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Superman: Red Son

Superman: Red SonNella (quasi) sempre sfiziosa panoramica delle storie alternative che riguardano la narrativa supereroistica, e nello specifico gli Elseworld targati DC, il 2003 regalò ai fan Superman: Red Son. Questa miniserie in tre parti partiva da un presupposto piuttosto stimolante, chiedendosi cosa sarebbe successo se il razzo di Kal-L fosse atterrato in un Paese satellite dell’Unione Sovietica piuttosto che negli Stati Uniti d’America. E proprio la domanda di partenza costituiva l’elemento di particolare fascino insito nella storia: Superman in fondo è il personaggio americano per eccellenza, il portatore puro di tutti quei valori positivi che caratterizzano gli USA dentro e fuori i confini nazionali. Ribaltare il concetto facendo di Superman il campione del campo avverso, farne il figlio di quell’“Impero del Male” che per una questione morale e filosofica non poteva che confliggere con la visione americana, apriva a una serie di potenziali scenari e spunti di riflessione alquanto interessanti.

In tal senso, il fatto che a scrivere la storia fosse Mark Millar, uno degli scrittori più a suo agio con tematiche politiche (intese in senso lato), era una marcia in più. Il Superman comunista tratteggiato da Millar è infatti un personaggio sofisticatissimo nella sua estrema semplicità. Pur opposto all’originale, riesce ad essere lo stesso identico personaggio: come il Superman classico rappresenta il meglio del Sogno Americano, purificato dalle sue contraddizioni intrinseche, l’Uomo d’Acciaio sovietico è il portatore di tutti i valori positivi di uguaglianza, solidarietà ed emancipazione propri dell’ideale socialista (valori poi divorati nella declinazione concreta del socialismo reale staliniano). Insomma, Superman rimane un protettore, il difensore della “gente”, riluttante a diventare un semplice soldatino in mano ai governi e con aspirazioni universalistiche.
E, nello stesso modo, Millar reinventa una quantità considerevole degli elementi classici di Superman e della DC in generale, riuscendo a calarli nella storia in maniera organica.

È però a questo punto che Millar sembra perdere l’occasione. Trascinato dal procedere della storia e dalla voglia di inscenare lo scontro Superman/Luthor, lo scrittore perde di vista le potenzialità di uno sviluppo a tutto tondo del Superman comunista, della sua caratterizzazione e delle sue convinzioni: la storia toglie l’accento da “Red Son” e torna a porlo su “Superman”, vanificando l’opportunità di raccontare davvero la vicenda di un supereroe socialista. L’attenzione si sposta invece su temi più familiari a Millar e già visti in molteplici altre occasioni, vale a dire la degenerazione del ruolo del supereroe, la corruzione e la distorsione del suo ruolo di essere potente. Non che la riflessione in sé non possa essere interessante, ma questa nuova direzione fa perdere alla storia la sua peculiarità, rendendola l’ennesimo, piccolo capitolo di un discorso che da Watchmen ai giorni nostri non si è ancora interrotto: un capitolo di cui non si sente tutto questo bisogno, e che comunque porta a chiedersi quale fosse la necessità dell’ambientazione sovietica, passata di fatto in terzo piano.

Va comunque detto che Red Son risulta una lettura piacevole, una storia in sé ben architettata e capace di restituire situazioni e personaggi familiari in un contesto nuovo e strano. Anche in questa occasione Millar non rinuncia ad alcune delle sue ormai consuete esagerazioni stilistiche e narrative, e a tratti certe scelte sembrano sfondare un po’ nel grossolano, ma tutto sommato l’impianto generale è solido e non si ravvisano particolari stonature.
Alla parte grafica, i primi due capitoli disegnati da Dave Johnson costituiscono un gustosissimo esempio di bravura, di grande efficacia soprattutto nella resa delle ambientazioni storiche e geografiche, capace insomma di dare atmosfera alla narrazione. Non allo stesso livello Kilian Plunkett, comunque a sua volta piacevole e tutt’altro che disprezzabile.


Valerio Coppola
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