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666 Satan 1

666 Satan 1Lo dicono i fatti, ma lo conferma pure lo stesso editore: quando Dragon Ball incontra Naruto, arriva 666 Satan. Una sommatoria che pecca di troppo semplicismo, ma che meglio di tante altre equazioni riesce a far emergere pregi e difetti del primo manga firmato Seishi Kishimoto.
 
Dall’opera sempreverde di Akira Toriyama vengono prese in prestito alcune idee per la scelta degli attori principali. Un ragazzino bizzarro ed impulsivo incontra un ragazza poco più grande di lui, e tra loro nasce un rapporto di amicizia misto a intolleranza, con tutte le esilaranti manifestazioni di collera che ne conseguono. Poi i personaggi di contorno, altrettanto strambi e pittoreschi, la presenza di un grande potere, a sua volta legato a misteriosi oggetti da recuperare.

Sorvolando sulle analogie tra i due rispettivi protagonisti, per individuare la più evidente affinità tra Naruto e il lavoro di Kishimoto è sufficiente un colpo d’occhio alle tavole. O, ancora meglio, al cognome dell’autore. Trattasi nientemeno che del fratello, per di più gemello, di quel Masashi Kishimoto che ha fatto la sua fortuna proprio inventando la storia del giovane ninja e dei suoi compagni. Parentela che spiega, o almeno dovrebbe, la similarità del tratto.

La JPOP, consapevole di avere per le mani una potenziale gallina dalle uova d’oro, ha giustamente scommesso sull’appeal del nome in copertina, della tipologia dei personaggi e di quella dell’intreccio, gettandosi in un battage promozionale degno di una major. Un’operazione aggressiva ed oculata (geniale l’idea del prezzo di lancio a 1€ del primo numero, se acquistato entro fine giugno) che cavalca l’onda di un genere manga che sta spopolando in tutto il mondo, e che proprio in Dragon Ball e Naruto trova i suoi più grandi successi: lo shonen.

Tutto qui? Possibile che dietro 666 Satan 1 ci sia solo la potenza del marketing? Probabilmente no, e sarebbe superficiale banalizzare la storia di Jio e Ruby, comunque ricca di spunti intriganti, presentandola come un’accozzaglia di idee trite e ritrite. Perché tra le pagine si prova quel “sense of wonder” che solo i migliori riescono a trasmettere, e soprattutto si percepisce che c’è qualcos’altro in arrivo. Qualcosa di più, ma non è dato sapere cosa. I restanti diciotto numeri potranno confermare o smentire questa impressione, decretando se Kishimoto sarà riuscito a innovare un genere o se sarà rimasto imbrigliato tra tutti i suoi stereotipi. In entrambi i casi, dicono i primi exit poll, ci saremo comunque divertiti.


Simone Celli
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