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Non puoi arrivarci da qui

Non puoi arrivarci da qui (Black Velvet, brossurato, 64 pagine in 2 colori, € 9) testi e disegni di Jason

Prologo: un cimitero, una pala e un disseppellimento. Il tema, romantico per eccellenza, di un corpo riportato alla luce in una notte lunare per dar vita ad esperimenti prometeici ritrova tra le pagine di Non puoi arrivarci da qui di Jason una nuova morale o, se preferiamo, una diversa ottica da cui partire e a cui giungere.

Il volumetto, curato come sempre in maniera impeccabile dalla editrice Black Velvet ed uscito da poco nelle nostre fumetterie, è costruito con una trama quasi essenziale, ma suscettibile di variazioni – quelle personalissime ed originali dello scrittore norvegese –, procedendo per vignette mute e regalando al lettore solo qualche pagina di "dialogo surreale e malinconico". Malinconia che abbiamo imparato a conoscere già con le opere passate Ehi, aspetta (2003) e Sshhhh! (2004) e che qui si concreta in una conversazione tra due mute solitudini che s’incontrano in un bar.
Il risvolto di copertina con succinta nota biografica dell’autore rimanda il lettore italiano, non a caso, al lapidario «un giorno morirà» dell’antieroe crepuscolare Totò Merumeni. Il motivo della morte, della fragilità dell’esistenza e del trascorrere degli affetti che vale, così come per i personaggi di carta, anche per quelli reali, in una totale compenetrazione tra micro e macro, tra realtà e finzione.

In un’era postromantica, dove abbiamo imparato che l’oggetto del desiderio è facilmente ricreabile con l’ausilio di dispositivi ottici e meccanici o parti di corpo altrui (penso al Der Sandman di E.T.A. Hoffmann o al Frankestein di Mary Shelley), la solitudine dei personaggi di Jason si fa tanto invivibile da costringere a recuperare l’amore, la metà di se stessi, la parte mancante del riflesso allo specchio – e tanto si potrebbe scrivere sulla presenza di questi affascinanti oggetti nelle opere del norvegese – quasi seguendo un’assurda fatalità.

La tavola è rigorosamente suddivisa in sei vignette regolari che scandiscono il tempo e la durata con pochi ma necessari gesti o sguardi da rimandare ad un lettore/osservatore che finisce, così, per completare il triangolo visivo (dall’oggetto al personaggio ‘di carta’ e da qui all’occhio fuori dalla tavola) in una speciale compartecipazione dell’universale.
Solo gli sfondi sono colorati di un'unica e monotona tonalità e danno risalto al bianco e nero dei personaggi e degli oggetti in primissimo piano, un bianco e nero in cui potersi riconoscere e riflettere.
E, anche quando l’happy-end viene sfiorato e suggerito (senza arrivare allo svuotamento della parola che esso assume in Beckett), il cerchio improvvisamente e fatalmente si chiude e ammonisce della possibilità di unico finale, dove anche chi è ritornato alla vita reclama di tornare a morire, riportando il lettore ex abrupto a un cimitero, a una pala, a un corpo.

Nadia Rosso





Andrea Antonazzo
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