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La ballata di Halo Jones

La ballata di Halo JonesVerso la seconda metà degli anni ’80 Alan Moore lavorava molto con le distopie. Probabilmente lo faceva perché il modo più efficace per raccontare, criticare, o anche interpretare qualcosa, è trasfigurandolo in qualcos’altro che ne parli per vie traverse, se non a livello inconscio. E così Moore spostava spesso lo scenario in futuri pessimistici: lo fece con Watchmen, con V for Vendetta, e lo fece con La ballata di Halo Jones.

Nel caso di quest’ultima, lo scrittore di Northampton non si limita a viaggiare nel tempo, ma si sposta anche nello spazio. Sempre nell’ottica della metafora, l’incontro con situazioni aliene è l’espediente perfetto per parodiare la società odierna e offrire spunti di riflessione: Moore offre la visione di mondi strani, altri, rispetto ai quali il lettore può confrontarsi e porsi con atteggiamento critico. Salvo poi, una volta decodificata più o meno coscientemente la rete di simboli della metafora, rendersi conto che quel mondo non è altro che il suo.
La metafora più ampia di questa storia, quella che ne costituisce di fatto la linea narrativa di fondo, è la stessa che ha fatto parlare di questo fumetto come un’opera femminista. Le continue avventure di Halo nello spazio, la sua perpetua ricerca di qualcosa di indefinito, di un posto in cui sentirsi piena e realizzata, ci parlano dell’emancipazione della donna molto più di quanto non faccia un certo femminismo, che fraintende se stesso fino a interpretarsi come sostituzione della donna all’uomo (quasi una trasformazione dell’una nell’altro). L’emancipazione di cui parla Moore è invece qualcosa di più sottile e sostanzioso: è un continuo uscire, un eccedere dai limiti della situazione imposta e cercare spazi che possano davvero essere sentiti come propri.

Da questo punto di vista, la stessa struttura della storia è chiara ed esplicita. I tre libri che compongono l’opera sono altrettanti cerchi concentrici da cui la protagonista tende a uscire e liberarsi. Ogni volta, dal cerchio più piccolo del primo libro, a quello più ampio del terzo, Halo rischia di rimanere invischiata e senza via d’uscita. Ma ogni volta trova il modo, la forza, o anche solo la necessità, per andare oltre, per conquistarsi un altro pezzo di libertà, e per continuare a cercare il senso della propria esistenza, del proprio essere donna. In tal modo questa struttura narrativa risulta davvero una ballata: tre libri che corrispondono a tre strofe, con altrettanti ritornelli costituiti dal ripetersi progressivo della liberazione dal cerchio. Anche la suddivisione interna dei libri dà il senso di una qualche metrica che percorre l’opera.

Moore non risulta banale neanche nel raccontarci tutti i mondi in cui Halo si trova ad agire. La narrazione del futuro non è affidata a cronache didascaliche o ai classici flashback. Anzi, non viene proprio detto come si sia arrivati a quel cinquantesimo secolo. Eppure il lettore lo intuisce grazie al raffinato lavoro linguistico che l’autore intesse nei dialoghi: lo scarto tra il nostro modo di parlare e quello dei personaggi, l’evoluzione dei termini e delle espressioni, contiene già tutto lo svolgimento della storia di quella civiltà. Allo stesso modo, lo scrittore conferisce concretezza ai vari mondi alieni inserendovi tanti piccoli dettagli, anche quotidiani, apparentemente insignificanti. In entrambi i casi, ne risultano mondi che vivono, dotati di una profondità storica e di una propria “personalità”.

A rendere visibili questi mondi pensa Ian Gibson. Il disegnatore è capace nel trovare soluzioni originali all’esigenza di raffigurare realtà fuori dall’ordinario e nel costruire tavole che rompono in maniera funzionale i rigidi schemi della gabbia di vignette. È evidente, per altro, un netto miglioramento nei passaggi da un libro all’altro, soprattutto per la sempre maggior raffinatezza del tratto.
Una nota positiva va infine spesa per la Magic Press, che oltre a confermare la buona cura editoriale, realizza traduzioni di buon livello per un testo di certo non facile.


Valerio Coppola
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