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Wolverine MAX 1: Rabbia permanente

Di cosa parliamo quando parliamo di MAX, verrebbe da dire, a scomodare Carver.
La linea adulta della Marvel, nata come risposta all’etichetta Vertigo, ha prodotto negli anni opere non altrettanto degne della sussidiaria DC, dando alle stampe materiale eterogeneo che ha (o almeno dovrebbe avere) come denominatore comune tematiche adulte e storie non adatte al pubblico adolescenziale. La peculiarità dell’etichetta è sempre stata la qualità ondivaga dei testi: per ogni Alias c’erano almeno quattro U. S. War Machine o Trouble e nel complesso la linea, quando ha dato i suoi frutti, lo ha fatto con creazioni inedite o rilavorando personaggi che avevano perso di mordente. Negli anni, poi, complice anche la caduta della Comics Code Authority, l’organo di censura staunitense che dettava legge su cosa era rappresentabile nei fumetti, l’esistenza della linea MAX è stata messa in discussione e il confine si è fatto sempre più incerto.

Wolverine MAX è senza dubbio figlia di queste due considerazioni. Il volume, contenente la prima saga “Rabbia permanente”, introduce una presunta versione alternativa del personaggio, riportandolo alle sue origini - uomo senza ricordi che inizia a scoprire a poco a poco la sua reale identità - che però è esattamente uguale a quella classica (escludendo di fatto qualsiasi fan di Wolverine). Jason Starr, romanziere di mestiere, sconta il passaggio al mezzo letterario-visivo, maneggiando in modo goffo i due livelli di lettura, con una narrazione a volte ridondante rispetto alle immagini, e arrivando a scene involontariamente comiche (la didascalia «Questo tizio ha gli occhi di un uomo che ha già ucciso» che accompagna il primo piano inespressivo di un lottatore di sumo in coma da post-penichella); di certo non deve aver letto molti fumetti in vita sua: sceneggia Wolverine con ignoranza - Logan che perde le gambe a pagina 11 è una palese mancanza di fondamentali - e ignavia pura, ricalcando senza inventiva tutti gli stilemi del caso, dall’ambientazione ai comprimari (davvero non ci si rende conto che per scrivere uno scontro tra Wolverine e Sabretooth ci vuole qualcosa di più che una spada e qualche riferimento al loro legame di sangue?); avrebbe potuto prenderli, deformarli con la violenza e l’ironia, rovesciarli di senso, far deflagrare la comune percezione del lettore nei confronti dei personaggi. E invece no. Peccato, perché la prima manciata di pagine faceva ben sperare: Wolverine sente di dover «uccidere sempre», come posseduto da un rabbia permanente, fisica, viscerale, che non molla la presa e già ci si sfrega le mani in previsione della carneficina che farà per raggiungere i suoi obbiettivi, mettendo a dura prova la sua morale, la sua coscienza, o, al contrario, si freme per una discesa straziante nella psiche di un assassino messo davanti all’impossibilità di fare quello che gli riesce meglio, rendendo la rabbia sul piano mentale, come una continua e infruttuosa caccia ai proprio ricordi. Entrambi gli estremi sarebbero stati percorsi interessanti da sviluppare, ma a Starr non passa per l’anticamera del cervello di scegliere una delle due strade: il conflitto tra istinto e morale è appena accennato nei flash-back e tutto quello che si vede è un Wolverine che va dal punto A al punto B senza nemmeno troppa convinzione e che qualche volta affetta uno con gli occhi a mandorla. Insomma, un'opera che non funziona nemmeno come lettura introduttiva ai neofiti.
 
A peggiorare il papocchio ci pensa il comparto grafico, che in realtà qualche idea visiva la tira fuori (il corbeniano Connor Willumsen che mette in relazione la nodosità degli alberi con l’aggrovigliamento di vene e peli sul braccio di Wolverine, Felix Ruiz che disegna flash-back alla Sienkiewicz ultima maniera, con la stampa sul vestito di Mariko che sfuma nell’impressionistico) e le copertine di Jock sono apprezzabili, ma è poca roba se poi il resto del volume te lo disegna Roland Boschi, uno che sulla prospettiva e la coerenza tra vignette (la faccia di Wolverine che cambia, la barba attorno alla bocca che appare e scompare) ha poche idee e ben confuse.

Wolverine MAX è il nadir creativo dell’etichetta. Gli elementi “adulti” sono il più delle volte gratuiti (e se proprio devi metterci una scena in uno strip club solo per il gusto di farlo, almeno falla fare a qualcuno che non disegni le donne come tronchi di legno con le tette) e non c’è alcun approccio maturo al personaggio. A dimostrazione di ciò, tolte un paio di tavole, questa serie poteva essere pubblicata nel parco generalista della Marvel senza problemi. Non bastano le pezze del colpo di scena finale, discreto ma inscenato coi piedi, per fermare l’emorragia qualitativa di un titolo crivellato da tavole confusionarie (la colpa, non conoscendo le art notes di Starr, va divisa a metà tra lui e Boschi) e sviste veniali (la tomba di Mariko che passa da “1836-1912” a “1846-1921”). Se il romanziere continuerà a gestire la serie in questo modo, le prossime saghe saranno soggette agli stessi errori di fondo. Ma per ora è certo che l’unica, vera, “rabbia permanente” che si sperimenterà è quella conseguente alla lettura di questo volume.

Dati del volume

  • Editore: Panini Comics
  • Autori: Testi di Jason Starr Disegni di Roland Boschi, Felix Ruiz e Connor Willumsen
  • Formato: brossurato, 17x26 cm., 112 pp., colori
  • Prezzo: 12,00 €
  • Voto della redazione: 2
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