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Carnage 1 - Superstite

Se dovessimo tracciare un prima e un dopo riguardo i nemici di Spider-Man, sicuramente l’arrivo di Venom ha rivoluzionato il parco nemesi dell’amichevole Uomo Ragno di quartiere. Non è un caso se Sam Raimi non avesse alcune voglia di utilizzarlo nella sua visione classica del personaggio data dalla sua trilogia, né un caso se la Sony lo abbia imposto a forza. Amato dai fan, Venom e i suoi derivati rappresentano indubbiamente un distacco netto dai vari Octopus, Goblin etc.
Parlando di derivati, naturalmente, ci riferiamo a Carnage generato da Venom (parafrasando la Bibbia) che a sua volta generò Toxin. Ed è singolare che in questo rapporto padre-figlio-nipote, Toxin, finora il “simbionte buono”, viva ora nel corpo di Eddie Brock, ovvero colui che per primo fu Venom. Quest’ultimo, dunque, è sia padre che nipote per Carnage, se ci riflettiamo.

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Questa breve storia dei simbionti è necessaria in quanto è fondamentale capire il rapporto fra i protagonisti della nuova serie Marvel della linea All-New, All Different.
Cletus Kasady è ancora a piede libero, ma l’FBI vuole porre rimedio e catturare il mostro che continua a nutrirsi di vite innocenti. Nel farlo, l’agente speciale Claire Dixon convoca John James, figlio dello storico direttore del Daily Bugle, attualmente in veste di colonnello in Afghanistan per testare un’arma sonica. Il loro scopo è quello di intrappolare il simbionte in una miniera ormai esaurita, gestita da Barry Gleason, e colpirlo con l’arma sonica. A fare da esca troviamo Manuela "Manny", scampata alla prima strage di Kasady e sovrintendente della miniera. Come eventuale ultima spiaggia, Dixon ha coinvolto anche Eddie Brock ma con Toxin inibito dall’FBI.
La trappola scatta, ma qualcosa va storto, infatti Gleason ha fatto il doppio gioco e l’utilizzo dell’arma creerà una frana che aprirà una voragine nelle gallerie sottostanti. Inizierà così una sorta di horror sotterraneo con Carnage come protagonista, contro l’FBI, Toxin e… l’Uomo Lupo/John Jameson. Come se non bastasse, un evento verso la fine, che non citiamo, porterà a un importante cambiamento per il malvagio simbionte protagonista.

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La nuova serie regolare di Carnage vede un team artistico d’eccezione con Gerry Conway ai testi, tornato ai fumetti dopo un lungo periodo da autore televisivo, Mike Perkins alle matite e Mike Del Mundo alle cover.
Lo storico scrittore di Amazing Spider-Man, celebre per la morte di Gwen Stacy e per aver creato il Punitore, scrive una sceneggiatura dal solido intreccio narrativo e contraddistinta da un ottimo ritmo. L’horror orchestrato da Conway viene abilmente messo in scena da Perkins, che i fan ricorderanno con piacere sul ciclo di Capitan America di Ed Brubaker, fortemente sostenuto dalle tinte cupe di Andy Troy.
Il risultato finale ci consegna un buon inizio per una serie forse non imprescindibile, ma che di certo i fan del simbionte, così come delle vecchie serie horror della Marvel, non possono lasciarsi sfuggire.

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Carnage continua la sua vita editoriale in libreria negli eleganti volumi cartonati Panini Comics dall’alta cura editoriale, una scelta un po’ sorprendente per alcuni versi, probabile che un'edizione da edicola in brossurati monografici (per evitare le affollate testate ragnesche) sarebbe una collocazione più adeguata. Tuttavia, l’ottimo team artistico e l’amore per il personaggio, crediamo possano invogliare lo stesso i lettori verso questa vesta più prestigiosa.

 

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Ms. Marvel 1 – Fuori dalla norma

Nel 2014 la Marvel Comics lancia il suo primo personaggio supereroistico musulmano di spicco, Kamala Khan, una giovane ragazzina del New Jersey che acquisisce dei portentosi poteri dopo essere venuta in contatto con le Nebbie Terrigene, di fatto diventando un’inumana. Ms. Marvel, questo il nome da battaglia che la ragazza sceglie per sé, omaggiando la sua eroina preferita, diventa subito un caso editoriale, un fenomeno che non solo conquista lettori e critica, ma coinvolge anche media più generalisti, testate giornalistiche e telegiornali che di fumetto non parlano mai se non in occasioni particolare. E così, dopo la morte di Captain America e quella di Johnny Storm, anche l’ingresso nel MU di Kamala ha sin da subito destato quello stupore mediatico che fa tanto bene al marketing e al mercato, impennando le vendite della testata e soprattutto, puntando nuovamente i riflettori sulla Nona Arte, anche se solo quella più commerciale. Ms. Marvel è una serie che è già diventata di culto, guadagnandosi addirittura il Fauve d'Angoulême 2016 – Prix de la Série, come migliore serie a fumetti.

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Ma non vogliamo che passi il messaggio sbagliato: identificare questa operazione come una semplice trovata commerciale, sebbene in parte lo sia, non solo è sbagliato, ma è anche depauperante e denigrante nei confronti di un’opera che può essere facilmente assurta a serie più interessante e qualitativamente eccellente degli ultimi anni nel fumetto generalista. Stiamo parlando di un piccolo capolavoro nato dalle idee di G. Willow Wilson e dalle portentose mani di Adrian Alphona. Un fumetto giovane e fresco per ragazzi, che ha tuttavia tanto da insegnare anche ai più grandi. Si parla di immigrazione, di integrazione, di differenze culturali ed etniche, di ribellione e di oppressione, di amore e di amicizia, di protezione e di voglia di vivere: tanta voglia di vivere la propria vita, di fare le proprie scelte e di accettarne le conseguenze, pur di essere liberi di approcciarsi al mondo alla propria maniera, con le proprie forze, indipendentemente dalle costrizioni che ci vengono imposte. Voglia di sbagliare e di ricominciare, di imparare come affrontare al meglio e, perché no, con spirito e ironia, le situazioni imprevedibili che ci si parano davanti.

E chi meglio di una scrittrice convertitasi all’Islam e di una editor pakistana, Sana Amanat, per narrare la storia di un’adolescente della medesima nazionalità d’origine, a tutti gli effetti cittadina americana, combattuta e divisa tra la voglia di vivere la sua giovane età come i suoi coetanei, la voglia di essere normale come tutti gli altri, e la tradizione religiosa e culturale della famiglia, che spesso le è opprimente e incomprensibile, ma a cui non vuole rinunciare perché parte di sé. Un approccio alla questione dell’integrazione islamica aperto e moderato, per nulla viziato da pregiudizi e luoghi comuni, che ci mostra una famiglia e una comunità musulmana ben sviluppata e eterogenea, così da poter inglobare un’ampia gamma di casistica: c’è la protagonista che rispetta e segue i dettami della dottrina, ma che non si fa problemi a questionare la liceità e l’utilità di certi dogmi e di certe abitudini, c’è la sua migliore amica Nakia, che porta lo hijab senza l’obbligo di nessuno, per pura scelta personale, c’è il fratello di Kamala, che invece è fortemente credente e praticante, e passa la maggior parte del suo tempo a pregare o in moschea. Viene dato spazio ad una larga parte della realtà religiosa e sociale delle comunità islamiche rendendo accessibile a tutti una maggiore comprensione della loro cultura: un aspetto da non sottovalutare e che rende l’opera preziosa anche per combattere il cieco pregiudizio che, per via del dilagante fanatismo e integralismo di natura terroristica, rischia di offuscare la percezione comune dell’Islam e dei musulmani.

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La trama di questo primo volume mira a presentarci Kamala e l’ambiente sociale e umano in cui è cresciuta la ragazza, portando poi un elemento di totale scompiglio nel suo piccolo mondo con l’acquisizione dei poteri per via delle Nebbie Terrigene. Una storia che parla di una teenager con tutti i suoi problemi e le sue ansie, i suoi desideri e le sue paure, inserita giustamente nel classico archetipo letterario delle high school americane. La protagonista dovrà così fare i conti con questa mutazione sensazionale e imprevista della sua vita, che mette in moto un concatenarsi di eventi che la porteranno a fare delle scelte di suo pugno, entrando così in conflitto con chi, come la sua famiglia e gli amici, non comprende o non può accettare un cambiamento tanto improvviso quanto indecifrabile. E con i primi successi arriveranno anche i primi fallimenti e soprattutto i primi nemici, come l’Inventore, una misteriosa figura che vuole a tutti i costi mettere fine alla novella Ms. Marvel.

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La scrittura della Wilson è molto giovanile e dolce, fresca e ritmata, condita in modo sapiente con ironia: renderà davvero facile la familiarizzazione con i personaggi e l’affezionarsi agli stessi. I delicati disegni di Alphona sono semplicemente meravigliosi, di una morbidezza e fluidità sensazionali, che si sposano perfettamente con l’ambientazione, le tematiche e i personaggi rappresentati e con la paletta cromatica quasi autunnale di Ian Herring. Alcune tavole di questo primo volume vi rimarranno impresse per la potenza visiva che le connota, mentre le espressioni dei personaggi e soprattutto di Kamala, prevalentemente nelle vignette più piccole, sono talmente stilizzate e semplici da risultare di una tenerezza e dolcezza estreme, altro ornamento splendido di questo piccolo capolavoro.
Non possiamo far altro che consigliarvi questa splendida raccolta dei primi 5 numeri della testata Ms. Marvel, oltre alla presenza di All-New Marvel Now! Point One #1, confezionata in un magnifico cartonato Panini Comics con una splendida cover di Sara Pichelli. Un ottimo esempio di fumetto supereroistico fruibile da chiunque, anche da chi non apprezza il genere, ma che vi regalerà più di un’emozione, in attesa del secondo volume in uscita ad agosto. Prezzo molto economico per qualità dell’edizione e contenuto.

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Marvel Omnibus: Power Man & Iron Fist

Gli anni ’70 vengono ricordati come una decade di grande vitalità e sperimentazione nella storia della Marvel. Dopo essere esplosa come fenomeno di costume nel decennio precedente, è in questi anni che la casa editrice di Park Avenue South consolida la sua posizione predominante sul mercato, aggiungendo al suo già nutrito parco testate nuovi titoli che cavalcano lo spirito del tempo. Sempre attenta a nuove mode e tendenze, la Marvel attraversa gli impetuosi anni ’70 come un riff di chitarra selvaggio, lanciando nuove proposte che riflettono gli stimoli della cultura popolare dell’epoca. I film horror della Hammer Films riscuotevano successo? Ecco arrivare sugli scaffali delle fumetterie Tomb Of Dracula e Werewolf By Night. Shaft e Foxy Brown erano gli alfieri della blaxploitation? Ecco arrivare l’eroe di Harlem, Luke Cage, Power Man. E se il successo dei film con Bruce Lee e del telefilm Kung Fu con David Carradine aveva fatto esplodere nel paese la moda delle arti marziali, la Marvel rispondeva con Shang-Chi, Master of Kung Fu e Iron Fist, The Living Weapon.

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Le testate di Luke Cage, Hero for Hire, e di Iron Fist in particolare conoscono un buon successo di vendite fino alla seconda metà degli anni ’70, grazie alla qualità dei team creativi che vi si alternano e per le atmosfere inusuali rispetto alle altre collane Marvel del periodo. Le storie di Cage, ambientate tra bassifondi e gang di strada, vengono realizzate da autori come Archie Goodwin, George Tuska, Steve Englehart, Don McGregor e Billy Graham, con un design del personaggio curato nientemeno che da John Romita Sr.; le vicende di Danny Rand, alias Pugno d’Acciaio, sospese tra New York e la mistica città di K’un-Lun, debuttano grazie alle firme prestigiose di Roy Thomas e Gil Kane, prima di essere affidate ad una coppia che di li a poco farà la storia del fumetto americano grazie ad un epocale ciclo di Uncanny X-Men, Chris Claremont e John Byrne. Ma sul finire del decennio sia il genere blaxploitation che quello delle arti marziali cominciano a segnare il passo, cominciando un rapido declino. Il primo a farne le spese è Iron Fist, la cui testata viene chiusa nonostante l’ottimo ciclo di Claremont & Byrne; nel momento in cui anche le vendite della serie di Cage, ribattezzato nel frattempo Power Man, cominciano a scricchiolare, la Marvel tenta una mossa a sorpresa nel tentativo di salvarla dal dimenticatoio. I numeri 48 e 49 vengono eccezionalmente affidati proprio alla premiata ditta Claremont & Byrne, che ne approfittano per affiancare all’Eroe Nero quel Pugno d’Acciaio orfano ormai di una serie personale. Dal numero 50 la testata cambia nome in Power Man & Iron Fist, e la scommessa di abbinare due eroi in declino per tentare un disperato rilancio viene subito vinta, dando vita ad una serie ancora oggi considerata di culto, tanto da meritare di essere ospitata nella linea Marvel Omnibus di Panini Comics.

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Il volume si apre con le storie sopra citate, a firma Claremont & Byrne, che servono a far incontrare per la prima volta i due personaggi: il pretesto è il rapimento di Misty Knight, compagna di Iron Fist, da parte di un Cage tenuto in scacco dal bieco Bushmaster, che minaccia altrimenti di fare uccidere le due persone più care della sua vita, la fidanzata Claire Temple e l’amico Professor Burnstein. Dopo un’inevitabile scontro, i due eroi si uniranno per sconfiggere il losco criminale. Iron Fist, nella sua identità civile di Danny Rand, fornirà inoltre a Cage l’assistenza del suo scaltro legale, Jeryn Hogarth, per essere scagionato da un’ingiusta accusa di omicidio che lo perseguitava fin dalla sua prima apparizione. È l’inizio di una imprevedibile e profonda amicizia, che porterà due eroi e due uomini molto diversi tra loro a diventare soci nell’agenzia Eroi in vendita.

Dieci anni prima che lo sceneggiatore Shane Black e il regista Richard Donner ci presentassero con gli agenti Riggs e Murtaugh di Arma Letale l’esempio più riuscito di buddy movie, Luke Cage e Danny Rand erano già li a calcare le strade. Come brillantemente sottolineato da Aurelio Pausini nell’introduzione al volume, fu illuminata la scelta di abbinare due personaggi apparentemente agli antipodi, ma accomunati in realtà da un passato doloroso. Il ricco ereditiere Danny Rand poteva condurre la sua crociata contro il crimine nei panni di Iron Fist senza alcuna preoccupazione di carattere economico ma aveva visto perire i genitori da piccolo nella spedizione verso la città incantata di K’un-Lun; Luke Cage poteva farsi strada nella vita grazie alla sua forza ma portava il peso di un’infanzia difficile nel ghetto e l’onta di una ingiusta carcerazione. Danny imparerà a conoscere grazie a Luke la dignità del lavoro e le difficoltà della vita delle persone normali; al contrario l’irruento Cage imparerà da Danny l’importanza della disciplina. Amicizia, rispetto, valori, esempio: argomenti importanti per un semplice fumetto di supereroi.
Anche se dobbiamo a Chris Claremont la felice intuizione di aver messo in società Power Man e Iron Fist, è a Mary Jo Duffy, efficace scrittrice ed editor dimenticata della Marvel degli anni ’70 e ’80 che va il plauso per aver confezionato, nei tre anni della sua gestione, una serie scanzonata ma attenta alla caratterizzazione dei personaggi, dove azione e ironia vanno di pari passo con un riuscito approfondimento psicologico, pur con tutte le ingenuità dell’epoca.

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Il comparto grafico del volume è nobilitato dalla presenza di John Byrne che da sola ne giustifica l’acquisto. Le pagine dell’artista canadese blandiscono la pupilla del lettore oggi come ieri, grazie ad un dinamismo e una composizione della tavola che sono pura espressione del Marvel Style di quegli anni. Dopo un lieve calo dovuto alla presenza di un Mike Zeck ancora agli inizi della carriera e a un non troppo ispirato Lee Elias, la qualità dei disegni si risolleva grazie a Trevor Von Eeden e al sicuro mestiere di Kerry Gammill, ottimo artigiano ormai dimenticato.

Marvel Omnibus: Power Man & Iron Fist è una piacevole lettura estiva, consigliata sia per nuovi lettori impazienti di conoscere i protagonisti dei prossimi due serial Marvel/Netflix, sia per vecchi lettori desiderosi di fare una passeggiata sul viale dei ricordi della Marvel che fu.

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Highway to Hell

Esiste un filone di comics vecchio come quello dei supereroi ma non blasonato al suo pari, che si snoda nel tempo partendo quasi accennato dalle primissime storie dello Spirit di Will Esiner passando per l'iconico Sin City di Frank Miller e raccogliendo nella sua strada perle di rara bellezza come Torso (Bendis & Andreyko) o ancora la run di Sam e Twich sempre scritta da Brian M. Bendis e autori vari arrivando ad oggi, dove lavori come lo stupefacente Fatale (Brubaker & Phillips), Revival (Seeley & Norton) o il famosissimo The Strain (questo nato da un libro scritto a quattro mani tra il regista Gulliermo Del Toro e lo scrittore Chuck Hogan, poi comics edito nel 2012 da Dark Horse Comics con la sceneggiatura di Lapham e i disegni di Huddleston, ora trasposto in serie televisiva) hanno trovato ancora una folta schiera di fan che acclamano questi degni rappresentati del filone che mescola l'orrore con il noir, un miscuglio di horror/thriller che è, per il mercato americano, la storia di un imbastardimento vecchia tanto quanto le prime strip pubblicate.

Highway to Hell rientra a pieno in questo filone, un prodotto pensato da italiani per il mercato americano e che riesce ad accontentare tutti per la maggior parte del tempo, magari ogni tanto trasborda nel voler creare pantomime o stereotipi sui generis, ma in ogni caso riesce a divertire. Il lavoro dell'Italian Job Studio (Studio fondato nel 2010 da Riccardo Burchielli, Giuseppe Camuncoli, Stefano Caselli e Francesco Mattina) è quantomeno ambizioso: partendo da una storia scritta dal cofondatore dei Subsonica Davide Dileo (“il Tramontatore”) e con l'aiuto dello sceneggiatore Victor Gischler (tra i suoi romanzi “la gabbia delle scimmie”, ma ha lavorato anche su Punisher e Deadpool) creare una miniserie pubblicata in Italia da Panini Comics e, successivamente, in USA (Dark Horse Comics) di livello qualitativo elevato e che potesse soddisfare il pubblico sia da una parte che dall'altra dell'oceano. Evidentemente, almeno in parte, l'intento di questo “creative tank” è riuscito visto che il lavoro ha vinto nel 2015 il Ghastly Award nonostante non sia privo di difetti.

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La storia è un “classico” tributo all'orrore made in U.S.A. E Quando i ragazzi dell'Italian Job e i loro collaboratori puntano al classico... non scherzano, sono davvero a livello quasi didascalico: due bizzarri agenti dell'FBI (uno tosto ed uno riflessivo) che si occupano di casi borderline, un'ambientazione che può ricordare sia Twin Peaks di David Lynch sia una Castle Rock di Stephen King, l'eterna lotta di equilibri tra il bene e il male, sceriffi con aiutanti che oscillano dal white trash alle bombe sexy, altri sceriffi non collaborativi, i vampiri con le loro stratificazioni e regole, un cacciatore di Vampiri appartenente ad un ordine vecchio di secoli accompagnato dalla sua aiutante, body horror ad un passo da La Cosa di John Carpenter e scolopendre tentacolari ed irte di denti che ricordano “il Rosso” di Swap Thing. L'Italian Job pare intenzionata al 100% a cucinarci un'apple pie... anzi una Cherry Pie presa da Norma, e per nostra fortuna nonostante gli ingredienti siano sempre quelli loro sono dei cuochi eccellenti.

La storia inizia con i due sterotipatissimi agenti (il parodistico macho Brew ed il composto e pragmatico Mirchandani) che seguono le traccie di uno spietato serial killer fino alla città di Black Briar e qui scopriranno che niente è come sembra: il killer, infatti, è un personaggio molto più particolare di quel che credevano e delle forze occulte s'intrecciano con i suoi efferati delitti.
Da qui in poi, anche per la scelta di non rivelare subito il personaggio di Dusker,.

Spoiler:
Sembra infatti che il killer non è altri che un guerriero “della luce” che difende gli equilibri tra il bene ed il male, e le sue vittime non sono altro che mostri che una volta uccisi tornano nella loro forma umana.
Dusker (questo il suo nome) e la sua aiutante scopriranno nei due agenti dei preziosi alleati contro l'avanzare delle forze del Male, che rapidamente si avvicinano per lo “scontro finale”, un'orgia di violenza voluta dal vampiro Marion per piegare il combattente della luce.

La trama e la sceneggiatura sono purtroppo altalenanti e, anche se la banalità e la plausibilità possono essere messe da parte, ci sono alcuni punti in cui i personaggi non riescono ad interagire come dovrebbero.
Il personaggio di Brew, in particolare, subisce il suo fare da Milites Gloriosus ritrovandosi ad essere una macchietta comica quando dovrebbe (nelle intenzioni dello sceneggiatore) uscire con frasi ad effetto che in realtà fanno arrossire dal tanto che sono puerili, mentre è più funzionale negli sacchetti “comici” che però diventano presto vuoti e ridondanti, anche i rapporti interpersonali sono curati in maniera relativa: basti vedere le scene con l'agente Ramirez o il finale con i poliziotti locali.

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Come ci sono punti bassi, però, ci sono anche momenti alti: il personaggio di Dusker è oltremodo affascinante. Costruito su misura per diventare un “personaggio” (se uscisse il film di Highway to Hell non sfigurerebbe al fianco di Ash nel pantheon degli horror movie heroes), il nostro ante tempore “guerriero della strada” è uno scostante e silenzioso cavaliere con una sacra missione, ma alcune sfumature della sua personalità (si veda la costruzione dei proiettili o la – relativamente spiegabile- cura riservata a Jay) lasciano intuire il - classico- cuore d'oro. Non a caso la parte più significativa ed affascinante dell'avventura è sul finale, con la sua assistente Littie: il rapporto tra lui e lei è l'esempio di una narrazione suadente e brillante. Sono sicuramente i personaggi meglio riusciti di tutta la saga.
Nota a margine per il nemico, il vampiro/bambino Marion, cattivo che è una macchietta, ma è funzionale. Sembra uscito paro paro da una partita di Vampiri the Masquerade. Meravigliosamente disturbante da vedere, perciò ancor più amabile.

I disegni sono il vero punto forte di questo lavoro, Burchielli e Mattina mettono fuoco e fiamme nei loro lavori e creano meraviglie terribili, dinamiche interessanti e figure ed inquadrature come solo il grande “cinema americano d'azione” può fare.

La natura pesantemente commerciale di Highway to Hell pesa come un macigno sul lavoro, il punto è che se le storie di Victor Gischler fossero un serial tv o un videogioco non cambierebbe nulla e, anche se non è un difetto di per sé ci sono momenti (sopratutto nella seconda parte della storia) in cui si ha la tremenda sensazione che tutto proceda con il pilota automatico, per far felici tutti e perché gli unici momenti di stupore siano le pagine intere con i tremendi mostri di Burchielli (c'è ad esempio quasi uno schema matematico che prevede il reiterasi di una determinata situazione che culmina in una splash page con un mostro. Questo si ripete ogni tot pagine.)
Highway to Hell è un buon lavoro, magistralmente eseguito ma senza particolari picchi d'intensità emotiva o intuizioni brillanti. Non è perfetto, ed è molto orientato sul fan service ma mentre per gli amanti del genere dovrebbe essere indispensabile, per tutti per tutti gli altri Highway to Hell è buon intrattenimento. E dopo quel finale ne vorranno ancora.

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