La storia della cultura pop è attraversata da esempi di collaborazioni irripetibili tra creativi geniali che, dopo aver sfornato capolavori, si sono separati in modo traumatico e astioso. L’esempio più celebre è quello della rottura tra Stan Lee e Jack Kirby, responsabili, grazie alla loro alchimia creativa, della nascita dell’universo Marvel. Ma Kirby non fu l’unica figura rilevante della Marvel degli esordi ad entrare in rotta di collisione con Lee: il rapporto del sorridente con Steve Ditko, disegnatore nonché co-creatore di Spider-Man, non fu meno turbolento. Dopo anni di divergenze creative, il punto di non ritorno arrivò nel 1966, quando Ditko lasciò Amazing Spider-Man e la Marvel. A dividerlo da Lee, oltre a scelte non condivise sugli sviluppi narrativi e sul tono da imprimere alla testata, anche una differente visione della vita. Se Stan era un ardente liberale, Ditko al contrario era un convinto sostenitore dell’Oggettivismo, una teoria filosofica di stampo conservatore fondata dalla filosofa e scrittrice russa-statunitense Ayn Rand secondo cui l’uomo deve vivere solo per sé, senza sottostare ad altri e senza costringere altri a sacrificarsi per il bene altrui.
Le convinzioni etico-morali di Ditko ben si riflettevano nelle storie di Mr. A, personaggio di sua proprietà creato dopo aver lasciato la Marvel, nel cui nome veniva sintetizzato il principio di identità postulato dalla Rand. Indossando completo e fedora, come i detective della tradizione noir, Mr. A annunciava il suo arrivo tramite l’uso di carte bianche o nere, suggerendo così che esistono solo il bene ed il male, senza zone di grigio. Il personaggio era troppo violento per le maglie stringenti del Comics Code, così Ditko ne produsse una variante più accettabile per il lettore medio. Fu così che The Question debuttò nel 1967 in appendice a Blue Beetle, testata che l’ex artista di Spider-Man stava realizzando per la Charlton Comics. Con Mr. A, Question condivide completo e fedora, oltre ad una visione della vita manichea che lo porta a combattere il crimine con una dedizione inarrestabile. Al contrario degli eroi Marvel, attraversati da dubbi e tormenti, l’alter-ego del giornalista Vic Sage sa cosa è giusto e agisce di conseguenza. Con il viso coperto da una maschera di pseudo-derma, creazione del suo mentore Prof. Rodor che lo rende un uomo senza volto, Question combatte la corruzione nella decadente Hub City.
Dopo l’acquisizione dei personaggi Charlton da parte della DC Comics, negli anni ‘80 il personaggio riappare in Crisis on Infinite Earths, ispira il Rorshach di Watchmen e, soprattutto, è protagonista di una collana firmata da Dennis O’Neil e Denys Cowan che diventa rapidamente una hit di quegli anni, attraversati dalla fascinazione dei lettori per i vigilantes dai metodi spicci. O’Neil ripensa il personaggio per il nuovo decennio, cambiandone le motivazioni di base: dall’oggettivismo degli inizi si passa a filosofie di matrice orientale come il pensiero zen. È a questa versione che si rivolge l’omaggio di Jeff Lemire nella nuova miniserie dal titolo Question: Le morti di Vic Sage.
L’etichetta Black Label in cui è inserita consente agli autori di sfuggire alle maglie strette della continuity, così questa nuova avventura sembra ignorare la morte del personaggio avvenuta nella maxiserie 52 e la versione misticheggiante apparsa nel reboot New 52. Piuttosto, si pone come sequel spirituale della serie originale, di cui conferma ambientazione e cast di supporto, anche se alcune modifiche fanno pensare ad una sorta di soft reboot. Question, che opera ancora nella degradata e violenta Hub City, riesce a smantellare un giro di prostituzione minorile in cui è coinvolto Max Ford, consigliere comunale della giunta presieduta dal corrotto sindaco Fermin. Il potente politico è da tempo nel mirino non solo del vigilante, ma anche del suo alter-ego Vic Sage, che cerca di convincere la sua vecchia fiamma Myra Fermin della natura criminale del fratello. Dopo aver appreso dell’esistenza di una vecchia loggia massonica, a cui potrebbero essere affiliati uomini di fiducia del sindaco, Vic comincia un’indagine che lo porta in una grotta segreta nascosta sotto la città. Qui trova le ossa di un uomo ucciso molto tempo prima, con accanto una maschera di pseudo - derma come quelle da lui indossate, che gli procura visioni di vite passate. Per risolvere il mistero, Sage dovrà ricorrere all’aiuto del suo vecchio mentore zen Richard Dragon, a cui lo lega un rapporto controverso.
Del prolificissimo Jeff Lemire si dice che i suoi lavori più ispirati siano quelli creator-owned piuttosto che quelli realizzati per le due major del fumetto statunitense. Vero solo in parte: il tema dell’identità personale e della ricerca di se stessi è un leitmotiv che attraverso tanto lavori personali come Essex County, Il Saldatore Subacqueo e Niente da perdere quanto lavori su commissione come il Moon Knight della Marvel. E se il suo splendido Black Hammer era una sorta di sbobinamento terapeutico delle sue letture di infanzia, anche Question: Le morti di Vic Sage non sfugge a quella meta – narrazione che è la cifra stilistica tipica dello scrittore. Si tratta della rilettura di un classico evidentemente molto apprezzato da Lemire, il Question di Dennis O’Neil, di cui lo scrittore rievoca le atmosfere hard boiled richiamando in servizio il team artistico originale: Denys Cowan, autore dei disegni della maggior parte di quei 37 numeri, e il maestro Bill Sienkiewicz, responsabile della prima, iconica cover della serie. L’incipit della storia, in cui Question irrompe nel bordello, ripropone la netta distinzione tra il bene e il male tipica delle storie di Ditko (C’è il bene, c’è il male, e se non sei sicuro da che parte stai allora è probabile che tu sia da quella sbagliata). Una rigidità costruita su certezze destinate a vacillare nelle pagine successive, che sfociano nel cliffhanger finale.
Lemire gioca abilmente sui contrasti forniti dall’opportunità di poter scrivere il più intransigente dei giustizieri, inserendolo però in un’epoca complessa come la nostra, contraddistinta dalla manipolazione mediatica della realtà (vedere la sequenza in cui il sindaco Fermin distorce a suo vantaggio il caso di cronaca relativo all’omicidio di un uomo di colore, richiamo all’attualità del Black Lives Matter). Il manicheismo del giustiziere diventa così uno strumento obsoleto, un attrezzo anacronistico che non consente più di decifrare il presente, scatenando una crisi d’identità il cui esito sarà chiarito solamente nei prossimi numeri. La stessa scelta di richiamare Cowan alle matite è una dichiarazione d’intenti: le sue matite sporche, caratterizzate da un tratteggio grezzo e ruvido ulteriormente esaltato dalle chine di Sienkiewicz, comunicano come nessun altro il senso di smarrimento del protagonista, le cui certezze traballano pagina dopo pagina. Uno spaesamento provato dallo stesso lettore, a cui sembra inizialmente di leggere una nuova storia del Question di Dennis O’Neil salvo poi trovarsi impelagato in qualcosa di completamente diverso. È su questa dicotomia che si gioca l’ottima riuscita di questo primo numero e su cui, prevedibilmente, Lemire costruirà l’architrave delle prossime uscite.