciò, però, deve ricorrere all'aiuto di due criminali, Mimo e Marionette (già molto ben delineati, rielaborazioni di due vecchi personaggi dell'universo Charlton, da cui Moore aveva come è noto attinto per il cast originale) e del buon, vecchio Ozymandias...

Johns adotta uno stile di scrittura che non si limita a riecheggiare gli stilemi di Moore (per i fan è però evidente come l'intero numero sia infarcito di richiami, rimandi, ammiccamenti sia alla serie originale che alle serie "Before") ed immerge immediatamente nella "bolla" dell'universo Wathmen: leggendo è come se non fossimo mai andati via, si avverte un senso di oppressione, di minaccia incombente ed inevitabile nel quale l'autore riesce ad inserire chiari richiami e critiche all'attualità che contribuiscono a rendere tutto più reale.

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Gary Frank, oltre a volti ed anatomie perfette e sfondi ben dettagliati, riutilizza la classica gabbia a nove vignette, prendendosi, tuttavia, più di una licenza per modificare dove necessario il ritmo narrativo. Anche la colorazione dell'albo ad opera di Brad Anderson è di alto livello: dai toni caldi, con una predominanza dell'arancio della dimensione Watchmen (che contribuiscono ottimamente a creare il senso di minaccia ed isteria diffusa) passiamo ai toni più freddi, con preponderanza dell'azzurro della Terra - 0 (l'espediente ci ha riportato alla memoria alcune delle sigle della serie tv Fringe, connotate dall'alternanza tra rosso e blu, indicative dell'universo in cui si sarebbe svolta l'azione).

In definitiva un ottimo debutto, dal quale traspare una accurata preparazione e l'evidente intenzione di rendere la serie un capitolo fondamentale della storia dell'universo DC; non vediamo l'ora di raccontarvi gli ulteriori capitoli...

Fantastici Quattro 1-2, recensione: il ritorno della prima famiglia Marvel

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E dopo un’attesa durata poco più di due anni, in cui i rumor si sono rincorsi, giunge anche in Italia il nuovo mensile dei Fantastici Quattro.
Dobbiamo confessare di essere stati fra quelli che si sono ansiosamente abbeverati a ogni tipo di notizia sulla nuova serie in cantiere, ciò seppure nessuno potesse realmente credere che la Marvel, presto o tardi, non avrebbe rimesso mano ai propri personaggi più iconici (dopo l’amichevole Tessiragnatele) e una cesura nella pubblicazione del “migliore fumetto del mondo” non sarebbe durata a lungo.

Il fatto è che i Fantastici Quattro sono probabilmente uno dei fumetti supereroistici più difficili da scrivere, al pari di Superman: se per l’Azzurrone il problema principale è quello di portare il lettore ad empatizzare con un essere sostanzialmente onnipotente, per i FF è difficilissimo trovare l’equilibrio fra le quattro personalità dei protagonisti ed il giusto tono della serie. Come viene ben ricordato nel primo numero della nuova testata ciascuno ha una propria visione del quartetto (avventurieri, esploratori, immaginauti …) che resta, principalmente, una famiglia e come tale deve essere anzitutto considerata e trattata. E proprio su questo aspetto Dan Slott, fresco reduce da una delle più lunghe gestioni di Spider-Man, sembra volere puntare l’attenzione: abilmente sfruttando la scia della serie Marvel Two-in-One, la reunion dei Quattro (e non solo) non avviene nel primo numero, ma soltanto nell’ultima pagina del secondo. Il primo è invece incentrato sul coronamento di uno dei più lunghi fidanzamenti della storia dei comics, quello tra l’amabile Cosa dagli occhi blu e la bella scultrice cieca Alicia Masters: è nelle pagine finali dell’episodio che Slott dà il meglio, rendendo vivo e credibile il dolore di Johnny, giunto infine sul punto di accettare l’idea della morte dei propri congiunti che fino a quel momento aveva ostinatamente negato. Ed il suo sollievo e la sua gioia sono i nostri, nel vedere campeggiare in cielo quel 4 non è solo chiamata a raccolta di vecchi compagni di avventura, ma la promessa di un nuovo inizio. Ed è così che, nel secondo episodio, ritroviamo la First Family impegnata in quello che noi lettori già sapevamo dai tempi della fine dell’epica (e meravigliosa) saga di Secret Wars: la ricostruzione del multiverso.

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Al di là dell’impatto emotivo, direttamente proporzionale alla militanza tra i Marvel-geek, dobbiamo però dire che non tutto nel doppio albo è convincente: se ad esempio apprezzabilissima è la scelta di rendere adolescenti Franklin e Valeria (molto gustosa è la scena in cui Reed prende consapevolezza di come intorno alla figlia inizi a ronzare un alieno troppo simile per i suoi gusti di padre e marito ad un principe atlantideo dalle orecchie a punta…), nella speranza che non si giunga in seguito ad un nuovo depotenziamento/ringiovanimento, vi sono aspetti della storia trattati troppo velocemente: la sconosciuta antagonista ha un ruolo ed una potenza tali da non renderne plausibile il rango a dispetto della solo odierna comparsa; allo stesso modo viene eliminato troppo rapidamente l’Uomo Molecola, così potente da ricreare mondi in tandem con Franklin e già di tenere insieme i resti del multiverso per essere spazzato via nell’arco di una sola vignetta. Per non parlare dell’elefante in cristalleria di cui Slott non si libererà neppure nei numeri a venire (e che verrà affrontato, anche lì in modo non del tutto soddisfacente, nella serie parallela): come può Reed  avere consentito che suo cognato ed il suo migliore amico li abbiano creduti morti senza aver mai provato a raggiungerli?

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La storia troverà la sua logica conclusione nei numeri successivi, preparativi dei festeggiamenti per il 650° numero della serie originale; a questi, tuttavia, non parteciperà Sara Pichelli, il cui apporto alla serie, al momento, sembra essersi esaurito con i primi due episodi. Non conoscendo le cause alla base di tale stato delle cose non possiamo che rimpiangere la inadeguata programmazione da parte della Marvel, che ha dato alle stampe una serie tanto attesa senza avere prima incamerato almeno il primo ciclo da parte della penciler titolare. Un vero peccato, perché  l'artista, come sempre abilissima nel disegno delle espressioni dei personaggi, sembrava essere la scelta più azzeccata per la serie, anche per la ben riuscita scansione del ritmo narrativo e la struttura delle tavole, con alcune soluzioni di grande impatto (anche se non abbiamo apprezzato particolarmente la scelta grafica nella raffigurazione della Torcia, né l’aspetto del Reed barbuto).

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Da ultimo va segnalata la storia di appendice del primo numero, disegnata da un Simone Bianchi in buon spolvero ed incentrata sul nuovo/vecchio ruolo di Destino nella natia Latveria; il discorso sulla opportunità e sulla riuscita dell’operazione sviluppata da Brian M. Bendis nella serie de Il Famigerato Iron Man sarebbe lungo da sviluppare in questa sede. Nondimeno si spera che Slott, seppur apparentemente orientato a far ritornare le vecchie abitudini del buon Victor, non rinneghi del tutto un percorso evolutivo che era apparso sofferto e adeguatamente motivato (e, nel caso, riesca a sviluppare con coerenza le nuove scelte di vita dell’antagonista per antonomasia dei F4).

Il rilancio dei Fantastici Quattro è una lettura certamente consigliata per tutti gli appassionati dei comics, i quali non potranno rinunziare ad essere testimoni di questo nuovo e, si spera, glorioso capitolo di quello che è stata e resta angolare dell’Universo Marvel.

Dylan Dog 387: Che regni il caos!, recensione: al via il Ciclo della Meteora

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Per non peccare di ingenerosità e non rischiare di essere tacciati di poca lungimiranza non diremo che la cosa migliore dell’ultimo numero di Dylan Dog è la copertina lenticolare dell’edizione in tiratura limitata - ed esauritissima a Lucca - disegnata da Giuseppe Camuncoli; né che, immediatamente dopo, si collocano gli splendidi Tarocchi dell’Incubo di Angelo Stano (segnaliamo che il mazzo è stato ripartito in quattro uscite da 20, che accompagneranno l’inedito mensile fino al 390, mentre la custodia ed un libretto saranno allegati al Dylan Dog Color di inizio 2019). Non lo diremo perché, seppure le nostre attese siano state parzialmente deluse e la lettura dell’albo abbia portato più dubbi che euforia, non è possibile dimenticare che si tratta soltanto della prima parte di una serie di tredici albi che, strettamente interconnessi fra loro, porteranno la serie al traguardo del quattrocentesimo numero (dopo il quale nulla sarà più come prima: RRobe dixit...). Certo, dall’inizio della storia che dovrebbe portare alla piena realizzazione della visione del personaggio da parte di Roberto Recchioni - ormai da quasi un lustro al timone di un fumetto il cui rinnovamento finora è stato più promesso che mantenuto - personalmente ci aspettavamo qualcosa di più e di diverso.

Dalla fase uno (in cui, per evidenti ragioni di tempi di lavorazione delle storie, si è proceduto solo a degli adattamenti esteriori) ai progressivi cambiamenti nello scenario della serie (con un occhio alla diversificazione e sperimentazione di tematiche e autori) fino ad oggi l’impressione è però pur sempre quella di un percorso non ancora compiuto, di un personaggio rimasto a metà del guado, “dylaniato” tra una tensione alla modernizzazione (qualunque cosa significhi) e la fedeltà alle proprie radici. Al termine di un percorso misto, in cui le ombre si sono mescolate alle luci più di quanto ritenuto/voluto dallo stesso curatore, giunge questa storyline, che riassume le contraddizioni della produzione dell’ultimo quadriennio: buoni spunti e cadute di tono si alternano, lasciando nel lettore un certo disorientamento. Si tratta di un effetto voluto? Solo il tempo potrà dirlo.

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Per chi non avesse ancora letto l'albo possiamo dire come la storia sia per l'appunto incentrata sull'imminente arrivo di una meteora, vero e proprio agente del Caos, forza primordiale per dominare la quale un enigmatico avversario di "bianco vestito" imprime un'accelerazione decisa alle già intraviste manipolazioni dell'Old Boy, il quale viene ad assumere un riluttante ruolo di simbolo positivo.

Per quanto consapevoli del ruolo che le citazioni hanno sempre avuto nella serie, taluni ammiccamenti non ci sono parsi particolarmente riusciti: vedere Dylan andare al salvataggio di Ranya declamando le parole di George Mcfly produce un effetto straniante solo in parte mitigato dalla presenza di un Groucho che, un po’ sotto tono, assolve un ruolo di contralto quasi metafumettistico. Un po' forzati appaiono anche i richiami alla mitologia del Watchmen di Alan Moore o la raffigurazione della cometa portatrice del caos come un simil- Ego, il Pianeta Vivente: troppi rimandi ad altre opere della cultura popolare non esaltano, ma appesantiscono la lettura, distraggono e non esaltano l’intreccio. Del resto non esaltante neppure la parte dell’albo dedicata alla furia omicida di Axeil Neil: l’orrore della morte casuale non viene reso tanto più efficacemente quante numerose siano le teste o gli arti mozzati (peraltro nel variegare gli omicidi si arriva a vignette che richiamano - anche qui troppo chiaramente - scene alla Ken il guerriero, in uno sforzo sincretistico che non abbiamo trovato adeguato).

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Quanto ai comprimari/antagonisti si alternano momenti gustosi (come quello della riunione a casa Bloch con l’avvocato Jenkins) a perduranti sotto-utilizzi:  la funzione antagonista di Carpenter non si è mai trasformata in una reale alternativa al pur trito ricorso all’amico Bloch; quanto a Ranya il suo ruolo nell’episodio è nulla di più di quello della donzella in pericolo.

Alla fine dei conti tutto ciò potrebbe essere solo un modo per focalizzare l’attenzione su John Ghost: la ormai non più nuova nemesi “obbligata” di Dylan mantiene un certo fascino e - seppure la posizione di pressoché onnipotenza economica tenda oltre il limite la sospensione dell’incredulità e lo spiegone ad Axel Neil sia appesantito dall’imperante citazionismo - nel complesso assolve alla propria funzione di motore della storia; in particolare è raggiunto l’obiettivo di portare Dylan da ciarlatano ad icona, per quanto attraverso delle scorciatoie di perplimente rapidità ed in cui il mantra dei “veri mostri” viene declinato in tutte le possibili combinazioni.

Sull’aspetto visivo, trascendendo dalle personali predilezioni per uno stile meno caricato, l’apporto di Leomacs appare coerente con la trama sviluppata; allo stesso modo il tratto di Marco Nizzoli rende bene soprattutto le atmosfere algide delle scene con John Ghost.
Un albo, dunque, introduttivo, che lascia nel lettore la speranza che il Recchioni autore di Mater Morbi abbia ben chiaro l’obiettivo e riesca infine a portare a termine il progetto di un Dylan per il terzo millennio.

Tex Willer 1, recensione: alla scoperta della giovinezza di Tex

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Non proprio come un fulmine a ciel sereno, essendo stata in qualche modo anticipata da alcuni - peraltro ottimi  - “cartonati alla francese” e dall’instant classic Nueces Valley, arriva in edicola la nuova serie della Sergio Bonelli Editore dedicata al proprio personaggio di bandiera, Tex Willer.
È la prima volta che la casa editrice meneghina decide di dedicare un secondo  mensile inedito ad uno dei propri eroi; i tempi, del resto, sembrano maturi.
Sotto il profilo editoriale si tratta di un’ulteriore fase nell’ampliamento del parco testate da parte della Bonelli che, dopo avere dovuto incassare, a dispetto delle migliori intenzioni (anche di diversificazione dei possibili fruitori), alcune battute d'arresto (le serie Young, la controversa vita editoriale di Morgan Lost), dimostra con questa nuova testata di volere tenacemente proseguire nel lungo percorso di trasformazione da “semplice” casa editrice di fumetti a vera e propria “media company”. Per fare ciò, nondimeno, bisogna consolidare le basi (“innovazione nella tradizione”) e cosa può esservi di meglio dell’immarcescibile ranger ?

Il formato
Prendendo in mano il nuovo albo, a parte l'indubbia soddisfazione nel lettore texiano, sia di lungo che di più breve corso, di stringere tra le mani un "numero 1" inedito dopo 70 anni, si percepiscono due cose: in controtendenza con alcune delle ultime nuove testate, volte ad esplorare formati a volte poco gratificanti - assenza di costine, copertine morbide, altezza “fuori squadra” rispetto agli albi tradizionali - , si nota subito che Tex Willer ha le stesse dimensioni della serie classica, seppur l’albo sia di spessore ben più ridotto. L’effetto, tuttavia, è piacevole e confortante, soprattutto stringendo in mano  la variant “Wanted”.

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Le copertine
Già, perché del nuovo albo la Bonelli ha prodotto quattro diverse versioni, alcune delle quali in vendita in anteprima a Lucca Comics - e, quindi, sul sito della casa editrice -, tutte racchiuse in una splendida scatola di metallo con dettagli in rilievo (contenente anche una ristampa anastatica della prima raccolta a striscia ed un manifestino dell’avviso di taglia).
Alla cover da edicola di Maurizio Dotti, - vittorioso dopo una serrata competizione interna in cui il disegnatore lombardo è stato preferito, su input di Claudio Villa, al pur bravissimo Massimo Carnevale -, si aggiunge una variant ad opera dello stesso Villa, una - quella con l’avviso di taglia e l’effetto zigrinato - di Alessandro Piccinelli (autore anche della copertina del numero 0) ed una “con effetto a sorpresa” (in pratica un’altra immagine di Villa, con il Tex quarantenne che indica un riquadro argentato, da scoprire tipo “gratta e vinci”; non saranno molti, però, a far emergere il riquadro per il timore di rovinare l’albo…).
Non vi è dubbio che la scelta del copertinista sia stata azzeccata: la cover di Dotti mostra Tex su Dinamite alle spalle di un albero recante affisso il famigerato avviso di taglia: ciò consente al disegnatore di non mostrare il personaggio principale, nascosto dietro ad un fazzoletto e però riconoscibile dalla casacca “con le frange”, pur sempre del classico giallo, che immediatamente richiamata le atmosfere del “Totem misterioso”.
La migliore, comunque, è la copertina del numero 0: sarà che, come molti, abbiamo un debole per il Carson giovane, ma Piccinelli, ponendo Kit tra il manifesto dello spettacolo di magia di Mefisto e l’avviso di taglia di Tex, è l’autore che meglio è riu-cito a suggerire le atmosfere della nuova serie.

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La genesi
Coffin… chi era costui ?
Se non vi viene nulla in mente non disperatevi, nel corso della sua settantennale carriera di castigamatti il nostro ranger preferito ha spedito a spalare carbone da messer Satanasso più furfanti di quanti possa tenersi conto (anche se qualcuno il conteggio lo ha fatto…). Coffin, però, è il primo avversario con cui Tex ha dovuto confrontarsi nel mitico “Il totem misterioso”; anche nella nuova serie troviamo il futuro ranger opposto a questo losco figuro e la scelta è, di per sé, un manifesto programmatico di quanto vedremo in seguito.
Tra quanti seguono, oltre a quello italiano, il panorama fumettistico statunitense alcuni ricorderanno una serie della prima metà degli anni novanta, scritta da Kurk Busiek e disegnata da Steve Oliffe con uno stile volutamente molto simile a quello di Steve Ditko: Untold Tales of Spider-Man. Non sappiamo se anche Boselli abbia letto quella serie e ne possa avere tratto spunto; c’è da scommettere, però, che la stessa sia stata ben presente a Simone Airoldi (già direttore generale di Panini Comics e da qualche anno in forza alla SBE), apparentemente primo promotore della nuovo mensile sul principale personaggio della casa editrice. La premessa delle due serie, seppure apparentemente appartenenti a universi fantastici lontanissimi (ma neppure tanto, visto il recente annuncio di prossimi crossover tra la SBE e la DC Comics…) è la stessa: nulla di quanto è già stato raccontato viene modificato, né si è ritenuta l’utilità di un remake (come, ad esempio, in un albo de Il Grande Diabolik). L’obiettivo è più ambizioso e, al contempo, stuzzicante: raccontare ciò che è successo "mentre", tra una storia e l'altra e, perché no, tra due vignette, valorizzando, magari, una frase buttata lì, in uno dei secchi dialoghi di Gian Luigi Bonelli.
Nei mesi a venire, quindi, avremo storie che, probabilmente senza seguire un ordine cronologico, si innesteranno nella pur sfilacciata continuity del Tex delle origini, stringendone le maglie, mostrando ciò che è stato solo accennato od intuito: naturalmente non sarà possibile che Tex incontri Carson o Mefisto prima di quanto stabilito nel canone della serie classica. Un abile sceneggiatore come Boselli, tuttavia, saprà ben sfruttare l’apparente limite in un punto di forza, mostrando Kit in azione o Dickart progredire nella sua conoscenza della magia oscura senza incrociare il protagonista, donando ulteriore spessore a personaggi già memorabili.

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La storia
Roberto De Angelis ai disegni, dopo il Texone di qualche anno fa, dimostra di mostrarsi a suo agio nel vecchio west come nel mondo futuribile di Nathan Never: è evidente, peraltro, la differenza del tratto usato dall’autore napoletano, che riesce sia a rendere un giovane Tex decisamente credibile (ad esempio a pagina 53 è facile immaginare l’evoluzione del ventenne nel roccioso quarantacinquenne che tutti conoscono) che a ritrarre meravigliosi paesaggi assolati, usando non più le classiche pennellate sgranate ma un tratteggio capace di rendere al meglio il netto contrasto tra luce ed ombre.
Non volendo svelare nulla della vicenda dipanata tra le pagine del primo numero, possiamo però dire che sia i vecchi che i nuovi lettori troveranno di che essere soddisfatti: in particolare l’appassionato storico scoprirà ammiccamenti al “Totem misterioso” (le cui vicende si svolgono successivamente e di cui scopriremo alcuni antefatti, oltre al background di alcuni personaggi “minori”, come Dente di Lupo ed una giovane indiana, la cui identità non è difficile indovinare, avendo anche l’onore di comparire nel frontespizio...) e un protagonista che ha già tutti i tratti distintivi dell’uomo maturo (anche se, si spera, con il proseguire della serie, pur senza demolirne i caratteri fondamentali, potremo vedere qualche “incidente di crescita”); i nuovi lettori apprezzeranno il ritmo della narrazione, ben bilanciato tra momenti dialogici, scene d’azione e serrati cambi di scena, favorito dal minor numero di pagine. Forse quest’ultimo - 62 tavole, quasi la metà della serie classica, a fronte di un prezzo quasi identico - è però l’unico, vero limite della storia e, in prospettiva, della serie, restando alla fine dell’albo l’impressione di una cesura imposta dal formato più che scelta (non a caso Boselli ha anticipato che alcune storie saranno poi riproposte in volume, veste che certamente valorizzerà al meglio trame pensate per svilupparsi su 250/300 tavole).
In definitiva un esordio ottimo sotto quasi tutti gli aspetti, che lascia nel lettore la voglia e la curiosità di leggere il prosieguo della storia.

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