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Angelo Ferrari

Angelo Ferrari

Highway to Hell

Esiste un filone di comics vecchio come quello dei supereroi ma non blasonato al suo pari, che si snoda nel tempo partendo quasi accennato dalle primissime storie dello Spirit di Will Esiner passando per l'iconico Sin City di Frank Miller e raccogliendo nella sua strada perle di rara bellezza come Torso (Bendis & Andreyko) o ancora la run di Sam e Twich sempre scritta da Brian M. Bendis e autori vari arrivando ad oggi, dove lavori come lo stupefacente Fatale (Brubaker & Phillips), Revival (Seeley & Norton) o il famosissimo The Strain (questo nato da un libro scritto a quattro mani tra il regista Gulliermo Del Toro e lo scrittore Chuck Hogan, poi comics edito nel 2012 da Dark Horse Comics con la sceneggiatura di Lapham e i disegni di Huddleston, ora trasposto in serie televisiva) hanno trovato ancora una folta schiera di fan che acclamano questi degni rappresentati del filone che mescola l'orrore con il noir, un miscuglio di horror/thriller che è, per il mercato americano, la storia di un imbastardimento vecchia tanto quanto le prime strip pubblicate.

Highway to Hell rientra a pieno in questo filone, un prodotto pensato da italiani per il mercato americano e che riesce ad accontentare tutti per la maggior parte del tempo, magari ogni tanto trasborda nel voler creare pantomime o stereotipi sui generis, ma in ogni caso riesce a divertire. Il lavoro dell'Italian Job Studio (Studio fondato nel 2010 da Riccardo Burchielli, Giuseppe Camuncoli, Stefano Caselli e Francesco Mattina) è quantomeno ambizioso: partendo da una storia scritta dal cofondatore dei Subsonica Davide Dileo (“il Tramontatore”) e con l'aiuto dello sceneggiatore Victor Gischler (tra i suoi romanzi “la gabbia delle scimmie”, ma ha lavorato anche su Punisher e Deadpool) creare una miniserie pubblicata in Italia da Panini Comics e, successivamente, in USA (Dark Horse Comics) di livello qualitativo elevato e che potesse soddisfare il pubblico sia da una parte che dall'altra dell'oceano. Evidentemente, almeno in parte, l'intento di questo “creative tank” è riuscito visto che il lavoro ha vinto nel 2015 il Ghastly Award nonostante non sia privo di difetti.

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La storia è un “classico” tributo all'orrore made in U.S.A. E Quando i ragazzi dell'Italian Job e i loro collaboratori puntano al classico... non scherzano, sono davvero a livello quasi didascalico: due bizzarri agenti dell'FBI (uno tosto ed uno riflessivo) che si occupano di casi borderline, un'ambientazione che può ricordare sia Twin Peaks di David Lynch sia una Castle Rock di Stephen King, l'eterna lotta di equilibri tra il bene e il male, sceriffi con aiutanti che oscillano dal white trash alle bombe sexy, altri sceriffi non collaborativi, i vampiri con le loro stratificazioni e regole, un cacciatore di Vampiri appartenente ad un ordine vecchio di secoli accompagnato dalla sua aiutante, body horror ad un passo da La Cosa di John Carpenter e scolopendre tentacolari ed irte di denti che ricordano “il Rosso” di Swap Thing. L'Italian Job pare intenzionata al 100% a cucinarci un'apple pie... anzi una Cherry Pie presa da Norma, e per nostra fortuna nonostante gli ingredienti siano sempre quelli loro sono dei cuochi eccellenti.

La storia inizia con i due sterotipatissimi agenti (il parodistico macho Brew ed il composto e pragmatico Mirchandani) che seguono le traccie di uno spietato serial killer fino alla città di Black Briar e qui scopriranno che niente è come sembra: il killer, infatti, è un personaggio molto più particolare di quel che credevano e delle forze occulte s'intrecciano con i suoi efferati delitti.
Da qui in poi, anche per la scelta di non rivelare subito il personaggio di Dusker,.

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Sembra infatti che il killer non è altri che un guerriero “della luce” che difende gli equilibri tra il bene ed il male, e le sue vittime non sono altro che mostri che una volta uccisi tornano nella loro forma umana.
Dusker (questo il suo nome) e la sua aiutante scopriranno nei due agenti dei preziosi alleati contro l'avanzare delle forze del Male, che rapidamente si avvicinano per lo “scontro finale”, un'orgia di violenza voluta dal vampiro Marion per piegare il combattente della luce.

La trama e la sceneggiatura sono purtroppo altalenanti e, anche se la banalità e la plausibilità possono essere messe da parte, ci sono alcuni punti in cui i personaggi non riescono ad interagire come dovrebbero.
Il personaggio di Brew, in particolare, subisce il suo fare da Milites Gloriosus ritrovandosi ad essere una macchietta comica quando dovrebbe (nelle intenzioni dello sceneggiatore) uscire con frasi ad effetto che in realtà fanno arrossire dal tanto che sono puerili, mentre è più funzionale negli sacchetti “comici” che però diventano presto vuoti e ridondanti, anche i rapporti interpersonali sono curati in maniera relativa: basti vedere le scene con l'agente Ramirez o il finale con i poliziotti locali.

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Come ci sono punti bassi, però, ci sono anche momenti alti: il personaggio di Dusker è oltremodo affascinante. Costruito su misura per diventare un “personaggio” (se uscisse il film di Highway to Hell non sfigurerebbe al fianco di Ash nel pantheon degli horror movie heroes), il nostro ante tempore “guerriero della strada” è uno scostante e silenzioso cavaliere con una sacra missione, ma alcune sfumature della sua personalità (si veda la costruzione dei proiettili o la – relativamente spiegabile- cura riservata a Jay) lasciano intuire il - classico- cuore d'oro. Non a caso la parte più significativa ed affascinante dell'avventura è sul finale, con la sua assistente Littie: il rapporto tra lui e lei è l'esempio di una narrazione suadente e brillante. Sono sicuramente i personaggi meglio riusciti di tutta la saga.
Nota a margine per il nemico, il vampiro/bambino Marion, cattivo che è una macchietta, ma è funzionale. Sembra uscito paro paro da una partita di Vampiri the Masquerade. Meravigliosamente disturbante da vedere, perciò ancor più amabile.

I disegni sono il vero punto forte di questo lavoro, Burchielli e Mattina mettono fuoco e fiamme nei loro lavori e creano meraviglie terribili, dinamiche interessanti e figure ed inquadrature come solo il grande “cinema americano d'azione” può fare.

La natura pesantemente commerciale di Highway to Hell pesa come un macigno sul lavoro, il punto è che se le storie di Victor Gischler fossero un serial tv o un videogioco non cambierebbe nulla e, anche se non è un difetto di per sé ci sono momenti (sopratutto nella seconda parte della storia) in cui si ha la tremenda sensazione che tutto proceda con il pilota automatico, per far felici tutti e perché gli unici momenti di stupore siano le pagine intere con i tremendi mostri di Burchielli (c'è ad esempio quasi uno schema matematico che prevede il reiterasi di una determinata situazione che culmina in una splash page con un mostro. Questo si ripete ogni tot pagine.)
Highway to Hell è un buon lavoro, magistralmente eseguito ma senza particolari picchi d'intensità emotiva o intuizioni brillanti. Non è perfetto, ed è molto orientato sul fan service ma mentre per gli amanti del genere dovrebbe essere indispensabile, per tutti per tutti gli altri Highway to Hell è buon intrattenimento. E dopo quel finale ne vorranno ancora.

Le Storie 38: Ramsey & Ramsey

L'editoria si evolve, ed evolvendosi costringe ad attuare scelte particolari. Negli ultimi anni il vistoso calo di lettori del fumetto “popolare” ha rimesso in discussione le politiche editoriali e le scelte produttive delle più importanti case editrici del suolo italico, costringendo a chiusure forzate, netti cambi di carreggiata e ad un restyling di personaggi storici come Dylan Dog o Diabolik.
In un periodo di continua innovazione e rinnovamento il colosso Sergio Bonelli Editore ha colto la palla al balzo proponendo con una certa lungimiranza la collana de Le Storie, dove il lettore casuale ogni mese può leggere una storia autoconclusiva creando così un perfetto prodotto "causal" capace di unire una fruibilità che non necessita alcuna conoscenza del personaggio ad un buon livello artistico.
Tra le storie uscite si sono toccati picchi di qualità che rendevano determinati volumi un unicum del genere e spesso questi lavori avevano come filo conduttore il nome di uno sceneggiatore: Alessandro Bilotta.

"Ramsey & Ramsey", il suo nuovo lavoro, è un thriller ambientato nella più classica delle Londre vittoriane che ancora non si è ripresa dallo spettro di un Jack lo Squartatore che pare ora esser tornato a mietere vittime. A risolvere l'impiccio ci saranno il buon Philp Wisdom, nuovo ispettore capo di Scottland Yard che deve scontrarsi con il pressapochismo dei suoi agenti, e due fratelli gemelli titolari di un'agenzia investigativa e dai caratteri completamente contrapposti: il brillante e bizzarro Arthur Ramsey ed il violento, e vizioso, Jack Ramsey. Ovviamente qui sta l'imbroglio dell'autore Bonelli ai "danni" del lettore che si aspetta una normale storia d'investigazione: il thiller è solo il palcoscenico su cui si muoveranno i personaggi che dovranno confrontarsi non solo con un killer ma con gli angoli più oscuri delle loro stesse menti.

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C'è tanto di From Hell in quest'opera, nel lavoro di Alan Moore gli omicidi erano la ritualità per far collimare due universi, due piani temporali, qui gli omicidi sono involontariamente il motore per far schiantare piccole esistenze l'una contro l'altra cambiando fragili equilibri che si erano riusciti a creare decadi addietro. Non più universi di spazio-tempo, ma intimi universi ad personam fatti di emozione-identità, in una caccia all'uomo che sconvolgerà le vite di tutti i partecipanti.
La tempesta d'indizi con i quali Bilotta e Michele Bertilorenzi si divertono a prenderci in giro e l'umanità di ogni situazione al di fuori dei protagonisti, con dialoghi curati che rendono reale ogni personaggio del volume indipendentemente dal suo peso nella storia, è solo l'ennesima ciliegina sulla torta di un'esecuzione esemplare che riesce nella rara impresa di far coincidere l'autoriale ed il popolare e di creare un prodotto da edicola con una potenza ed un livello qualitativo tale da considerarlo già una necessità per la propria biblioteca.

La figura dei tragici Ramsey è il punto gravitazionale della storia, l'ambivalenza antitetica di ognuno di loro è come un vortice che porta anche il mondo intorno a loro ad essere ambivalente, come il giorno e la notte, e scritta con un metodo minuzioso e scaltro che costringe il lettore (persino, lui – NOI - presi nel vortice) a nutrire dubbi e a schierarsi. C'è chi nel loro universo di genio, donne, profumi, droga e due ore di sonno a notte ci si adegua, diventando "doppio" come la dolce moglie di Arthur Ramsey e chi ci si scontra, rimanendone succube e consumato, fino a rivelarsi e a rivelarci personalità contorte del proprio carattere come appunto il giovane ed appassionato Philp Wisdom.
Il citazionismo d'autore e i riferimenti ai fatti veramente accaduti sono inside joke sui quali Bilotta non si appoggia per far progredire la trama.

Ad accompagnare lo sceneggiatore in questa sfida, come già anticipato, c'è il talentuoso Michele Bertilorenzi, autore capace di farsi notare sia in Italia (anche sue le matite per il rilancio di Kriminal) che all'estero in case di prim'ordine come DC e Marvel (per la quale ha lavorato su personaggi del calibro di Daredevil e Dark Wolverine, tra gli altri). Il tratto del disegnatore è preciso ed intenso, non lesina nei dettagli di Londra e riesce ad essere un ulteriore valore aggiunto quando caratterizza con pochi e fini tratti i due gemelli, così uguali eppure così diversi. Nelle scene di lotta, poi, si sente il background dei comics americani che contibruisce a creare una conclusione dinamica ed epica in un combattimento brutale dal taglio cinematografico.

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"Ramsey & Ramsey" è l'ennesima dimostrazione di come il talento di Bilotta sia mutevole e di come lo sceneggiatore riesca a costruire, partendo da una qualsiasi storia o spunto storico, una complicata ragnatela di drammi, tanto incredibile quanto apprezzabile, e di come la famigerata gabbia bonelliana sia per lui e Bertilorenzi uno stimolo per muovere trame e situazioni più innovative di quelle viste in altri volumi. Un narratore talmente abile da far accettare a tutti (sia al lettore più attento, sia a quello casuale) il compromesso intrinseco di ogni sua storia, dove personaggi ed avvenimenti trascendono dalle normali logiche narrative e divengono metafore, a volte dolci e a volte provocatorie... sempre spiazzanti.
Il viaggio con Ramsey & Ramsey è un dramma mozzafiato al quale assistiamo inermi; e come spettatori basiti finiamo a sperare, fin all'ultima vignetta dell'ultima pagina, di poter far qualcosa per ciascuno dei protagonisti.

Occhio di Falco 12

Giunge infine la conclusione di una serie che ha fatto incetta di premi, osannata nel mercato mainstream e guardata con interesse anche chi il fumetto delle "big two" americane solitamente lo snobba o più semplicemente lo trova troppo schematizzato, caciarone e noioso.
Partiamo con un dato di fatto: la serie Hawkeye ha portato a casa nel corso dei suoi tre travagliati anni di pubblicazione (il ritardo degli ultimi numeri per permettere a David Aja lo studio del linguaggio dei sordomuti così da poterlo utilizzare nel fumetto diverrà una leggenda sulla follia che alberga negli angoli bui della mente di un disegnatore) svariati premi come l'Eisner Award per diverse volte di fila.

Pop, brillante ed -apparentemente- fresca, la “season one” (com'è oramai di moda considerare questo genere d'esperimenti) di Occhio di Falco è riuscita nel difficile tentativo di ridare charme al personaggio (i cui rari momenti di gloria risalivano oramai alla gestione Brian Michael Bendis dei Vendicatori) e di creare un prodotto interessante non soltanto per i Marvel zombie ma per tutti gli amanti del fumetto in generale. Una serie complessa e difficile che non è succube dell'ipersteroideo dictat del fumetto supereroistico classico in cui tutto esplode con boati sempre più grandi.

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Per prima cosa Occhio di Falco si ritaglia una nicchia che solo pochi fumetti negli ultimi anni sono riusciti a guadagnarsi (Thunderbolts di Warren Ellis & Mike Deaodato, Secret Warriors di Bendis, Jonathan Hickman e Stefano Caselli) ovvero il prezioso spazio di un lavoro che vuole e riesce a prendersi gioco dei suoi punti fermi iniziali, capace di abbandonarli e di ritrovare una nuova e più brillante veste per un personaggio (ed uno stile fumettistico) vecchio di una cinquantina di anni.
L'esperimento fatto su Occhio di Falco non è di per sé una novità assoluta (i più vecchi ed appassionati ricorderanno la famosa run di Jim Steranko su Nick Fury uscita negli anni '60, ed ovviamente non avranno esitato a sfoderare il paragone) ed è un fumetto che a seconda della decade in cui sarebbe uscito avrebbe ricevuto diverse accoglienze ma ora, nel 2015, Occhio di Falco è un prodotto originale che attinge dal passato per dare nuovo lustro al presente.
Come possiamo non amare il vecchio Clint che ci presenta Matt Fraction? Occhio di Falco è la sublimazione del fallimento. Clint Barton è l'uomo comune, il colletto bianco degli Avengers: un fallibile signor nessuno in un mondo di Dei e Super Soldati.

L'intuizione di Fraction, è che il personaggio – al contrario di come comunemente potremmo pensare e sarebbe più facile presentarci- è solamente un uomo con un arco. Solo quello. Niente di speciale, magari una mira sopraffina ma non è un caso che la serie si basa su ciò che è clint fuori dal suo “lavoro” di supereroe.
L'intera run prende questo Vendicatore troppo bravo per essere un normale sbirro, ma troppo poco potente per non finire perennemente nei guai seri anche nelle missioni più insignificanti, spogliato dei suoi abiti e catapultato in una dimensione a sua misura fatta di bollette, problemi con ex mogli, femmine fatali e mafiosi dell' est europa.
Tutti (e su tutti questo numero) gli episodi che la pluripermiata coppia Fration e Aja si basano sull'eterno fallire del personaggio, delle sue vittorie a metà e del suo sovraumano ma normalissimo potere di continuare a lottare nonostante tutto: Occhio di Falco è la middle class. Piccole gioie e piccole battaglie in un universo che vede superfamiglie di plurimiliardari con poteri cosmici fronteggiare enità come Galactus il divora mondi.

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Barton è l'uomo comune: schiacciato dal peso delle sue scelte (ricordiamo che è lui che dà inizio alla faida con i “Bro”), pressato dalle aspettative altrui (“Hey, ma tu non sei dei vendicatori?”), invischiato in relazioni che non riescono mai ad essere “l'amore della vita” (ogni donna di Occhio di Falco ha verso di lui l'affetto dell'amante ma ancor di più della tutrice, così le ex come quella attuale, che si traducono in rapporti mai maturi abbastanza) ed alle prese con il “futuro” (ovvero la giovane ribelle Kate che meriterebbe più spazio – il suo percorso di crescita si è completato il numero scorso a differenza di quello di Clint che non si chiuderà mai - e le cui avventure in questo numero collimano con quelle di Barton). Questo è il fascino intrinseco delle trame imbastite da Fraction. Un uomo come tanti che, capace di tirare con l'arco, deve fronteggiare i drammi della vita di tutti i giorni e – come se non bastasse, senza la possibilità di riprendersi- deve combattere contro mafiosi e terroristi.

In quest'ultimo capitolo l'universo di Occhio di Falco raggiunge la sua summa della sintesi in una guerriglia urbana nel condominio di cui è oramai “protettore” contro la carica dei Bro e del loro silenzioso sicario. Ancora una volta, laddove altri autori cercano le esplosioni cosmiche le vicende nel nostro si concludono tra le quattro mura domestice... ancora meglio: lo scontro finale è una rissa priva di ogni epicità. Le scelte coraggiose e coerenti del narratore tengono il personaggio in un'ottica realistica e digeribile, cosa altrimenti compromessa se si fosse scelto di scatenare Clint come se fosse un superuomo... ed ancora, il finale agrodolce e rassegnato (l'emblematico addio con l'amato/odiato fratello) e le ultime, meravigliose ed evocative pagine, sono la conclusione perfetta di una saga che ci ha fatto innamorare di uno dei personaggi meno sfruttati dell'universo Marvel. E anzi, il fatto che l'unica ad avere la sfrontatezza e a cui vengono concesse le esplosioni “hollywoodiane” è Kate rende i due personaggi più distanti, di due generazioni differenti. Due Occhio di Falco per due generi di lettori diversi che imparano l'uno dall'altro e convivono con le responsabilità reali e surreali che gli vengono attribuite (o che scelgono): soldi, supernemici, amore, esplosioni cosmiche, bollette, Skrull, fratture, mutanti, problemi di emancipazione... ed il mitico cane Lucky (forse vero outsider del fumetto).
Anni fa (troppi anni fa) si leggevano con gusto i fumetti di Spider-Man perché era un ragazzo speciale ma con “problemi comuni”. Si creava un rapporto tra un personaggio che era un eroe ma che poteva potenzialmente essere anche un lettore, con tutti i problemi che l'adolescente medio poteva ritrovarsi: soldi, amore, bulli e scuola. Sarebbe bello pensare che Fraction abbia scritto il suo Occhio di Falco per quei lettori che, una volta cresciuti, cercassero nuovamente un punto di riferimento.

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La narrazione in questa serie è il bagnato sogno del più ispirato Scott McCloud. Lo spagnolo David Aja (due volte premio Eisner) diventa presto la superstar del fumetto e laddove Fraction scrive la sua miglior storia negli ultimi dieci anni e la miglior caratterizzazione di Clint Barton in cinquant'anni di storia editoriale, coglie il guanto di sfida e si supera ogni volta che tocca la matita. Per analizzare il suo lavoro è impossibile limitarsi solo al numero 12. Aja prende a piene mani il concetto di “narrare per immagini” e ci fa quello che vuole, come vuole, tanto che ad un certo punto persino Fraction deve farsi da parte e lasciare il disegnatore a sbizzarrirsi in ogni modo. In un periodo in cui un'unica intuizione decreta il gusto e lo stile del disegno (l'anima) in un fumetto, Aja fa l'impossibile svariate volte inventando di tutto: dal retro pop, all'avventura vista dagli occhi del cane Lucky, agli intervalli con le pellicole in negativo fino ad arrivare agli ultimi numeri in cui – visto che Clint ritorna in parte sordo - le vignette sono intervallate da messaggi rivolti al lettore con il linguaggio delle mani disegnato. Una struttura di vignette che fa impallidire il Miller più spinto, zoomate, particolari, pagine da 19 vignette che avrebbero decretato il suicidio di qualsiasi disegnatore di fumetti ma che Aja affronta a testa alta e petto in fuori creando un prodotto unico. Ogni volta che si legge un volume di Occhio di Falco disegnato da questo genio della matita c'è da ridiscutere l'estetica della vignetta, la composizione della tavola e la suddivisione della storia ed ogni volta Aja ne ha ragione.

Tirando infine le somme questo vecchio (ma nuovo) Occhio d Falco si riconferma nel suo dodicesimo (ed ultimo, sigh!) numero un acquisto necessario a tutto tondo, un anello di giunzione plurigenerazionale tra chi amava i fumetti negli anni 80 e chi ha iniziato a leggerli solo adesso, una serie che è forse non necessaria nell'ottica del Marvel Universe ma un piacere innegabile in un senso più alto di lettura, amore e curiosità verso il fumetto.
Questa gestione di Clint ci lascia con risultati importanti, su tutti un successo di pubblico e critica che raramente concordano, una caratterizzazione seria ed interessante di personaggi come Kate che trovano finalmente una ragion d'essere e un loro posto riconoscibile in un universo che sforna eroine a gogò e, dulcis in fundo il primo, personaggio artisticamente e genuinamente accettabile del grande piano d'incastri di Kevin Feige ed il suo universo cinematografico Marvel espanso (perché si, questo Occhio di Falco è l'Occhio di Falco di Age of Ultron anche se con le dovute differenze è “il cuore umano” degli Eroi più Potenti della Terra).

Great Pacific 2 - Costruire una nazione

Come potevano Joe Harris e Martin Morazzo superare il primo volume di Great Pacific (Rifiuti!, edito da Saldapress)? Come potevano riuscire a mettere in ombra le meraviglie del loro primo arco narrativo, un meraviglioso fritto misto di follie fantapolitiche, spirito pioneristico e trovate brillanti? Era semplicemente impossibile riproporre quello scoppiettante cocktail a base di piovre giganti, giochi di potere, tribù indigene discendenti dal culto del cargo, guerra in mare aperto, pirati, assassini, rifiuti e... bombe nucleari! Ed infatti non ci hanno provato.

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La coppia di autori ha saggiamente optato per un diverso passo nel narrare le avventure del colonialista Chas Worthington III, giovane rampollo ereditiero di un impero petrolifero miliardario che però opta per abbandonare tutto e partire per colonizzare un'isola nell'Oceano Pacifico fatta solo di rifiuti e grande come il Texas (New Texas, per l'appunto), raccontandoci cosa accade dopo che il nostro ha avuto ragione sull'esercito americano e sul consiglio d'amministrazione della sua vecchia azienda.
Abbiamo lasciato un novello Bruce Wayne che, con una delle migliori mosse a sorpresa mai viste, è riuscito a stabilizzare l'economia della sua particolarissima nazione creata su dei rifiuti galleggianti: ora ci ritroviamo con un egomaniaco che necessita di riconoscimento dalle altre nazioni del globo e per raggiungerlo s'invischierà con personaggi di dubbia fama.
Da un action bizzarro qui passiamo rapidamente alla fantapolitica (non rinunciamo comunque a pesci mutanti, ecoterroristi ed altre bizzarre trovate che i due autori ci hanno abituati a leggere) che vede il giovane muoversi con meno sicurezza in un territorio forse più pericoloso ed infido della battaglia per la conquista dell'isola.

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Harris riesce perfettamente a delineare la personalità di Chas, facendocelo amare nelle sue trovate e odiare per la sua spocchia, ma non lesina a ritagliare con finezza (anche dedicando poche vignette) i suoi comprimari come Zoe o Okonkwo mentre Morazzo dà prova di essere un feticista dei particolari nel disegnare le montagne di pattumi che creano i magnifici panorami del New Texas, l'artista argentino riesce con il suo tratto a delineare volti espressivi con poche linee anche quando si occupa di personaggi più complicati come l'androgino Piccolo Capo e dalla sua matita nascono affascinanti creature come i Gastrobot con la stessa facilità con cui disegna il palazzo dell'ONU. Certamente bisogna scendere a patti con alcune peculiarità del suo stile grafico come l'attacco romboidale dei nasi, i due denti sporgenti dei personaggi nei (fin troppo frequenti) primi piani frontali e la sensazione che le lacrime versati dai nostri eroi siano solide.

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Great Pacific si riconferma una serie brillante e il team creativo dimostra che, pur avendo a disposizione l'isola più folle dai tempi di Lost, può farne a meno, intrecciando macro e micro trame che si dipanano nel mondo intero e spaziano dal thiller al mistery senza mai annoiarci. Consigliatissimo.

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