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La stanza


La stanza (Coconino Press, brossurato, 176 pagine, 12 €) testi e disegni di Lorenzo Mattotti

Attraverso più di ottanta disegni, sorta di graffiti tracciati con l’indeterminatezza e l’impermanenza del lapis, Mattotti ci consegna un vero e proprio studio preparatorio che è anche lavoro ultimo, opera d’arte sulla diafanità del rapporto amoroso dove il segno grafico dell’illustratore riesce a diventare da semplice modus operandi (il volume trova la sua genesi in una mostra romana) a esplicita metafora. La trasparenza del tratto, per cui è possibile rintracciare gli schizzi primi sotto alle linee e ai volumi dominanti in primo piano, rimanda alla memoria e al passato, indispensabili per comprendere l’evoluzione di ogni relazione umana, ma anche all’intricata fragilità di cui è composta l’esperienza sociale e quella sentimentale in particolare. Il grigio della matita mattottiana rievoca l’ovattato dolore e il senso di solitudine che, per l’autore, sembrano permeare ogni rapporto amoroso. Dico “ogni” perché, a ben vedere, le due entità [una maschile una femminile, innamorate o in (dis)/innamoramento] che popolano le pagine del volume possono essere sempre le stesse – opinione corrente – come no: non cambiano soltanto le situazioni e gli atteggiamenti ma, spesso, anche le loro fisionomie appaiono diverse (o forse sono soltanto stravolte emotivamente e, di conseguenza, anche fisicamente), in una ricerca di ambiguità peraltro sistematica all’interno dell’arte di Mattotti (si vedano le congetture filosofiche di lavori, fra i suoi maggiori, quali Il rumore della brina e Stigmate).
Da un rapporto sessuale forse adulterino (cosa sono quelle gambe che spuntano, come dimenticate, nella parte destra della prima illustrazione?) e ora tenero ora violento a seconda della prospettiva di sguardo al “riposo” sempre più emarginato di un uomo che cerca riparo e nascondiglio da tutti, sé stesso compreso, Mattotti ripercorre non tanto, o non soltanto, l’evoluzione lineare di un amore (passione, tenerezza, consuetudine, stanchezza, rigurgiti di vitalità, distacco) ma piuttosto, di esso, momenti isolati e autonomamente slegati fra loro, in cui i veri attanti non sono i corpi o ciò che essi rappresentano ma simboli e segni psicologici quali, per esempio, la prossemica, il gioco di sguardi, la postura, il senso del contatto fisico-mentale. Non c’è vera progressione drammatica né nel segno (le campiture, essenziali ma non minimaliste, sono ora tetre ora leggiadre senza un’apparente ragione d’essere) né nel soggetto/oggetto di volta in volta rappresentato. Al lettore è chiesto di essere, più che altro, “spettatore”, come se davanti agli occhi scorresse un vecchio film muto riportato alla luce (senza restauri aggiunti) da decenni di impolveramento e di oblio. Meglio ancora: la digressione dialettica delle pagine (a una pagina disegnata ne succede sempre una completamente bianca) suggerisce una lettura ‘infantile’ più immediata, quella che, risalente agli esperimenti cronofotografici di Muybridge e Marey, permette a immagini statiche poste in successione e lievemente difformi l’una dall’altra di “animarsi” miracolosamente tramite lo sfogliare più o meno veloce delle pagine. Anche in questo caso, tuttavia, ci si troverà di fronte a un depistaggio autoriale: l’artificio del falso movimento dei disegni dato dal reale movimento delle pagine su cui gli stessi sono impressi non instaura nessuna relazione consequenziale fra un’immagine e l’altra e, così, non si crea nessuna “storia”, semplice o complessa che possa essere, ma si forma, invece, una sorta di perpetua confusione di linee e volumetrie che, volontariamente o meno, allude ai temi dell’incomunicabilità e all’incapacità, tutta contemporanea, di un normale approccio ai casi della vita umana.
Come ormai la Coconino ci ha cullato, l’edizione nella collana Cahier (che si propone di fungere da sorta di dietro le quinte del work in progress di ogni artista) è elegantissima (si veda la cover nera su cui spuntano miniature bianche e grigiofumo per il nome dell’artista, il titolo e il logo della casa editrice) e semplice al contempo e introduce in medias res all’opera dell’autore, senza formali presentazioni né prefazioni critiche. Esemplare e assai illuminante il sottotitolo all’opera: “Esatta riproduzione di un quaderno di disegni”.


Roberto Donati


Andrea Antonazzo
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