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John Doe 67

John Doe 67Dopo essere stato l’aiutante in fuga della Morte, dopo essere morto, tornato in vita e diventato la nuova incarnazione della Grande Consolatrice, John Doe giunge con questo numero allo scontro finale con il suo potentissimo figlio Mordred, assassino suo, dei suoi amici e della sua sposa Autumn. L’albo in questione è un lungo e deflagrante scontro con il quale questa serie apre un nuovo arco narrativo, alzando il tiro e impostando come villain Dio stesso, qui ritratto nelle sembianze di un antipatico e pavido vecchietto hippy.

Tra tutte le serie a fumetti italiane, John Doe è uno dei pochissimi titoli (citiamo giusto Gea di Luca Enoch) a poter vantare un’evoluzione così atipica e progressiva del suo protagonista, il quale affronta trasformazioni definitive lungo un sentiero composto da varie run narrative unite dal filo comune dell’avventura "on the road". Fin dal suo primo numero, infatti, John è stato inteso come un personaggio in costante movimento, sia materiale che concettuale: prima uomo in fuga per le vie d’America, poi vagabondo senza memoria e adesso cavaliere solitario (o quasi), non più umano, in una terra devastata che ricorda le atmosfere del ciclo La Torre Nera di Stephen King.

Le lacune principali di questa serie sono costituite da un certo debito di idee verso altri autori e dal sovrabbondante citazionismo. In questo, risultano evidenti i limiti della coppia Lorenzo Bartoli/Roberto Recchioni, titolari di buone intuizioni narrative mai espresse fino in fondo, con cognizione di causa e rielaborazione innovativa. Il loro John Doe costituisce sicuramente una buona lettura d’intrattenimento, ma non riesce ad andare oltre il semplice svago a causa di una superficialità di contenuti che alla fine non lascia niente al lettore, dopo aver chiuso l’albo. Ed è un peccato, visto l'interessante incipit ed i periodici, sconvolgenti, cambiamenti del suo status quo (compreso il coraggioso annullamento di quasi tutto il cast di comprimari) che, purtroppo, rimangono sempre un po' sospesi e mai approfonditi a pieno.
Su questo pesa anche, da parte di Recchioni, il non riuscire a scrivere dialoghi naturali, efficaci nella sostanza e nella forma, andando oltre una serie di frasi ad affetto poco realistiche e caratterizzate da un mero citazionismo, per lo più cinematografico, che – come in questo numero - diventa un esercizio vuoto e ridondante.

Aldilà di pecche e lacune, il livello medio di questa serie resta comunque discreto, ed aver mantenuto una qualità costante per settanta numeri è un buon risultato, visto che quasi sempre la longevità di una testata è la principale nemica della freschezza narrativa.
Sul piano grafico, molto efficaci e catartiche le tavole di Maurizio Rosenzweig, un disegnatore sicuramente destinato ad una lunga e proficua carriera, il cui tratto ricorda molto quello di Carlos Meglia (Cybersix).


Paolo Pugliese
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