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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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L’incapacità di fornire un’adeguata interpretazione artistica del presente, unita ad una visione nostalgica del passato, attraversa periodicamente i territori della fiction cartacea e cinematografica. Il revival non è stato mai cosi di moda come oggi, anche grazie ad una perdurante crisi economica che fa apparire il futuro incerto e i decenni passati come un’arcadia ormai perduta. A ben vedere, però, l’evocazione dei bei tempi andati non è un tratto caratteristico ed esclusivo della contemporaneità. Già negli anni ’70 George Lucas aveva fatto rivivere con felliniano entusiasmo gli anni ’50 della sua adolescenza in American Graffiti, mentre Happy Days celebrava lo stesso decennio e lo splendore dell’American Way of Life. Nella cultura di massa contemporanea abbiamo avuto negli ultimi anni una proliferazione di opere ambientate negli anni ’80, fenomeno dovuto principalmente al fatto che molti dei creativi di oggi sono cresciuti in quel decennio fatidico. Tutta l’opera di J.J. Abrams, a partire del delizioso Super 8, affonda le radici nel cinema di Stephen Spielberg e Lucas, mentre l’eccellente Drive di Nicolas Winding-Refn è un omaggio diretto a noir prodotti in quel periodo come Vivere e morire a Los Angeles e Manhunter. Un grande successo della scorsa estate è stato il serial Stranger Things, che ha ricreato con nostalgica accuratezza un immaginario tipicamente anni ’80 di bande di ragazzini che scorrazzano sulla loro Bmx, mentre il fantastico irrompe nella vita ordinaria di una cittadina di provincia americana. Dallo stesso humus nasce Paper Girls, il nuovo lavoro firmato da Brian K. Vaughan (Y: The Last Man, Saga), qui accompagnato ai disegni da Cliff Chiang (Wonder Woman).

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La storia si svolge in un tranquillo sobborgo di Cleveland e ha per protagonista Erin, una dodicenne che per guadagnarsi una piccola entrata consegna giornali prima dell’alba. Uscita di casa in bicicletta per fare il solito giro di consegne, si imbatte in una piccola banda di teppisti, reduci dai festeggiamenti di Halloween (è la mattina del 1 novembre), che la importunano. La situazione viene salvata dall’arrivo di altre tre ragazze che, come Erin, consegnano giornali a domicilio: K.J., Tiffany e soprattutto la sfrontata MacKenzie, la prima ragazza della zona ad essere diventata una Paper Girl, considerata un modello da tutte le altre. Dopo le debite presentazioni, le quattro adolescenti decidono di riprendere il giro insieme, per difendersi da eventuali ed ulteriori strani incontri. I quali non tardano ad arrivare, nella forma di misteriosi individui vestiti come dei ninja, che parlano una strana lingua. Da questo punto in poi la vicenda prende una piega del tutto fantastica: le ragazze incappano in una probabile invasione aliena ad opera di strani esseri che cavalcano dei pterodattili, avversari dei suddetti “ninja” agli ordini di un misterioso e anziano guru, e poi macchine del tempo nascoste in cantina, apparizioni di angeli e demoni e chi più ne ha più ne metta.

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Paper Girls si nutre dello stesso immaginario di Stranger Things: ci sono i ragazzini in bicicletta come in E.T. e ne I Goonies, i walkman, i walkie talkie, le citazioni del cinema anni ’80 (se nel serial Netflix i numi tutelari erano Carpenter e Spielberg, qui vengono citati tra gli altri Nightmare – Dal profondo della notte, Scuola di Mostri, Dietro la Maschera, Peggy Sue si è sposata, citazione quest’ultima che, alla luce del sorprendente finale, potrebbe acquistare un valore significativo nel prosieguo della serie). Ma diversamente dalla fortunatissima serie tv, l’opera di Vaughan e Chiang ambisce ad essere più di brillante omaggio agli eighties. Di quel decennio non vengono evocati solo i simboli pop, ma anche le angosce (la paura dell’Aids, la guerra atomica) e le tragedie (il disastro del Challenger che viene citato in apertura), la politica (l’apparizione in sogno di Ronald Reagan). Tornare indietro per comprendere la complessità del presente, questa sembra essere l’ambizione che muove tutto il progetto Paper Girls. O forse no. Definita dagli stessi autori come un incrocio tra Stand By Me e La Guerra dei Mondi, Paper Girls può essere letta alternativamente come un'istantanea della società americana in un preciso momento storico, romanzo di formazione o come una semplice ed avvincente avventura fantascientifica, dal sapore nostalgico. Vaughan propone uno script complesso e stratificato, nascosto dietro ad un’apparente naiveté,  che si presta a molteplici interpretazioni a seconda della sensibilità del lettore che vi si approccia. L’unico limite è costituito dall’ambizione alla base dell’opera e dal gran numero di misteri irrisolti che troveranno presumibilmente una soluzione nei volumi successivi, vedi lo scontro generazionale tra i “giovani” tramutati in cyborg e gli Old Timers, gli “anziani” che sembrano essere i villain della storia. Tanta carne al fuoco che, se da una parte può disorientare, dall’altra affascina per il gran numero di spunti proposti dalla scrittore di Saga.

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Il viaggio a ritroso nel tempo imbastito da Vaughan non potrebbe dirsi completo senza la perizia grafica di Cliff Chiang, che col suo tratto stilizzato scompone la tavola in griglie regolari citando la divisione classica dei fumetti del periodo e avvalendosi anche dei bei colori di Matthew Wilson, che infarcisce la palette cromatica di colori acidi, effetti fluo e neon come nei splendidi titoli di testa del già citato Drive di Refn. Una colorazione in quadricromia avrebbe aumentato l’atmosfera vintage dell’opera, ma il lavoro di Chiang e Wilson è d’impatto e ruba comunque l’occhio. Paper Girls è una lettura obbligata per chi è cresciuto negli anni ’80 o per chi ha semplicemente voglia di tuffarsi nelle atmosfere tipiche di quel decennio, segnalandosi sicuramente come una delle uscite più interessanti degli ultimi mesi.

Supreme: Blue Rose

Nel 1996 destò curiosità e scalpore la notizia che Alan Moore, l’osannato guru di Watchmen e Miracleman, avrebbe prestato il suo talento al servizio di Supreme, versione estrema e iper-violenta di Superman, creata da Rob Liefeld per i suoi Extreme Studios. Liefeld, che pochi anni prima aveva lasciato la Marvel in compagnia di colleghi come Todd McFarlane e Jim Lee per fondare la Image Comics, incarnava pienamente lo spirito degli anni ’90: le sue tavole gioiosamente infarcite di azione, il disinteresse per le proporzioni e la correttezza anatomica nel disegnare i suoi personaggi, spesso ritratti in pose aggressive con denti digrignati e armati di futuristici fucili al plasma e katane, sono ancora oggi il suo marchio di fabbrica. Un’estetica da b-movie che avrebbe spinto uno stimato professionista del settore come Peter David a definirlo "l'Ed Wood dei fumetti". Dopo aver battuto ogni record di vendite in Marvel con New Mutants e X-Force, testate per le quali crea, tra gli altri, il fortunatissimo Deadpool, Liefeld da inizio alla sua seconda vita alla Image dando vita a una serie di cloni delle testate maggiormente in voga in quel momento come Youngblood, Brigade e Bloodkstrike, evidentemente debitori degli X-Men di casa Marvel, e il già citato Supreme, spingendo il suo stile ipercinetico verso una deriva ipertiroidea che sfocia nella parodia involontaria. Consapevole dell’inconsistenza di trame e sviluppo dei personaggi, Liefeld prova ben presto a coinvolgere nella sua avventura di editore in proprio sceneggiatori di peso: quando annuncia Moore ai testi di Supreme, nessuno lo prende sul serio. Sarebbe come annunciare un album dei Take That scritto da Sir Andrew Lloyd Webber. Contro tutte le aspettative Moore accetta con entusiasmo, dichiarando  alla stampa specializzata di vedere nella neonata Image di Liefeld, McFarlane, Lee, Larsen e Silvestri l’energia e l’entusiasmo della Marvel degli inizi. Il bardo di Northampton arriva ai testi di Supreme col numero 41 e lascia subito il segno: fa piazza pulita di quanto accaduto nei numeri precedenti, introducendo un Supreme nuovo di zecca, con nessun punto di contatto col violento superuomo dei numeri precedenti. Moore introduce il concetto di revisione, suggerendo che l’universo dei fumetti è regolato da un meccanismo grazie al quale, dopo aver attraversato un periodo di crisi creativa, è possibile azzerare tutto e ricominciare daccapo. Nell’universo di Supreme, però, tutto ciò che è venuto prima, come le vituperate versioni pre-Moore del personaggio, non sono state inghiottite dal nulla: esistono ancora e vivono nella Supremacy, una cittadella dorata collocata in un limbo spazio temporale dove convivono tutti i Supreme che hanno preceduto quello di Moore, quello degli anni ’40, ’50 e ’60, tutte le Lady Supreme e tutte le variazioni possibili e immaginabili di cui non avevamo mai avuto notizia.

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Il Supreme di Alan Moore è un gioiello di narrazione metafumettistica, un omaggio appassionato al mito di Superman in un momento storico in cui il vero Superman è alle prese con una fase convulsa della propria vita editoriale, schiacciato da una serie di eventi editoriali, a partire dalla famigerata “Morte”, dal chiaro gusto commerciale. Il Supreme di Moore, recuperando tutto il bagaglio camp fatto di cani volanti e città in bottiglia, è tutto quello che il vero Superman non può più essere, la celebrazione nostalgica di un tempo perduto ma che può essere ancora evocato in gustosi flashbacks illustrati da Rick Veitch con stile deliziosamente Silver Age .
Dopo la splendida versione di Moore e dopo qualche effimero tentativo di rilancio da parte di Liefeld, di Supreme si erano perse le tracce. Poi lo scorso anno l’annuncio di una nuova miniserie, Supreme: Blue Rose, per i testi di Warren Ellis e i disegni della new entry Tula Lotay.

Ellis riprende il discorso metatestuale di Moore e lo porta alle estreme conseguenze: lo scrittore di Planetary e The Authority sferra un attacco di violenza inaudita contro le logiche attuali dell’industria del fumetto statunitense, basata su continui riazzeramenti della continuity, i famigerati reboot che molto spesso falliscono nel tentativo di catturare nuovi lettori scontentando al tempo stesso i vecchi fan.
Lo sceneggiatore mette al centro della vicenda Diana Dane, che nelle vecchie storie di Supreme era l’interesse amoroso di Ethan Crane, l’alter-ego dell’eroe. Diana è una giornalista investigativa, al momento disoccupata, che attraversa un momento particolare della sua vita: è affetta infatti da strane visioni, che le fanno dubitare del suo stato di salute. Ma proprio per questa sua “peculiarità” viene contattata da Darius Dax, misterioso uomo d’affari che le chiede di investigare su di un misterioso disastro avvenuto in una cittadina di provincia, Littlehaven, e che sembra ruotare intorno alla figura di un abitante del posto, disperso, di nome Ethan Crane. Un uomo di cui nessuno sa nulla e che forse, in questa realtà non dovrebbe nemmeno esistere. Diana comincia la sua indagine, tra uno strano incontro e l’altro, finendo ben presto in una vicolo cieco in cui è impossibile distinguere la realtà del sogno. Grazie all’intervento di un deus ex-machina esterno, la giornalista scoprirà che il suo mondo si è in realtà formato da pochi mesi, grazie ad un ennesimo processo di revisione di una realtà precedente di cui sopravvivono ancora elementi percepibili, rendendo questa nuova realtà pericolosamente instabile. La chiave dell’intera vicenda sarà fornita dalla scoperta della vera natura dell’incidente di Littlehaven e del ruolo di Ethan Crane e dello stesso Darius Dax in esso.

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Scegliendo la strada della metatestualità, come il Grant Morrison di Flex Mentallo e di Multiversity, Ellis ci racconta una storia di supereroi (dove l’eroe del titolo non appare mai, è bene specificarlo) per svelare la vera natura dell’attuale industria del fumetto mainstream statunitense, popolata di revenant di carta che ogni mese popolano gli scaffali delle fumetterie, protagonisti di periodici e forzati reboot. Se con Scream Wes Craven realizzava un thriller che raccontava i meccanismi del thriller stesso, in Supreme: Blue Rose Ellis si serve della decostruzione del genere supereroistico per  mettere definitivamente alla berlina le miserie del fumetto seriale a stelle e strisce. Niente sarà più lo stesso dopo aver letto la miniserie di Ellis e Lotay, e la perdita dell’innocenza sarà assicurata: le illusioni dei lettori di vecchia data non potranno che schiantarsi a terra come la cittadella dorata di Supremacy che precipita sull’inconsapevole Littlehaven. Non resta quindi che abbandonarsi alla prosa colta e romantica di Ellis, a spasso tra citazioni dirette della teoria delle stringhe, atmosfere da sogno che diventano improvvisamente incubi come in un film di David Lynch, e struggente malinconia per amori mai vissuti e mondi mai esistiti se non nella memoria di pochi esuli spazio-temporali.

I disegni di Tula Lotay completano in modo ideale i testi complessi e stratificati di Ellis, anzi ne costituiscono la traduzione in immagini: le vignette traboccano di trovate e sperimentalismi grafici, le figure in primo piano sembrano essere disturbate da linee e segni che provengono da sotto la pagina o forse da un’altra dimensione, come a sottolineare la dimensione onirica ed inquietante dell’intera vicenda, come se la nostra realtà fosse solo una pagina da sfogliare, sotto la quale ne esistono migliaia di altre. Un contributo straordinario ed entusiasmante, quello della Lotay, che impreziosisce un’altra prova smagliante del sublime Ellis.

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Supreme: Blue Rose è un oggetto da maneggiare con cura, una prova d’autore che potrebbe mettere il lettore abituale di comic books di fronte all’horror vacui delle proprie ossessioni cartacee. E dopo averla letta, recarsi alla fumetteria di fiducia per acquistare le nuove imprese dei Vendicatori o della Lega della Giustizia potrebbe non avere mai più lo stesso sapore.

 

Suicide Squad: recensione

  • Pubblicato in Screen

È una partenza con handicap quella che la Warner Bros. si è trovata ad affrontare nel pianificare il suo DC Extended Universe cinematografico fin dal Man Of Steel di Zack Snyder, primo cinecomic post-Nolan dello studio. Desiderosa di sfidare la Marvel/Disney sul terreno di un universo cinematografico condiviso, la DC/Warner partiva con un ritardo di 5 anni rispetto alla concorrente, che già con Iron Man del 2008 aveva posto il primo tassello del suo Marvel Cinematic Universe. Mentre la Marvel inanellava un successo dietro l’altro trasformando in beniamini del pubblico personaggi come i Guardiani della Galassia che, a voler essere buoni, erano stati fino a quel momento personaggi di terza fascia della casa editrice, la DC faticava a riportare nelle sale nomi spendibilissimi presso il pubblico generalista come Batman e Superman. Appariva evidente fin da subito l’indecisione nelle scelte creative e la mancanza di una figura di riferimento come Kevin Feige, presidente dei Marvel Studios. La tiepida accoglienza da parte della critica e di una nutrita schiera di fan del lungamente atteso Batman V Superman è storia recente: una visione “estrema” e in alcuni casi fuori dal canone delle due icone DC da parte di Zack Snyder che ha dato luogo ad un esito cinematografico controverso, mal supportato da un montaggio confuso ed una sceneggiatura non all’altezza della situazione. Ed è a questo mezzo passo falso che si deve la creazione da parte della Warner Bros. di DC Films, una nuova divisione che servirà a supervisionare il lavoro dei creativi che si avvicenderanno sui film DC, affidandone la direzione a Geoff Johns, già Chief Creative Officer e sceneggiatore di punta di DC Comics.

SDCC'15: ecco il trailer di Suicide Squad

Era inevitabile, con tali premesse, che Suicide Squad, la seconda produzione targata DC di quest’anno, fosse attesa al varco. E diciamo subito che pur non essendo un prodotto privo di difetti, appaiono esagerate le stroncature che della pellicola ha fatto la stampa specializzata americana. Suicide Squad è un giro di giostra delirante su un otto-volante sgangherato ma divertente, condito da sprazzi di follia anarchica e salvato dalle performance carismatiche di alcuni suoi interpreti.

Il film ha il suo punto di forza nella sua premessa di base: quella di riunire in un super-gruppo alcuni iconici villain della DC, prelevati da un carcere di massima sicurezza e reclutati in maniera coatta dal determinato agente governativo Amanda Waller, che offre loro la possibilità di redimersi e di usufruire di uno sconto di pena gettandosi in missioni dalle quali potrebbero non tornare… e minacciandoli di far saltare la microcarica che ognuno di loro ha innestata nella base del collo nel caso dovessero disertare. L’inizio del film è avvincente ed ipnotico, con la presentazione di ciascun membro della squadra che si risolve in un “corto” ad esso dedicato, in cui faranno una veloce comparsata anche Batman e Flash. Ma dopo la frenetica e divertente parte introduttiva, cominciano le dolenti note, in particolar modo per quanto riguarda la trama che si fa confusa e sconclusionata, frutto di una sceneggiatura evidentemente rimaneggiata. La comparsa di un villain quasi onnipotente e dalle origini e motivazioni incomprensibili segna l’avvio improvviso della prima missione della squadra, dando il via ad una serie di scene di guerriglia che, pur esaltando l’indubbio talento del regista David Ayer per le sequenze action, costituiscono però l’elemento meno significativo del film.

Lo script fa acqua da tutte le parti e il film procede ad episodi, come una squadra di calcio senza schemi che butta la palla in avanti confidando nella qualità dei solisti: per fortuna in Suicide Squad ve ne sono di eccellenti, a partire da un ritrovato Will Smith che tratteggia un convincente Deadshot, il cecchino che non sbaglia mai un colpo. Anche Smith, evidentemente a suo agio nel ruolo, sembra essere tornato il divo di 20 anni fa che non sbagliava mai un film, regalandoci un Floyd Lawton ironico e malinconico allo stesso tempo, un villain suo malgrado che sarebbe potuto essere un eroe se avesse compiuto altre scelte.

Suicide Squad: ecco il Blitz trailer ufficiale italiano

Ma a rubare letteralmente la scena è la Harley Quinn di Margot Robbie, che si rivela una delle scelte di casting più azzeccate in un cinecomic. Raramente si era visto in questo genere di film un simile ritratto di follia e bellezza ipnotica, ispirata metafora di tutte quelle donne che si fanno plagiare da un amore ossessivo che le imprigiona in una relazione distruttiva. Harley Quinn è la star indiscussa del film e Ayer ne è conscio, consegnandole le luci della ribalta e regalandole le battute più efficaci ed applaudite in sala. Non si può dire purtroppo altrettanto dell’amato “Mr. J” di Harley, il Joker di Jared Leto, relegato ad una parte da comprimario nonostante il suo ruolo centrale nella poderosa campagna di marketing del film. Leto fornisce una nuova versione del Principe Pagliaccio del Crimine, più dandy e modaiola, che sarebbe potuta essere anche interessante se non fosse stata relegata a soli flashbacks e ad una sottotrama del tutto marginale. La sua presenza nel film sembra essere più un antipasto di cose a venire, e fallisce nel difficile compito di far dimenticare lo spietato clown nichilista interpretato dal compianto Heath Ledger ne Il Cavaliere Oscuro.

Menzione d’onore anche al premio Oscar Viola Davis, che da spessore e carattere ad Amanda Waller, capace di tenere testa ad un esercito di psicopatici ed assassini con la sola forza del suo carisma. La sceneggiatura non fornisce le stesse occasioni di ribalta a Joel Kinnaman (Col. Rick Flag), Jai Courtney (Captain Boomerang), Karen Fukuhara (Katana) e a Cara Delevingne nel doppio ruolo di June  Moon ed Enchantress, anche se la scena del passaggio di quest’ultima da una personalità all’altra, con una mano nera che sbuca dietro il palmo di una mano bianca e la gira, voltando e trasformandone tutto il corpo è da antologia e probabilmente diventerà un cult.

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Purtroppo lo script deficitario di Ayer non da seguito a tutte le sue intenzioni, non riuscendo a spingere fino in fondo il pedale della parodia irriverente alla Deadpool o del politicamente scorretto stile Guardiani della Galassia (film con i quali divide comunque uno spirito di fondo) e risolvendosi in una edulcorata e banale riabilitazione di “cattivi che poi non sono così cattivi”. Il film lascia comunque nello spettatore una piacevole sensazione di divertimento, nonostante uno scontro finale che sa tanto di riedizione di Ghostbusters contro Gozer il Gozeriano, ma è un peccato che si può anche perdonare pur di salire sulla folle giostra di Suicide Squad.

Ps. Non abbandonate la sala prima di una scena mid-credit che potrebbe essere di fondamentale importanza per gli sviluppi futuri del DC Extended Universe.

Suicide Squad è diretto da David Ayer e vede per protagonisti Will Smith (Deadshot), Joel Kinnaman (Rick Flagg), Margot Robbie (Harley Quinn), Jared Leto (Joker), Jay Courtney (Boomerang), Cara Delevingne (l'Incantatrice), Jay Hernandez (El Diablo), Ben Affleck (Batman), Scott Eastwood, Raymond Olubowale, Common (Monster T.).
Il film, prodotto da Charles Roven e Richard Suckle, farà il suo debutto oggi 5 agosto 2016 negli States, il 13 nelle sale italiane.

Daredevil: Amore & Guerra

Nel biennio 1985/86 fanno la loro comparsa in rapidissima successione un gruppo di opere che ancora oggi, a 30 anni di distanza, vengono annoverate tra i maggiori risultati ottenuti dalla narrativa a fumetti: Watchmen, Maus, The Dark Knight Returns, Daredevil: Born Again, Elektra: Assassin. Tranne le prime due, le altre opere citate sono frutto del talento innovatore e straripante di Frank Miller. Arrivato in Marvel nella seconda metà degli anni ’70, durante la quale affronta una gavetta fatta di copertine e storie per testate secondarie, la sua carriera decolla quando Jim Shooter, editor-in-chief della compagnia, scommette su di lui e gli affida le sorti di Daredevil, testata che non era più riuscita a ripetere i fasti del periodo Lee & Colan e che in quel periodo era a rischio chiusura. Dopo una prima sequenza di storie su testi di Roger McKenzie, Miller assume l’incarico di scrittore/disegnatore dal numero 168, trasformando subito la serie del vigilante cieco in un noir moderno dove echi di Hammet e Chandler convivono e si fondono con l’influenza dello Spirit di Will Eisner, la fascinazione per la cultura orientale e l’apertura alle suggestioni dei maestri del fumetto europeo come Sergio Toppi.

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Creatura simbolo di questo ciclo indimenticabile, che Miller introduce fin dal suo primo numero come autore completo è Elektra, la ninja greca che viene dal passato di Matt Murdock, col quale condivide un rapporto complesso e controverso, amante e nemica allo stesso tempo. Altra intuizione fortunata di Miller fu quella di abbandonare la variopinta galleria di villain storici della serie e di contrapporre a Daredevil un moderno boss della malavita, un businessman ammantato di rispettabilità dietro il quale si nascondeva invece un temuto zar del crimine. In quella che si rivelò essere una perfetta scelta di casting il ruolo venne assegnato a Wilson Fisk, Kingpin, fino a quel momento caricaturale villain di Spider-Man, che Miller tirò fuori dalla naftalina e grazie ad un sapiente lavoro di restyling trasformò in una nemesi dei tempi moderni, in cui convive la rapacità di un gangster alla Scorsese e la complessità psicologica di un Macbeth. Unica ancora di salvezza spirituale per Fisk è costituita dalla moglie Vanessa, vista invece dal suo braccio destro, Lynch, come un ostacolo al dominio del boss sulla città. Per questo ne organizza prima il rapimento, poi tenta di ucciderla facendo esplodere il palazzo in cui è tenuta prigioniera. Vanessa sopravvive ma perde la memoria, e si rifugia nelle fogne di New York, dove cade vittima degli abusi mentali e fisici di un autoproclamatosi “Re delle Fogne”. Daredevil la rintraccerà e la salverà, riconsegnadola a Kingpin dietro la promessa di far dimettere il neo-eletto sindaco che si trova sul suo libro paga.
Miller conclude la sua run di Daredevil due anni dopo con il numero 191, lasciando però sospeso il fato di alcuni personaggi tra cui Elektra e la stessa Vanessa. Tornerà a raccontare le storie della ninja greca in Elektra: Assassin e Elektra Lives Again, mentre all’epilogo della triste vicenda di Vanessa Fisk dedicherà la graphic novel Daredevil: Love & War, una vera e propria bomba di anarchica e radicale eleganza che deflagra sulla scena fumettistica nel 1986, all'apice del periodo "revisionista".

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Amore & Guerra è il terzo e meno osannato capitolo di un’ideale trittico, insieme a Born Again e Elektra: Assassin, che celebra il ritorno di Miller alla Marvel dopo i fasti del Dark Knight in casa DC. La storia si apre nel grattacielo di Kingpin, dove un accorato Wilson Fisk si reca al capezzale della moglie Vanessa, il cui equilibrio psichico è ormai compromesso dopo il tentativo di omicidio di cui è stata vittima. Fisk fa rapire da un suo scagnozzo, lo psicopatico Victor, la moglie di un famoso psichiatra, Cheryl, allo scopo di costringere l’uomo a curare Vanessa. Non ha fatto i conti però con Daredevil, che ingaggerà una lotta contro il tempo per salvare le due donne dalle attenzioni dei due pericolosi criminali.

Riassunta così, la trama di Amore & Guerra sembrerebbe ricalcare il più banale stereotipo di feuilleton ottocentesco, con l’eroe che si lancia al salvataggio della damigella in pericolo. Ci troviamo invece di fronte ad un’opera caratterizzata da un altissimo livello di sperimentazione, una brillante sinergia tra due artisti allora al top delle rispettive carriere. Ad accompagnare i testi di Frank Miller, come nel caso della già citata Elektra: Assassin, troviamo infatti i pennelli di Bill Sienkiewicz, artista che aveva mosso i primi passi nell’industria del fumetto come emulo di Neal Adams, stile che comincia progressivamente ad abbandonare a partire da un celebre ciclo di Moon Knight, a favore di un tratto più sporco e ricco di chiaroscuri. Ma è con una seminale sequenza di New Mutants in coppia con Chris Claremont che Sienkiewicz abbraccia definitivamente il suo nuovo stile, fatto di un approccio più sperimentale al tavolo da disegno.

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Come una farfalla uscita dalla crisalide, è proprio con Amore & Guerra che Sienkiewicz raccoglie i risultati di questa ricerca, sfociando apertamente nell’eversione artistica e nell’avanguardia. Tecnica mista, pittura ad olio, collage: non c’è limite alla sperimentazione concessa all’artista. In questo senso, il titolo dell’opera è emblematico: Amore per le infinite possibilità concesse dal “mezzo” fumetto, Guerra a tutti i limiti che gli sono stati imposti finora. Sienkiewicz riversa nelle sue tavole tutte le influenze dell’arte europea di cui si è nutrito: espressionismo tedesco, cubismo, ma anche Picasso, Mucha, Klimt. Citazione diretta della secessione viennese sono i gilet indossati da Kingpin, ritagliati direttamente dalla carta da parati di quel periodo storico. Impossibile tenere il conto delle suggestioni e dei richiami di cui l’artista impreziosisce l’opera: il grattacielo di Fisk illuminato dal sole che si staglia dai bassifondi di cui si nutre, simile ad una torre che ospita uno stregone malvagio, un drago che custodisce una principessa addormentata; le donne, Vanessa e Cheryl, ritratte come donne angelicate di concezione stilnovista, esseri eterei che ispirano l’Amore ossessionato e morboso di uomini dediti alla Guerra come Kingpin e Victor; quest’ultimo, killer schizofrenico, ridotto dall’uso di droghe e dall’ossessione per Cheryl ad una bestia dagli istinti primordiali, e per questo raffigurato lombrosianamente da Sienkiewicz con le fattezze di un mandrillo. Faranno scuola le anatomie volutamente distorte e deformate dall'artista, a suggerire talvolta gli stati d'animo dei personaggi, talvolta, come nel caso di Victor, i segni inequivocabili della malattia mentale: è il caso delle tavole in cui sovrappone i lineamenti del viso del killer, con un effetto di ripetizione che va a sottolinearne e ad amplificarne lo squilibrio psichico. Celebre è anche la resa grottesca e esageratamente sovradimensionata di Kingpin, un ammasso di dolente rimpianto "grasso come lo stato dell'Idaho" (cit.). In tutto questo Daredevil appare solamente come una scia rosso fuoco nel cielo di New York, salvo riassumere i consueti contorni da eroe da comic book popolare nella sequenza del salvataggio di Cheryl, alla quale si presenta come un novello cavaliere in armatura.

Gli splendidi dipinti di Sienkiewicz si fondono e si confondono ai testi di un Frank Miller ispiratissimo, qui alle prese con una delle prove più raffinate della sua carriera. Il consueto stile di scuola hard-boiled dello scrittore del Maryland assume la forma di un flusso di coscienza necessario ad accompagnare il lettore nei labirinti mentali di personaggi psicologicamente instabili, e l’uso di onomatopee e di monologhi interiori che si interrompono improvvisamente per poi ripartire fanno parte di quella ricerca di un nuovo linguaggio espressivo di cui si parlava precedentemente e di cui quest’opera è permeata. Raramente si è visto, in campo fumettistico e non solo, un connubio così ispirato tra due talenti assoluti, che giocano a sfidarsi e a superarsi a vicenda “procedendo per ellissi e singulti, fermandosi e riprendendo con ritmo sincopato, come una jam session a fumetti delirante e sperimentale” (M.M. Lupoi).

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Daredevil: Amore & Guerra viene riproposto da Panini Comics in uno splendido volume della linea Grandi Tesori Marvel, formato che esalta le già straordinarie tavole di Sienkiewicz: un capolavoro che non può mancare nella libreria di nessun appassionato, testimonianza di un breve momento in cui una storia di super-eroi poteva essere il manifesto di una nuova avanguardia estetica.

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