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Batman/Grendel, recensione: Quando il Pipistrello incontrò il Diavolo

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Come abbiamo già raccontato nella recensione del primo omnibus dedicato a Grendel, il personaggio cult creato da Matt Wagner, all’inizio degli anni ’80 il mondo del fumetto a stelle e strisce viene attraversato dalla rivoluzione del direct market. Un nuovo modo di fruire i comics che consente il lancio di nuove proposte editoriali e di nuovi autori. È un momento di grandissimo e irripetibile fermento creativo: Frank Miller sta rinnovando il fumetto statunitense col suo primo e fondamentale ciclo di Daredevil mentre un giovane inglese di nome Alan Moore ha inaugurato in terra d’Albione con Miracleman un nuovo modo di scrivere i fumetti di supereroi che verrà definito “decostruzionista”. È in questo clima positivo che Matt Wagner lancia il suo Grendel, personaggio indie che trova un suo pubblico fedele nonostante il fallimento del suo primo editore, Comico, sulla falsariga di quanto Dave Sim aveva fatto con Cerebus.

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Il successo di questi nuovi personaggi e la reputazione sempre più consolidata dei loro autori non può fare a meno di attirare l’attenzione dei grandi editori: la Dark Horse Comics si offre di rilevare la pubblicazione di Grendel, mentre la DC propone a Wagner di realizzare un incontro tra la sua creatura e il personaggio bandiera della major, Batman.
A più di 25 anni dalla prima pubblicazione italiana dell’incontro / scontro tra i due personaggi, curata dalla ora defunta Phoenix, Panini Comics riporta in libreria il crossover tra Batman e Grendel in un bel volume cartonato che contiene, oltre alla prima miniserie del 1993, anche il sequel del 1996 sempre realizzato da Matt Wagner. Seppur realizzate dallo stesso autore, si tratta di due opere estremamente diverse da loro, quasi antitetiche, separate da una differenza stilistica che ben riflette i profondi cambiamenti che attraversano il mondo del fumetto americano tra l’uscita della prima e tra quella della seconda.

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La prima miniserie si sviluppa in due albi di formato “prestige”, L’enigma del diavolo e La Maschera del diavolo. Pur uscendo nel 1993, la storia risente molto di una certa letterarietà e di una costruzione delle tavole tipiche di qualche anno prima quando, a cavallo del passaggio tra gli ’80 e i ’90, l’influenza del lavoro di Frank Miller sui giovani artisti americani raggiunge il suo apice. La realizzazione della storia risale infatti a quel periodo ma il fallimento della Comico, che si sarebbe dovuta occupare della pubblicazione, costringe Wagner a tenere l’opera già terminata nel cassetto finché la stessa DC Comics si offrì di pubblicarla.
La trama è incentrata su un complesso piano ordito da Hunter Rose, che decide di lasciare la sua “comfort zone” newyorkese e di recarsi a Gotham City per sfidare l’unico uomo che, secondo lui, può dargli filo da torcere: Batman. Nella storia i due personaggi condividono lo stesso universo, e si tratta di una sintesi narrativa particolarmente azzeccata perché, in fondo, Grendel non è altro che un riflesso distorto dello stesso Batman. Un uomo segnato da un evento traumatico che ha deciso di affinare i suoi talenti non per combattere il male, ma per votarsi ad esso.
Il piano di Rose gira intorno ad un’audace rapina al Museo di Gotham di un prezioso reperto archeologico, che viene costruito per tutto lo svolgimento della storia. Una sapiente costruzione narrativa che rende necessario l’utilizzo di un vasto numero di comprimari che finiscono per sottrarre la scena ai due protagonisti. In particolare, due personaggi femminili coinvolti da Rose come pedine del suo complesso piano, Rachel King e Hillary Perrington, diventano a tutti gli effetti le vere protagoniste della vicenda, alternandosi come voci narranti a Batman che a Grendel. Il pensiero corre alla marcata dimensione letteraria che caratterizzava la Vertigo delle origini, ai primi albi in terra americana di Neil Gaiman & Co. che la presenza di didascalie ricche di testo trasformava in vere e proprie novelle illustrate . Ma come si diceva poc’anzi, l’influenza maggiore è quella di Frank Miller, dei suoi monologhi e delle sue atmosfere noir. L’opera milleriana che Wagner tiene in maggiore considerazione è sicuramente Batman: Year One, anche per l’evidente richiamo stilistico a David Mazzucchelli, co-autore di quel capolavoro di cui Wagner mutua il tratto essenziale ed elegante, chiaramente ispirato ad Alex Toth. Dal punto della composizione delle tavole, Wagner gioca con la loro sistemazione delle vignette come nella serie principale di Grendel, incastonando le didascalie tra vignette ora più grandi, ora più piccole, prive di quel gusto raffinato ispirato all’art déco che contraddistingueva la serie madre ma che comunque sopravvive nella rappresentazione di Gotham, tipica di un noir urbano d’altri tempi.

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L’autorialità della primi mini segna il passo nel sequel del 1996, che occupa il secondo slot del volume. Stavolta Batman affronta il cyborg Grendel-Prime, il Grendel del futuro, arrivato nella Gotham del presente attirato dalla presenza delle ossa del defunto Hunter Rose nella città del Cavaliere Oscuro. Spetterà a quest’ultimo affrontare l’erede del Diavolo ed evitare che il suo piano per ritornare nella sua epoca metta a repentaglio la vita dei cittadini di Gotham City.
Tra questa storia (sempre suddivisa in due albi one-shot, Le ossa del Diavolo e La danza del Diavolo) e l’avventura precedente, uscita solo tre anni prima, passano tutti i grandi cambiamenti avvenuti nell’editoria a fumetti statunitense dopo il debutto della Image Comics. Il successo degli eroi “dopati” della "Big I" influenza l’intero settore, generando una moda e un gusto per uno stile muscolare ed esagerato, che segnerà quegli anni e che ritroviamo anche in questo secondo incontro tra Batman e Grendel. Qui lo stile di Wagner assorbe le influenze artistiche del momento e, mettendo da parte la raffinata composizione delle tavole che caratterizzava il primo incontro tra i due personaggi, l’artista si scatena con spettacolari splash-page contraddistinte da muscolarità e colori digitali lividi che sembrano uscite da un albo Image del periodo.

Due lavori completamente agli antipodi, uno più autoriale e uno decisamente più commerciale, dal cui confronto emergono interessanti considerazioni su un periodo significativo della storia del fumetto americano che rende questo volume meritevole di considerazione.

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Mike Mignola e Duncan Fegredo realizzano Giant Robot Hellboy

  • Pubblicato in News

Giant Robot Hellboy, un’idea talmente assurda da essere realtà. Mike Mignola e Duncan Fegredo tornano a lavorare insieme per realizzare l’ennesimo progetto legato al mondo di Hellboy, questa volta in versione mecha.

Ispirato ai disegni a matita dell’autore, Mignola: The Quarantine Sketchbook, Giant Robot Hellboy sarà colorato da Dave Stewart e Clem Robins, con cover di Fegredo e variant cover di Mignola e Stewart.

Nella serie limitata di tre numeri, per i tipi della Dark Horse, assisteremo allo scontro tra un Hellboy in versione gigante e alcuni Kaiju. Mignola non era partito con l’idea concreta di creare un progetto grafico ma si era limitato alla sola realizzazione di alcuni schizzi che, negli anni, con il supporto di Fegredo si sono trasformati in una progetto di prossima uscita in USA ad ottobre 2023.

Di seguito le cover diffuse in anteprima.

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Masters of the Universe: Revelation, recensione: l'He-Man di Kevin Smith a fumetti

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Grazie al colosso streaming Netflix, i Masters of the Universe stanno avendo un nuovo rinascimento. Dalla loro decade d’oro degli anni ’80, i MOTU hanno vissuto diverse vite, revival, retcon, restyling, attraverso nuove serie animate e nuove serie a fumetti, rimanendo nella “nicchia” dei fan.
Netflix, complice il suo gusto per il recupero – basti vedere la serie documentario I giocattoli della nostra infanzia, una cui puntata è dedicata gli eroi della Mattel, ma anche la presenza del cartoon originale nel suo catalogo – sono anni che ha iniziato il recupero del muscoloso eroe dal caschetto biondo e i suoi compagni d’avventura. Se, inizialmente questa operazione è iniziata con il remake di She-Ra principessa del potere, è servito l’intervento del più nerd tra gli sceneggiatori di comics e di cinema (nonché regista e produttore) Kevin Smith per passare allo stadio successivo.
Smith si è sempre detto grandissimo fan tanto dei “pupazzi” del MOTU, quanto della serie a cartone animato prodotta dalla Filmation e dei comics della Marvel allegati alle action figure. Nasce, dunque, il progetto di Masters of the Universe Revelation, una serie animata che fa da seguito a quella originale del 1983.
Ma erano tanti gli anni di storia da dover colmare. I fan, nel 1985, anno dell’ultima puntata del serial animato, avevano lasciato He-Man con un non finale dalla solita formula: una puntata di scazzottate, buoni sentimenti e paternale finale. Ma cosa è accaduto dopo?

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Smith, al soggetto insieme Rob David, prima della sconvolgente – almeno per i fan – prima puntata di Revelation mette in piedi una miniserie a fumetti in quattro numeri dal titolo omonimo per la Dark Horse Comics e portata in Italia da Panini Comics.
La storia sceneggiata da Tim Sheridan – anche autore dei testi della serie animata – è fruibile sia prima della visione di Revelation, quanto dopo e racconta un nodo centrale della vita del pianeta Eternia: l’Orlax, un essere cosmico dall’immenso potere, è stato catturato da Skeletor – nemesi per eccellenza di He-Man – e usato tanto come arma, quanto come strumento di precognizione del futuro. Il re di Eternia, Randor, nonché padre del principe Adam (alias He-Man) è stato attaccato da questa creatura e costretto ad uno stato vegetativo. Il campione del castello di Greyskull dovrà scoprire come salvare il padre e fermare i piani di conquista di Skeletor.

Questo incipit può sembrare semplice, ma lo svolgimento del racconto non lo è. Con grande coerenza, Sheridan, mette in piedi un racconto che riprende le atmosfere narrative della serie originale e costruisce un ponte verso quella targata Nerflix. Chi è cresciuto con i MOTU degli anni ’80 può godere appieno, con la maturità e la consapevolezza dell’adulto, il racconto e la stratificazione narrativa dello stesso. Non è un semplice fan service, i personaggi tanto amati vengono esplorati con maggior introspezione nelle loro caratteristiche identitarie: su tutti Skeletor che, in questo fumetto, viene tratteggiato con maggior attenzione anche nella sua subdola malvagità.

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Ai disegni c’è l’arte di Mandy Lee. La disegnatrice opera su di una doverosa ma anche difficile scelta, così come per i colori fa il colorista Rico Renzi. Difatti, allineandosi alle scelte narrative del racconto, anche il disegno deve necessariamente porsi a metà tra lo stile classico, muscolare, a linee marcate e quello della nuova serie animata. Per quanto non dissimile nelle scelte grafiche dal cartoon classico, Revelation utilizza un contemporaneo asset per la contemporanea animazione occidentale, citando quella a cui fa riferimento. Lo stesso vale per il disegno della Lee che sceglie linee semplici e pulite ma molto marcate e si concede, per l’appunto, a una sintesi cartoonesca.

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La miniserie Master of The Universe Revelation, dunque, riesce a conquistare i diversi obiettivi che si era posta: un piacere per i fan più accaniti e un grande strumento per chi si sta avvicinando al mondo multimediale dei MOTU; permette tanto la lettura adulta per i personaggi amati da bambino, quanto la lettura leggera da racconto fantasy avventuroso. Ma, indubbiamente è pensato, principalmente – come la serie animata genitrice – per chi ha già dimestichezza con il mondo dei Master: citazioni, riferimenti, approfondimenti e capovolgimenti della materia narrativa depositata in quasi quarant’anni sono un piacere per il fan di questo mondo.
La veste editoriale della Panini è sicuramente ghiotta per il collezionista che si ritroverà tra le mani un cartonato soft touch di grande cura.
Non resta che tornare bambini, ma con gli occhi dell’adulto, e lasciarsi trasportare nel mondo parossistico, contraddittorio ma fortemente iconico e affascinate dei Dominatori dell’Universo per poter leggere e, così, riascoltare con la voce della memoria, il nostro He-Man pronunciare: “A me il potere!”.

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Black Hammer/Justice League - Il Martello della Giustizia, recensione: giocare con gli archetipi

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Quando Black Hammer fece la sua comparsa sugli scaffali dei comic shop nel 2016, fu evidente come il suo creatore Jeff Lemire stesse portando la fiaccola del decostruzionismo e della metatestualità nel fumetto di supereroi contemporaneo. Collocatosi sul solco di classici moderni come il Supreme di Alan Moore e Astro City di Kurt Busiek e Alex Ross, Black Hammer è un fumetto in cui il genere supereroistico riflette su se stesso e sui suoi meccanismi ben conosciuti dal suo autore che è un fan sfegatato del genere stesso. Ne abbiamo parlato più volte in passato, sottolineando come Black Hammer sia prima di tutto un omaggio commosso di Lemire alle sue letture d’infanzia, di cui si avvertono potenti gli echi in ogni vignetta.

Già la vicenda in sé, che racconta di un quintetto di eroi che, impegnati a sventare una crisi dimensionale causata dal malvagio Anti – Dio, scompaiono improvvisamente dalla metropoli Spiral City finendo per essere ritenuti morti, ricorda un evento chiave della storia del fumetto americano come Crisi sulle Terre Infinite. Se nella saga spartiacque della storia della DC Comics gli eroi della Golden Age sacrificatisi durante la battaglia finale contro l’Anti – Monitor sopravvivevano in una sorta di “dimensione tasca”, in Black Hammer gli eroi scomparsi riappaiono nella contea di Rockwood, in una provincia rurale dimenticata da Dio dove i supereroi non sono mai esistiti. L’ambiente campagnolo diventa così il limbo in cui gli eroi si ritrovano esiliati loro malgrado, costringendoli a svestire le calzamaglie per accettare una nuova esistenza agreste, lontana dalla gloria che fu, riservata solo a fulminanti flashback. Memorie di imprese epiche lontane nel tempo in cui il lettore può rintracciare echi delle proprie letture d’infanzia. In questo gioco di riferimenti sparsi, una caccia al tesoro metatestuale che costituisce la cifra stilistica che caratterizza l’opera, i lettori potranno facilmente riconoscere nei protagonisti l’omaggio di Lemire ad alcuni dei personaggi classici della DC Comics: se Abraham Slam si rifà tanto ad Atom e a Wildcat della Justice Society of America, Golden Gail richiama Shazam, Barbalien fa pensare al Martian Manhunter della Justice League, Il Colonnello Weird è un omaggio alle avventure sci-fi di Adam Strange mentre dietro Madame Dragonfly si cela la Madame Xanadu delle testate horror DC degli anni ’70.

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Dopo aver deliziato il lettore con quattro volumi (e numerosi spin-off) pieni di omaggi e strizzate d’occhio al genere supereroistico, il passo successivo compiuto dall’autore è stato quello di ospitare tra le pagine della sua serie, che è un’analisi del genere stesso, i simboli per antonomasia del comicdom, ovvero Superman, Batman e i colleghi della Justice League. Una scommessa azzardata, quella di rendere scoperto il gioco di rimandi per iniziati che ha caratterizzato Black Hammer finora, contaminandolo con le icone reali del fumetto di supereroi, che si rivela però vincente grazie alla verve narrativa di Lemire. Dando per scontato che il lettore conosca i personaggi della sua fortunata opera, l’autore mette in scena un team-up insolito fra i suoi esuli e la Lega più celebre della storia del fumetto, partendo non da un classico incontro ma da uno scambio di ruolo: grazie all’intervento di un misterioso personaggio magico, che sembra poter passare da un universo all’altro senza problemi, i due supergruppi si ritrovano improvvisamente uno nell’habitat dell’altro. Così Abe e i suoi si ritrovano catapultati a Metropolis sostituendo la League durante una dura battaglia contro Starro; intanto, Batman, Superman, Wonder Woman, Cyborg e Flash prendono il loro posto nella quieta contea di Rockwood. Mentre gli esuli di Black Hammer vengono affrontati da Aquaman, Hawkgirl, Martian Manhunter e il resto della Justice League, che li crede responsabili della scomparsa dei loro amici, a Rockwood Bruce, Clark, Diana e gli altri vivono un’esistenza rurale nella loro fattoria dove trascorrono dieci anni, a causa di una bizzarra anomalia temporale. Ma forse le cose non stanno proprio così, e la rivelazione dell’identità del misterioso (ma non troppo) villain porterà la vicenda verso una risoluzione da classico team-up.

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Black Hammer/Justice League: Il Martello della Giustizia è una deviazione godibile e fracassona dalla narrazione principale dell’epopea citazionista di Lemire, nata dall’ evidente desiderio dell’autore di far incontrare le sue creazioni con molti degli archetipi che li hanno ispirati, vedi i siparietti tra Barbalien e Martian Manhunter, l’incontro tra Madame Xanadu e Zatanna, o quello tra il Colonnello Weird e gli eroi spaziali per eccellenza dell’universo DC, il Corpo delle Lanterne Verdi. Il risultato è quello di un’opera meno centrata della serie principale dal punto di vista del rigore formale e del citazionismo, ma che rimane comunque all’insegna dell’intrattenimento di qualità e della forte cifra autoriale tipica dell’autore.

In assenza del disegnatore titolare di Black Hammer Dean Ormston, l’onere delle matite è affidato a Michael Walsh, autore di provenienza indie che, seppur dotato di un tratto più realistico di quello del collega, riesce a mantenere una continuità stilistica con l’opera principale all’insegna di uno storytelling semplice ma non privo di efficacia, all’insegna dell’anti – spettacolarità. Una scelta insolita per un crossover tra supereroi, che ne denuncia ulteriormente la vocazione autoriale.

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Black Hammer/Justice League: Il Martello della Giustizia viene presentato da Panini Comics in un pregevole cartonato da libreria, corredato da preziosi extra tra cui le numerose copertine variant dell’edizione statunitense e i bozzetti di Walsh, che si segnala soprattutto per gli ottimi redazionali di Andrea Gagliardi, indispensabili per inquadrare l’opera nel contesto decostruzionista a cui appartiene e per il prezioso approfondimento critico.

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