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Promethea 5

Promethea 5Ci sono storie che già si sanno, solo che nessuno le aveva mai raccontate. Come una cosa nel buio che è già lì, magari avvertita, ma non veduta. In quei casi basta illuminarla, basta portare la luce e la consapevolezza. In questo, Promethea già dal nome è programmatica: è un canale in cui si riversa la narrazione di qualcosa che va semplicemente afferrato, nella sua finta verità o nella sua finzione vera, che dir si voglia. È un riflesso che replica le fattezze fisiche e metafisiche di chiunque vi si ponga a confronto. Un riflesso di noi stessi che è una riflessione su noi stessi.

Promethea permette di andare in profondità, oltre lo strato superficiale delle cose. Ma per raggiungere tali profondità il movimento non è verso il basso, bensì verso l’alto: è una costruzione continua, l’invenzione di una struttura simbolica evocativa che riflette sopra ciò che è sotto, di là ciò che è di qua, fuori ciò che è dentro.
Con i suoi consueti ritorni simbolici e numerici, Alan Moore conclude così un lungo viaggio iniziato quasi anonimo, e che a tradimento ci ha indotti in un excursus magico-filosofico per le vie della Cabala, dell’Albero della Vita, nei cieli metafisici e tra le più fetide pozze cromosomiche fatte di DNA, serpenti e seme umano. Con un ultimo virtuosismo, l’autore mette in scena l’Apocalisse, traducendo in pratica quella via verso la divinità che nei volumi precedenti era parso mero racconto metaforico. Una fine del mondo che non è fine dell’esistenza concreta, ma fine dell’Io. In questo senso è casomai l’inizio dell’“e-sistenza”, dell’essere fuori da sé, dell’Io che diventa Universo e smette di essere un’isola, un atomo.

La tanto chiacchierata magia di Alan Moore è tutta qui, e Promethea ne è il manifesto. Magia è l’avere una visione universale, intera, della realtà dell’uomo, il saper capire che il mondo non è un accostamento di elementi, ma una canzone creata dalla nostra mente, dal nostro linguaggio, dal nostro corpo. Ogni cosa è riconducibile ad un unico, essenziale principio: tutto ciò che è, è in quanto da noi percepito. Il mondo ha la forma filtrata della nostra percezione, intrisa di simboli che non nascono da noi, ma che noi riconosciamo e ricreiamo di continuo. Ecco perché ogni io diviene Universo.
Proprio questa magia, questa capacità di connettere l’impensabile, fa di Moore il grande artista che è, lo sciamano della parola, dell’immagine, del fumetto. Egli è sempre in grado di sorprendere, di ricombinare e reimmaginare il medium e i suoi linguaggi in maniere ogni volta nuove eppure così antiche.

La manipolazione del medium fumetto, l’esplorazione dei suoi campi vergini e delle sue potenzialità espressive, delle sue molteplici forme così dense di significato, delle sue multiformi ricombinazioni di immagine e parola: tutto questo è il genio di Moore. Ma nulla di tutto ciò sarebbe stato neanche lontanamente possibile senza l’arte di J.H. Williams III, il vero complemento di Moore. Williams III riesce a concretizzare le difficili fantasie dello scrittore con una cura, un gusto, una capacità immaginativa e un’intelligenza davvero rari. In un’opera in cui immagine e parola sono così strettamente avvinghiati, sovrapposti e uniti, il connubio tra i due autori è felicissimo, quasi fossero la stessa persona. Lo stile del disegnatore è colmo di senso, varia a seconda di ciò che deve raccontare riuscendo a trasmettere sensazioni, atmosfere e concetti. Le tavole, soprattutto negli episodi centrali della serie, sono qualcosa di straordinario: vignette e scene inglobate in splash page avvolgenti, un flusso di informazioni e azione simile a un sogno, senza soluzioni di continuità.
E come testo e disegno non sono in nessun modo separabili, così anche per i colori di Jeromy Cox e José Villarubia, che dimostrano un’efficacia e una piacevolezza tutt’altro che scontati.

Promethea non è una lettura semplice. Richiede attenzione e comprensione, richiede la capacità di spogliarsi delle proprie convinzioni assolute per lasciarsi trasportare: richiede la voglia di uscire dal proprio cantuccio caldo e sicuro per avventurarsi in un viaggio meraviglioso e per certi versi spaventoso. Il compito che ogni opera d’arte dovrebbe assolvere per essere tale trova qui piena soddisfazione: riuscire a porre e far porre delle domande, e parlarci di qualcosa che già abbiamo dentro, al buio.
Oppure si può leggere Promethea come una stramba e sfiziosa avventura, fa lo stesso.


Valerio Coppola
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