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Justice 1-6

Justice 1-6Sceneggiare storie, pensare trame che sappiano guardare avanti senza sentire troppo il peso delle radici. È l’obiettivo di molti autori ed editori, ma non tutti lo raggiungono davvero. La DC Comics non sempre ci riesce, con i suoi fumetti che troppo spesso preferiscono evitare di osare. A volte manca quel coraggio, non si accende quella lampadina che potrebbe dare nuova luce ai supereroi.

Poi ci sono le eccezioni, e Justice è una di quelle. Peccato sia una storia a sé, e che a intaccare la continuity non ci pensi nemmeno. Peccato, perché l’idea di fondo è davvero potente. Jim Krueger e Alex Ross inventano il solito complotto tra supercriminali ai danni degli eroi e di noi poveri umani. Ma questa volta c’è di più. Lo schema è grande, e crea danni veri (forse). Si rovescia il significato della parola “giustizia”, e si arriva quasi a credere che per una volta saranno i cattivi ad avere la meglio. Ammesso che i cattivi siano davvero quelli che pensiamo noi.

A metà strada una mezza virata. La profondità della prima fase, quella in cui s’imposta la grande macchinazione, finisce per essere smorzata dal bisogno inevitabile di sbrogliare la matassa. Il tono solenne dell’inizio si conserva più nella forma che nel contenuto. Testi epici, riflessioni sull’essere eroi in una serie di soggettive multiple. Monologhi interiori che accompagnano l’azione, e che rendono tutto molto didascalico, forse perché le parole coprono un po’ i fatti, che in fondo grandi scosse non riescono a darne.

Justice prova a rovesciare i ruoli tra supereroe e villain, tra bene e male. È una miniserie che va alla radice di un genere, e ne ricrea uno spaccato coraggioso e profondo. La cui forza, però, sta più nel senso che nel suo effettivo svolgimento.

Doug Braithwaite e Alex Ross sono gli autori di tavole che non possono non arrivare dritte agli occhi. Artisti di pregio, che però si confermano più adatti a cover e a illustrazioni di ampio respiro, piuttosto che a vignette più piccole che negli spazi chiusi soffocano un po’. Mentre le splash page tolgono il respiro a chi le guarda.


Simone Celli
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