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Batman: Bruce Wayne Fuggitivo, recensione: il ritorno della bat-saga di inizio millennio

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Tra tutti i personaggi iconici del fumetto americano, Batman è per consuetudine quello che viene rappresentato meglio in progetti speciali fuori serie che nelle proprie collane regolari. Tradizione iniziata negli irripetibili anni ’80, dove le interpretazioni del Cavaliere Oscuro fornita da grandi autori come Frank Miller e Alan Moore rispettivamente in The Dark Knight Returns e in The Killing Joke hanno contribuito a fornire una visione definitiva del personaggio molto più di quanto facessero contemporaneamente le sue collane regolari, Batman e Detective Comics. È solo tra la fine degli anni ’90, con eventi come No Man’s Land e la prima decade degli anni duemila, con l’arrivo di superstar come Jim Lee e Grant Morrison, che le testate regolari del Pipistrello vengono rilanciate in maniera convinta della DC Comics, tornando ad occupare il posto che gli spetta nelle classifiche di vendita.

Tra queste due fasi ne esiste una creativamente molto interessante, inaugurata durante il cambio di secolo, in cui le redini di Batman e Detective Comics vennero affidate a due giovani sceneggiatori provenienti dal florido panorama indie statunitense: Ed Brubaker e Greg Rucka. Due autori specializzati in atmosfere noir e urbane alla loro prima esperienza con un personaggio iconico, il primo squillo di una carriera che li vedrà diventare due figure chiave del fumetto a stelle e strisce del nuovo millennio. Brubaker era noto per una serie crime noir che aveva avuto ottime recensioni, Scene of the Crime, pubblicata dalla Vertigo, la celebre etichetta della DC dedicata ad un pubblico maturo; Rucka aveva addirittura vinto un Eisner Award con Whiteout, un poliziesco ambientato tra i ghiacci dell’Antartide disegnato da Steve Lieber, artista che lo accompagnerà durante la sua esperienza su Detective Comics. I due autori portarono nelle due collane storiche dedicate all’uomo pipistrello la propria abilità nel costruire trame thriller e poliziesche avvincenti, un tratto specifico della loro scrittura che verrà sublimato di li a breve dal capolavoro Gotham Central, scritto a quattro mani da entrambi. Bruce Wayne Assassino/Fuggitivo è la saga dove i due, nell’anno duemila, iniettano nelle storie di Batman il loro gusto per le trame investigative riportando il personaggio alle sue origini noir, che viene riproposta oggi da Panini Comics in tre volumi cartonati.

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Fuggitivo prende le mosse, senza soluzione di continuità, da quanto visto in Assassino: Vesper Fairchild, la fidanzata di Bruce Wayne, viene ritrovata senza vita all’interno di Villa Wayne. Tutti gli indizi di colpevolezza sembrano portare direttamente a Bruce il quale, una volta arrestato, evade dalla prigione di Gotham per poter condurre una propria indagine nei panni di Batman. Non mancherà ovviamente il supporto di una preoccupatissima Bat-Family, da Robin a Nightwing passando per Batgirl (versione Cassandra Cain) e la Birds of Prey capitanate dalla carismatica Oracle – Barbara Gordon, tutti determinati ad aiutare un Batman sempre più in difficoltà per il complotto ordito ai suoi danni.

Riletto a più di vent’anni di distanza, Bruce Wayne Fuggitivo presenta pregi e difetti di tutte le saghe che si sviluppano come un cross-over tra le tante serie di una famiglia di testate, in questo caso l’intero parco collane dell’epoca dedicato a Batman e ai suoi alleati. La conseguenza principale è la qualità altalenante dell’intera operazione, che alterna capitoli di pregevolissima fattura ad altri passaggi assolutamente dimenticabili. Le storie tratte da Detective Comics scritte da Rucka e quelle di Batman sceneggiate da Brubaker sono inevitabilmente quelli che si guadagnano la luce dei riflettori, vuoi per la centralità nell’economia generale della saga, vuoi per un nuovo metodo di scrittura che si stava affermando all’epoca, che guardava ad altri media come cinema e tv, di cui i due scrittori, insieme a colleghi illustri come Brian Micheal Bendis, sarebbero stati gli alfieri. Ecco quindi che i numeri di Robin, Nightwing, Birds of Prey e le altre serie dell’universo batmaniano presenti nel volume perdano il confronto con le due collane principali e appaiano oggi di scarso interesse. Nonostante l’apporto di ottimi professionisti come, tra gli altri, Chuck Dixon ai testi e Rick Leonardi e un debuttante Phil Noto ai disegni, si tratta di un modo datato di fare fumetto, basato più sull’azione che su una forte caratterizzazione dei personaggi. Al contrario, la scrittura di Brubaker e Rucka gioca proprio su un approfondimento psicologico di Batman e soci che ai tempi era piuttosto inedita, si pensi alla scena madre tra Batman e Nightwing nella Batcaverna nel primo episodio.

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I limiti si avvertono soprattutto nei capitoli in cui il comparto grafico è affidato a modesti artigiani del tavolo da disegno come Trevor McCarthy, Roger Robinson e Will Rosado che oggi faticherebbero a trovare spazio in una collana di prima fascia. Le luci della ribalta artistica vengono catturate soprattutto da Scott McDaniel, disegnatore all’epoca molto contestato per l’interpretazione estrema di Daredevil da lui fornita in un ciclo di metà anni ’90 influenzato dalla moda “Image” dell’epoca. Passato alla DC Comics, è proprio su Nightwing prima e su Batman poi che trova il suo posto al sole. Il tratto nervoso e spigoloso, la predilezione per le atmosfere notturne e per il chiaroscuro lo resero il disegnatore ideale per la collana. Le sue tavole, attraversate da spettacolari splash-page, gli fecero guadagnare l’apprezzamento dei lettori al netto di un tratto non particolarmente aggraziato. Se si pensa che il suo successore sulla collana sarebbe stato la star Jim Lee con la saga blockbuster Hush, si capisce come l’apporto di McDaniel a Batman sia stato in seguito largamente dimenticato.

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Rileggere oggi Bruce Wayne Fuggitivo è l’occasione per riscoprire un artista sottovalutato, e per riconsiderare questi primi passi di Brubaker e Rucka nel fumetto mainstream col senno del poi. Nel giro di pochi anni, infatti i due si sarebbero trasferiti alla corte di Bill Jemas e Joe Quesada, i demiurghi della nuova Marvel di inizio millennio e avrebbero inanellato una notevole serie di successi. Ed Brubaker, soprattutto, avrebbe dato vita ad un ciclo di Captain America epocale durato nove anni che avrebbe ridefinito il personaggio riportando in scena clamorosamente il personaggio di Bucky Barnes, trasformato in The Winter Soldier.
Panini Comics pubblica Batman: Bruce Wayne Fuggitivo in un pregevole cartonato della linea DC Evergreen, suggerito a chi voglia scoprire o riscoprire le storie che avrebbero lanciato le carriere di due futuri protagonisti del fumetto a stelle e strisce.

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Dune – Casa degli Atreides 1, recensione: il prequel a fumetti di Dune

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I sei romanzi scritti da Frank Herbert tra il 1965 e il 1985, che costituiscono il corpo principale del ciclo di Dune, sono da parecchi anni un caposaldo della fantascienza letteraria. Fin dal suo esordio, l’opera ha raccolto uno stuolo di appassionati e il plauso di scrittori e registi, affascinati dalla commistione tra misticismo, fervore ecologista e l’insolita visione di un’umanità padrona della galassia, ma regredita in una sorta di neo-feudalesimo, in cui il potere viene spartito tra casate nobiliari, gilde commerciali e sette religiose.

Proprio riguardo ai registi, complice l’arrivo su grande schermo del nuovo adattamento cinematografico del primo libro della serie – oltre alla fugace distribuzione in sala del documentario Jodorowsky’s Dune di Frank Pavich – di recente si è tornati a parlare di quando, a metà degli anni Settanta, Alejandro Jodorowsky tentò – senza riuscirci – una monumentale trasposizione su celluloide dei romanzi di Herbert. I veri cultori della Nona Arte, però, ricordano che l’autore cileno, nonostante il film non venne mai girato, rielaborò le idee sviluppate per il cinema in una sorta di versione apocrifa di Dune e, in coppia con Moebius (già chiamato a collaborare allo storyboard della pellicola), diede vita al celebre ciclo a fumetti de L’Incal. Cionondimeno, per stessa ammissione dell’interessato, più nota è l’influenza che la saga degli Atreides ha avuto su George Lucas nel concepire l’universo di Star Wars, tanto che proprio lo stratosferico successo di Luke Skywalker e compagni - e la conseguente invasione di prodotti multimediali ad essi legati - deve essere stata la molla che ha convinto Brian Herbert (figlio di Frank e scrittore anch’egli) a tentare qualcosa di simile con l’opera paterna, quantomeno in ambito letterario. Rivendicando, infatti, il presunto ritrovamento degli appunti del genitore per possibili nuovi romanzi e scorgendo in Kevin J. Anderson (prolifico autore di spin-off e tie-in ispirati a noti franchise come X-Files o lo stesso Star Wars) il profilo perfetto con cui portare avanti il suo progetto, il buon Brian si è dedicato negli ultimi vent’anni a espandere l’universo di Dune con tutta una serie di prequel e sequel che, pur se in maniera minore rispetto all’opera capostipite, hanno in qualche modo intercettato la richiesta dei fan di vedere i loro beniamini ancora in azione.

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Eppure, se non fosse arrivato il film della Warner Bros. - sempre alla ricerca di “brand” da utilizzare per contrastare lo strapotere della Disney – tutto sarebbe rimasto confinato al solo circuito librario. Invece, il buon successo commerciale del nuovo Dune cinematografico di Denis Villeneuve ha generato l’interesse di altri media, in particolare del fumetto. I primi editori a farsi avanti sono stati la Abrams ComicArts e i Boom! Studios, ma entrambi prima di avventurarsi in produzioni originali (come fanno da anni la Dark Horse e la Marvel con Alien, Predator e l’immancabile Star Wars o, in passato, la Dell/Gold Key con le star della TV dell’epoca) hanno preferito sondare il mercato attraverso un semplice adattamento dei romanzi già noti agli appassionati. La Abrams si è assicurata i diritti di sfruttamento del ciclo storico, esordendo con Dune-The Graphic Novel, Book 1 (disponibile in Italia nella collana Oscar Ink della Mondadori), l’agguerrita casa editrice californiana, viceversa, ha deciso di puntare sulle opere di Herbert junior e Anderson. Gli stessi che, oltretutto, ritroviamo come autori dei testi sia del graphic novel che degli albi dei Boom! Studios. Di questi ultimi, in particolare, è da poco iniziata la pubblicazione anche qui da noi grazie alla Panini Comics (che contemporaneamente ha pure dato alle stampe lo splendido artbook del film della Warner), la quale sta raccogliendo la prima maxiserie Dune: Casa degli Atreides in agili volumetti cartonati.

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La trama del fumetto segue fedelmente quella dell’omonimo romanzo da cui è tratta, raccontando le vicende parallele di vari personaggi in un’epoca che si colloca cronologicamente circa trentacinque anni prima degli eventi di Dune, dalle cui pagine, comunque, provengono gran parte dei protagonisti, che qui vediamo nelle loro versioni giovanili. Abbiamo, per esempio, un Vladimir Harkonnen nel fiore degli anni sostituire l’inetto fratello Abulurd alla guida dell’estrazione della spezia sul pianeta Arrakis. Ma anche un Leto Atreides appena quindicenne inviato a completare la sua educazione su Ix, sede delle tecnologie più avanzate della galassia. Assistiamo, quindi, all’annuncio della reverenda madre Anirul delle Bene Gesserit dell’imminente compimento del secolare piano di riproduzione per dare alla luce il Kwisatz Haderach delle profezie, mentre, al contempo, apprendiamo del torbido piano del principe Shaddam per assassinare il padre e prenderne il posto sul trono dell’impero. Infine, facciamo la conoscenza di un giovanissimo Duncan Idaho, schiavo degli Harkonnen e del planetologo Pardot Kynes che - di nuovo su Arrakis – riesce a entrare in contatto con i Fremen.

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Al di là dello scontato – e legittimo - obiettivo commerciale da parte della Panini e, prima ancora, dei Boom! Studios, non nascondiamo di aver nutrito la speranza che la serie potesse offrire qualcosa di più. Bisogna purtroppo dire, invece, che tolti i nomi altisonanti di Arrakis e dei personaggi principali, o la presenza dei giganteschi vermi delle sabbie, l’immaginario di Frank Herbert nel fumetto viene appena sfiorato. I protagonisti delle varie sottotrame sono raffigurati in maniera piatta e banale e i loro comportamenti, benché coerenti con la caratterizzazione originale, sono scontati e privi di qualsiasi motivazione che vada oltre il semplice stereotipo. Anche i dialoghi non brillano per brio e arguzia, senza considerare che la narrazione si concentra solo sugli aspetti più immediati e appariscenti di Dune, ignorando quasi del tutto la chiara metafora socio-politica e il sottotesto filosofico dei primi libri.

Non sono certamente d’aiuto i disegni del giovane artista indiano Dev Pramanik, che offrono pochi spunti di interesse, mancando soprattutto nella visionarietà delle ambientazioni e nella dinamicità dei personaggi, di frequente troppo legnosi e rigidi. Soltanto l’espressività dei volti di tanto in tanto compensa la staticità delle figure, ma non è sufficiente a nascondere l’assenza di uno stile riconoscibile e ben definito o una costruzione delle tavole poco più che scolastica.

Dune: Casa degli Atreides è, in definitiva, una convenzionale ramificazione della storia principale, senza alcuna ambizione autoriale, che appassionerà forse i fan hardcore o qualche lettore senza pretese, ma di sicuro non coloro che considerano l’opera di Herbert molto più che una semplice epopea fantascientifica.

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U.S. Agent - Il Fanatico Americano, recensione: il ritorno di John Walker

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Il ciclo decennale (1985-1995) di Captain America scritto dal compianto Mark Gruenwald, scrittore, editor e anima della redazione Marvel dalla fine degli anni ’70 fino alla sua prematura scomparsa avvenuta nel 1996 per un attacco cardiaco, è ricordato come uno dei più rappresentativi mai dedicati al personaggio. Il momento più iconico di questa classica run, quello per cui viene più spesso ricordata, è la sequenza in cui Steve Rogers è costretto ad abbandonare l’identità di Capitan America a causa di un contrasto con una commissione governativa che reclama il costume come una sua proprietà, citando una clausola che risaliva alla Seconda Guerra Mondiale, e il diritto di condizionare le attività dell’eroe a prescindere dall’individuo sotto la maschera. Condizioni inaccettabili per Rogers, convinto che la figura di Capitan America debba incarnare le aspirazioni e gli ideali espressi dal Sogno Americano, e che lo spingono a rassegnare le proprie dimissioni. La commissione troverà il sostituto di Rogers in John Walker, suo avversario col nome di Super Patriota, che in passato aveva condotto una campagna mirata a delegittimare Capitan America, da lui giudicato un attrezzo del passato ormai inadeguato a rappresentare gli ideali americani.

Walker indossa così l’iconico costume della Leggenda Vivente, mentre un Rogers spogliato della bandiera, ma non della voglia di combattere, prosegue la sua attività nei panni del “Capitano”, una variante della classica divisa di Capitan America di colore scuro. Dopo varie vicissitudini, verrà rivelato che la mente criminale che pilota le attività della Commissione non è altri che quella del Teschio Rosso, la nemesi per eccellenza di Cap. Nell’epilogo della saga i due “Capitani”, dopo un inevitabile scontro che porta però ad un chiarimento tra i due, collaborano per sconfiggere il Teschio. Rogers torna così ad indossare i panni di Capitan America, mentre Walker ripiega sulla divisa de “Il Capitano” assumendo il nome di U.S. Agent e iniziando una carriera di super-eroe governativo, non apprezzato particolarmente dai colleghi per la sua ottusità e perché simbolo dell’ingerenza dello Stato nelle loro attività. A tal proposito si ricordano le divertenti pagine di West Coast Avengers in cui John Byrne inserì U.S. Agent nelle fila della divisione californiana dei Vendicatori, tra lo sconcerto di Occhio di Falco e soci. Walker riuscirà invece a guadagnarsi il rispetto dei compagni, diventando un pilastro del gruppo.

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Il personaggio non ha mai avuto però molte occasioni per brillare in proprio, se si escludono due vecchie miniserie uscite tra gli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio. Così, in concomitanza col suo debutto televisivo nella serie tv The Falcon & the Winter Soldier, la Marvel ha annunciato il ritorno di U.S. Agent in una nuova mini scritta dal veterano Cristopher Priest per i disegni di Georges Jeanty. Priest è noto per aver supervisionato e scritto alcune delle migliori storie noir dell’Uomo Ragno nel periodo in cui indossava il costume nero (con lo pseudonimo di Jim Owsley), a metà degli anni ’80, e per aver rilanciato Pantera Nera per la linea Marvel Knights a cavallo degli anni 2000. I suoi lavori sono spesso caratterizzati da un occhio rivolto alle tematiche politiche e sociali, motivo per il quale la scelta di abbinarlo ad un personaggio controverso come U.S. Agent sembrava azzeccata. Come vedremo, però, non tutte le ciambelle sono riuscite con il buco.

La vicenda raccontata in Fanatico Americano prende il via in una piccola comunità del sud rurale degli Stati Uniti, dove la popolazione sta insorgendo contro la sede di una multinazionale della logistica, la Vertigo. L’azienda è in realtà una copertura dello S.H.I.E.L.D., e nasconde una misteriosa risorsa militare. Ad investigare su quello che sta accadendo viene inviato John Walker che, pur avendo conservato l’uniforme, ha perso il titolo e lo scudo di U.S. Agent a causa di un pasticcio combinato in un precedente incarico. Ora è un contractor indipendente, di cui il governo si serve per compiere missioni non ufficiali, ma la sua assegnazione al caso Vertigo nasce solamente dalla vendetta di un piccolo burocrate statale nei confronti di Val Cooper, il “boss” storico di Walker che di lui non vuole più sentir parlare. U.S. Agent si recherà quindi nella profonda provincia americana, tra una popolazione con cui sembra condividere una propria visione di cosa sia l’America. Non mancheranno ovviamente sorprese, a partire dalla scoperta della vera natura della Vertigo, oltre ad una rivelazione che riguarderà gli affetti familiari dello stesso Walker.

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U.S. Agent – Il Fanatico Americano parte da un buon presupposto, quello di usare il personaggio di John Walker per rappresentare la sensibilità dell’America profonda e rurale, quella che si è fatta convincere dalla retorica dell’ “America First” di Donald Trump. Se Steve Rogers incarna gli ideali più “liberal” del Sogno Americano, Walker è il suo contraltare a destra, un ultraconservatore che riflette gli umori dell’uomo della strada. Se Rogers è un puro, un idealista, Walker è un cinico pragmatico che non esita ad utilizzare la forza quando serve. Priest vorrebbe costruire intorno al personaggio una satira sociale che prenda di mira l’attualità politica degli Stati Uniti, ma il progetto riesce solo in parte e, nonostante una buona partenza, lo svolgimento risulta alquanto deficitario e non va oltre la dichiarazione d’intenti iniziale. L’analisi sociologica condotta dall’autore è superficiale e non incide, rendendo banale e convenzionale il ritratto di un’America di provincia che non va oltre il registro della parodia.

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Non fornisce un contributo all’esito finale dell’opera neanche l’apporto poco ispirato di Georges Jeanty, onesto faticatore del tavolo da disegno che dopo due decadi di carriera non si è mai affrancato dal ruolo di modesto mestierante della matita. Un disegnatore raramente associato a progetti d’alto profilo, dallo stile rigido e legnoso che non arricchisce in alcun modo la messa in scena dello script di Priest. Lo storytelling e l’organizzazione delle tavole di Jeanty è statico e ordinario e contribuisce a non innalzare il livello di Fanatico Americano oltre la soglia della sufficienza. Ed è un vero peccato, perché pochi personaggi come il controverso U.S. Agent si presterebbero ad incarnare una fase politica e sociale americana tanto convulsa come quella attuale. Ci sarà bisogno sicuramente di progetti di più alto profilo per rivedere il buon John Walker al massimo delle sue potenzialità.
Segnaliamo, in chiusura, le splendide cover realizzate dal nostro Marco Checchetto che valgono, da sole, un motivo per l’acquisto del volume.

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American Ronin 1 - Incubus, recensione: il killer empatico di Milligan e ACO

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Proseguono le proposte Panini Comics targate AWA Studios, la nuova realtà editoriale creata da vecchie conoscenze dei fumetti Marvel come Bill Jemas e Axel Alonso, rispettivamente ex presidente ed ex redattore capo della Casa delle Idee. I due sono riusciti a coinvolgere nel loro progetto editoriale alcuni tra i nomi più prestigiosi del comicdom, da J. Micheal Straczynski a Mike Deodato Jr., che hanno dato il via al progetto con la serie The Resistance, passando per Garth Ennis e Frank Cho. Tra questi ci sono anche il veterano sceneggiatore britannico Peter Milligan e l’artista spagnolo ACO, autori di American Ronin, l’ultima delle collana AWA portate da Panini nel nostro paese.

Milligan è un autore che non ha certo bisogno di presentazioni, facendo parte di quella “British Invasion”, insieme a Grant Morrison, Neil Gaiman e Garth Ennis, che dalla seconda metà degli anni ’80 travolse il fumetto statunitense cambiandolo per sempre. Con opere come Shade The Changing Man, Enigma e X-Statix lo scrittore londinese ha lasciato un solco profondo nel comicdom americano, combinando innovazione e intrattenimento. American Ronin non ha lo stesso impatto rivoluzionario delle opere sopra citate ed è attraversato da un innegabile senso di déjà vu. Ciò nonostante, Milligan ha saputo imbastire un avvincente thriller spionistico.

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In un futuro prossimo che assomiglia tanto al nostro presente, il mondo è dominato da multinazionali come la Lincoln’s Eye, che decide le politiche delle maggiori potenze mondiali. La Lincoln è una corporazione che non si limita ad esercitare la sua influenza sui governi nazionali, ma che non esita a commettere azioni coercitive spesso letali servendosi di agenti potenziati. Si tratti di individui modificati geneticamente, che riescono ad entrare nella mente degli avversari assorbendone il materiale biologico. In questo modo, “entrano” letteralmente nella testa del nemico sfruttandone le debolezze. Uno di loro, auto-nominatosi “Ronin”, si ribella e cerca vendetta contro la Lincoln’s Eye per quello che gli è stato fatto. Tra il Ronin e la multinazionale esplode dunque una guerra senza quartiere che raggiunge il suo apice in Italia, a Roma, dove la Lincoln ha inviato alcuni dei suoi agenti più pericolosi per indirizzare le politiche del governo italiano.

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La lettura di American Ronin potrebbe provocare nel lettore avvezzo a tematiche di spionaggio e cyberpunk la sensazione di qualcosa di già visto, come dicevamo sopra. In effetti, letteratura di genere, cinema e fumetti negli ultimi trent’anni hanno declinato tematiche simili in ogni modo possibile e immaginabile. Se lo spunto di partenza non appare particolarmente ispirato ed originale, è nel suo svolgimento che si svela, per l’ennesima volta, tutto il mestiere di narratore di Peter Milligan. La trovata sulla quale è costruita la vicenda, quella dei killer che si iniettano il DNA delle vittime per scovarne le fragilità, consente all’autore di scavare nella psiche dei personaggi unendo così spessore psicologico ad una trama action mozzafiato.

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Ma l’intuizione vincete di Milligan è la consapevolezza di poter disporre, al tavolo da disegno, di un vero fuoriclasse, il disegnatore spagnolo ACO. Si tratta di un artista poco prolifico (oltre a numeri sparsi di Midnighter e Wonder Woman per DC Comics, memorabile è la miniserie di Nick Fury realizzata per Marvel su testi di James Robinson in cui aggiorna ai nostri tempi le atmosfere psichedeliche di Jim Steranko), ma di talento assoluto, un virtuoso dello storytelling che non finisce di sorprendere per le soluzioni grafiche mai banali offerte dalle sue tavole. Lo spagnolo alterna pagine (poche, in verità) in cui propone una divisione classica della tavola in griglie, salvo poi scardinare la narrazione demolendo l’ordine precostituito delle vignette. Al posto della struttura canonica delle pagine inserisce ovali, onomatopee e inquadrature sghembe che conferiscono ritmo e adrenalina alla narrazione già forsennata di Milligan.

Contribuiscono al risultato di grande impatto visivo le chine nette e precise di David Lorenzo mentre Dean White partecipa alla festa con la sue abituale palette di tonalità acide che lo confermano come uno dei migliori coloristi del settore.
Panini Comics presenta American Ronin con la consueta cura editoriale dei suoi cartonati da fumetteria, con un volume dall’ottimo rapporto qualità-prezzo che lascia il lettore in fervente attesa del capitolo successivo.

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