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Muhammad Ali - Kinshasa 1974, recensione: quando eravamo re

Muhammad Ali Kinshasa 1974

Jean – David Morvan è un affermato sceneggiatore di bandes dessinées, un autore di culto in Francia. Ha scritto storie per alcune delle riviste più popolari del fumetto franco-belga come Spirou et Fantasio e il suo best-seller, Sillage, è uno sci-fi tradotto con grandissimo successo anche all’estero. In Italia è conosciuto per Wolverine: Saudade, una storia in formato “francese” del mutante canadese realizzata con il suo collaboratore abituale Philippe Buchet che è stata pubblicata nel nostro paese da Panini Comics a metà degli anni 2000. Morvan è anche un grande appassionato di fotografia. Il suo grande sogno è quello di realizzare una collana dedicata alle imprese di alcuni tra i suoi fotografi preferiti. Nella sua mente riecheggia un nome leggendario, che raggruppa molti dei suoi idoli: Magnum Photos, la celebre agenzia fondata da numi tutelari della fotografia come Robert Capa e Henri Cartier – Bresson.

Nell’estate del 2012 Morvan decise di mettere da parte la timidezza e di scrivere all’allora direttore della Magnum, Clément Saccomani. La proposta era quella di dedicare una serie di “album” - così vengono chiamati i volumi a fumetti in Francia - ai membri storici dell’agenzia colti nel momento in cui realizzarono i loro reportage più celebrati. A ciascun fotografo sarebbe stato assegnato un artista importante e l’opera finale sarebbe stata il frutto di un’originale sintesi tra fotogiornalismo e fumetto. Lo scrittore non si aspettava nemmeno una risposta; invece nel giro di pochi giorni ricevette una mail di risposta da un’entusiasta Saccomani, che lo invitò nella sede di Magnum Photos per discuterne concretamente. Data l’alta qualità del progetto non fu un problema trovare un editore, che Morvan individuò in Therry Tinlot, vecchio redattore capo di Spirou. Data l’imminenza di entrambi gli anniversari, ad inaugurare la collezione furono due albi dedicati rispettivamente ai reportage dello sbarco in Normandia realizzato da Robert Capa e a quello sull’11 settembre ad opera di Steve McCurry. Per la terza uscita si optò invece per un evento sportivo che ebbe una enorme rilevanza politica, sociale e culturale: l’epico match di boxe tra Muhammad Ali e George Foreman che si disputò a Kinshasa nel 1974, l’incontro passato alla storia col nome di Rumble in the Jungle.

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La sfida tra i due giganti della boxe venne immortalato in un reportage di Abbas, celebre fotografo nato in Iran ma trasferitosi in seguito a Parigi. Fin da giovane si era occupato, come giornalista, di guerre e di rivoluzioni. Durante la guerra di Algeria si rende conto di trovarsi più a suo agio con la macchina fotografica che con quella da scrivere, scegliendo così di investire nella forza dell’immagine. Da quel momento, oltre a continuare a recarsi in teatri di guerra,   si specializza in reportage da paesi in via di sviluppo, concentrandosi sugli eventi politici e sociali che li attraversano. Il giorno previsto per l’incontro è il 25 settembre, ma a seguito di una ferita al sopracciglio riportata da Foreman il match viene rinviato di oltre un mese, al 31 ottobre. È solo per questa fortunata coincidenza che Abbas si troverà in Zaire in tempo per l’incontro, che avrebbe dovuto essere già disputato quando accetta l’incarico del magazine Jeune Afrique. Ed è proprio il fotografo ad essere trasformato dallo sceneggiatore Morvan in testimone e voce narrante di un match storico, un protagonista a tutti gli effetti, in grado di arricchire l’evento grazie al suo particolare punto di vista. La forza dello script, infatti, sta proprio nel modo in cui la formazione culturale cosmopolita di Abbas e quella europea di Morvan riescono a inquadrare le implicazioni politiche e sociali dello scontro tra Ali e Foreman, schivando la retorica di cui è spesso intrisa la narrazione a stelle e strisce. Così, grazie al racconto di Abbas, mediato dallo sceneggiatore francese, veniamo a conoscenza dell’antefatto del match del secolo.

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Gli anni immediatamente precedenti erano stati piuttosto duri per Ali, soprattutto per il ritiro del titolo di campione del mondo inflittogli dalla federazione pugilistica nel 1967 per il rifiuto di andare a combattere in Vietnam (celebre la motivazione fornita dal campione: non ho nulla contro i vietcong. Nessuno di loro mi ha mai chiamato “negro”). Al contrario di Elvis Presley, che aveva usato il servizio militare per rifarsi l’immagine, Ali polarizza il dibattito pubblico statunitense tra chi lo chiama vigliacco e tra chi, a causa della sua obiezione di coscienza, lo elegge a icona della controcultura. La sua integrità morale lo porta a perdere gli anni potenzialmente migliori della sua carriera e i relativi contratti milionari, ma la sua purezza d’animo e la sua schiettezza lo trasformano in leggenda. Quando arriva in Zaire, location scelta con un’ abile mossa di marketing dal suo manager Don King, la popolazione locale lo elegge immediatamente a proprio idolo, a discapito di Foreman. Ali è considerato il campione della gente di colore, Foreman al contrario è un boxeur ben visto dall’establishment americano. La preferenza della gente verrà sintetizzata nel celebre urlo "Ali boma ye!" (Ali, uccidilo), che risuonerà forte per le strade di Kinshasa in quei giorni.

Morvan, sempre tramite la voce di Abbas, ci porta indietro nel tempo per visitare la giovinezza di Ali, bambino in Kentucky che viene avviato al pugilato dallo sceriffo locale per indirizzare la grande rabbia suscitata dal furto della sua bicicletta. Assistiamo poi ad altri momenti chiave della sua vita, come la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960 e la grandi rivalità con altri pugili come Sonny Liston prima e Joe Frazier dopo. Per tutta la durata di questa affascinante carrellata Morvan non dimentica mai di mettere in risalto, oltre alla figura di leggendario sportivo, anche e soprattutto quella di icona culturale, le cui parole hanno sempre avuto enorme rilevanza politica e sociale, che non si è mai stancato di spendersi nella battaglia per i diritti civili.

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La leggenda di Ali, raccontata con passione dello scrittore, viene visualizzata tanto dalla celebri e iconiche foto di Abbas quanto dalle matite di Rafael Ortiz, giovane artista argentino visto su Crossed, che si è trovato a dover sostituire all’ultimo momento un suo celebre connazionale, il maestro del fumetto Horacio Altuna. Il tratto grezzo e le linee sporche di Ortiz, attraversate da una grande energia nervosa, catturano alla perfezione il carisma del mitico campione, e formano con le foto di Abbas una fortunata sintesi che riesce a tradurre in immagini epiche l’epopea di un essere umano straordinario e irripetibile. Interessante notare come l’artista opti per il bianco e nero per illustrare i momenti concitati del match, entrati nella leggenda, mentre sceglie il colore, seppur virato in un accenno di seppia, per mostrarci il passato di Ali. Un esperimento felicemente riuscito, una miscela inedita tra reportage fotografico e graphic novel che fa di Muhammad Ali: Kinshaha 1974 un’opera importante da esibire con orgoglio sullo scaffale della propria libreria. Segnaliamo, a compendio della splendida edizione italiana curata da Panini Comics, i corposi extra in cui Morvan racconta la complessa genesi dell’opera, oltre alle tavole realizzate da Altuna per la versione originale dell’opera e una ricca biografia di Muhammad Ali, che amava definirsi The Greatest, il più grande, e lo è stato davvero.

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Lady Killer - Complete Edition, recensione: un perfetto quadretto domestico rosso sangue

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Negli ultimi anni il mondo del fumetto americano, tradizionalmente a trazione maschile, ha visto l’arrivo di un’ondata di creatrici di talento che si sono rapidamente affermate, meritandosi di essere assegnate a testate prestigiose. Sceneggiatrici come Kelly Thompson e Mariko Tamaki e disegnatrici come le nostre connazionali Emanuela Lupacchino, Sara Pichelli ed Elena Casagrande hanno rapidamente scalato le gerarchie, attestandosi ai primi posti nelle preferenze dei lettori. Fa parte di questa ondata di artiste anche Joëlle Jones, oggi nome di punta della DC Comics grazie ad una breve sequenza di Batman su testi di Tom King e alle prove come autrice completa su Catwoman e Wonder Girl. Ma prima di entrare a corte della major di Burbank, la Jones si era fatta notare con una serie creator-owned realizzata nel biennio 2015 – 2017 per la Dark Horse Comics: Lady Killer.

La serie è un riuscito connubio tra le atmosfere da sit-com anni ’60 e quelle di un tipico film di Quentin Tarantino: Vita da strega che incontra Kill Bill, in sintesi. La protagonista, Josie Schuller, è la tipica casalinga da sobborgo americano, moglie e madre perfetta da tipico quadretto domestico americano degli anni ’60 che vive con la sua famiglia in una zona residenziale. Le giornate di Josie passano tra la cura della casa e dei figli, la sua attività di volontariato e l’organizzazione di feste di quartiere con le altre mogli del vicinato. Il tutto mentre il marito Gene è libero di dedicarsi alla carriera, trovando sempre la cena pronta la sera al suo ritorno. Quello che Gene non sa è che Josie nel tempo libero coltiva un talento molto particolare, quello di killer prezzolato. Un lavoro che svolge con passione e dedizione, al servizio di un’organizzazione segreta. Finché, durante un incarico, qualcosa va storto perché Josie si rifiuta di uccidere un bambino, ultimo superstite di una famiglia precedentemente eliminata. Josie si trasformerà quindi da cacciatrice a preda, trovandosi a sventare i numerosi tentativi dell’agenzia di eliminarla. Il tutto mentre cerca di portare avanti la sua vita familiare, attirando le attenzioni di una suocera già molto sospettosa nei suoi confronti.

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Lady Killer è un’opera che si può leggere su più livelli: thriller adrenalinico con venature pulp (si veda l’apertura mozzafiato che inizia con l’innocuo cliché della vendita di cosmetici Avon a domicilio per risolversi in un sanguinoso scontro che ricorda l’incipit di Kill Bill), nonché  metafora della ricerca di emancipazione da parte di una donna della middle class americana degli anni ’60, epoca in cui il ruolo assegnato alle donne era quello prettamente domestico. È l’epoca dei melodrammi cinematografici di Douglas Sirk, in cui una muta disperazione si nasconde dietro l’apparente perfezione di famiglie con ruoli rigidamente assegnati, per poi esplodere all’improvviso. La Jones sceglie un registro diverso, virato sul pulp come dicevamo, in cui la critica sociale diventa una satira che gronda sangue. L’idea non è del tutto originale, basti pensare ad un cult come La signora omicidi di John Waters, ma è vincente l’idea dell’autrice di scegliere come ambientazione gli anni della massima sottomissione della donna nella società americana, e di inserirci un personaggio forte come Josie, erede ideale di altre donne forti della cultura pop come la Vedova Nera della Marvel o la Atomica Bionda interpretata da Charlize Theron nell’omonimo film. Un contrasto decisamente azzeccato che sancisce la perfetta riuscita dell’opera.

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L’idea vincente alla base di Lady Killer trova piena realizzazione grazie alle raffinate doti di storyteller della sua autrice, che mette in scena anche a livello grafico il forte contrasto tra atmosfere da sit-com familiare e violenza splatter. Lo stile pop della Jones, che a momenti ricorda la grafica angolare dei lungometraggi Disney degli anni ’60, unito ai colori volutamente pastello di Laura Allred e Michelle Madsen, contribuiscono a creare una elegante e riuscita atmosfera retrò squarciata però da improvvise esplosioni di sangue e violenza. Le notevoli capacità da “regista” dell’autrice emergono con forza dalle tavole, grazie ad una scansione delle vignette adrenalinica che imprimono un ritmo e azione alla trama. Una prova di altissimo profilo, che è giustamente valsa alla Jones riconoscimenti e incarichi di alto profilo alla DC Comics.

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Panini Comics ristampa in uno splendido cartonato oversize le due mini di Lady Killer finora uscite, (nella prima la Jones viene supportata ai testi da Jamie S. Rich) ,precedentemente pubblicate in due volumi separati. Un’occasione da cogliere al volo per fare conoscenza col personaggio di Josie Schuller, prima che si trasferisca sul piccolo schermo col volto di Blake Lively in un lungometraggio di prossima uscita per Netflix.

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Batman: arriva in Italia il cofanetto con lo storico Batmanga di Jiro Kuwata

  • Pubblicato in News

Arriva in Italia per la prima volta lo storico manga di Batman realizzato da Jiro Kuwata negli anni 60. Trovate qui tutti i dettagli dell'opera edita da Panini Comics.

"La sua origine risale al Giappone degli anni Sessanta quando, al culmine della popolarità della serie TV del Batman interpretato da Adam West, viene realizzato dal mangaka Jiro Kuwata un manga che racconta l’affascinante storia dello sbarco in Giappone del Cavaliere Oscuro. Rimasta quasi sconosciuta fuori dal Giappone per oltre 40 anni, questa miniserie composta da 53 capitoli è stata riscoperta e meticolosamente restaurata per essere presentata per la prima volta in Italia in versione integrale (completa di tutte le pagine a colori) e divisa in tre volumi, già disponibili singolarmente o raccolti anche in un elegante cofanetto.

Un pezzo da collezione unico e imperdibile per tutti i fan del supereroe di Gotham.

Uscita: 26 maggio 2022
Prezzo: 18 euro singolo volume, 54 euro il Cofanetto
Pagine: 384
Rilegatura: Brossurato
Formato: 14.5x21 cm
Interni: Bianco e nero / Colori
Distribuzione: Fumetteria, libreria, online

Foto cofanetto Batmanga 1

Foto cofanetto Batmanga 2

Foto cofanetto Batmanga 3

L’AUTORE

Nasce nel 1935 a Osaka. Debutta come mangaka ad appena tredici anni realizzando il volume Kaiki seidan ("La costellazione misteriosa"). Il suo grande successo è datato 1957: è Maboroshi Tantei ("Il detective fantasma"), pubblicato sulla rivista Shonen Gaho. La popolarità dell’autore si consolida grazie alla versione a fumetti del capostipite dei supereroi giapponesi, Gekko Kamen. Nel 1963 8 Men, presentato su Shonen Magazine, diventa una serie animata e ottiene un successo senza precedenti. Jiro Kuwata si spegne nel 2020, a ottantacinque anni."

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Proctor Valley Road, recensione: Grant Morrison e l’horror per ragazzi

Proctor Valley Road

Tutti i ragazzi hanno avuto quella fase in cui la maturazione richiedeva negoziazione con gli altri, cameratismo, complicità e sfida nei confronti del gruppo di amici più stretto. E, chiunque, ha avuto l’estate (o qualunque altro periodo limitato di tempo) alla Stand By Me. Di certo ci si augura non esattamente come il racconto (poi film) di Stephen King, ma come quella sorta di “tempo senza tempo” che gli occhi dell’adulto rileggono con nostalgico desiderio.
Aver citato Stand By Me non è un caso, poiché la storia di The Body scritta da King e divenuto film di Rob Reiner è il “romanzo di formazione contemporaneo” che più si è sedimentato nell’immaginario pop (insieme a, forse, solo The Goonies, ma per altre ragioni narrative), creando una schiera di emuli più o meno riusciti da Piccoli Brividi a Stranger Things. L’horror, il disturbante, l’inquietante incontra la pubertà ed entra a far parte del processo di crescita dei personaggi.

Grant Morrison con Proctor Valley Road intraprende (per restare in tema) la stessa strada: sceglie, come dimensione nostalgica del proprio racconto, l’estate del 1970, la sonnolenta cittadina californiana di Chula Vista e la “strada più infestata da demoni” del titolo.
Le quattro ragazzine protagoniste del graphic novel vogliono racimolare i soldi per andare a un concerto di Janis Joplin e, tra le diverse trovate per guadagnare, decidono di improvvisare un tour guidato lungo l’inquietante Proctor Valley Road. I tre ragazzi coinvolti in questo bizzarro tentativo però spariscono improvvisamente nel buio della strada. Per le protagoniste inizia un incubo dal quale dovranno uscirne lottando contro un antico pericolo: la Locataria.

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Morrison, coadiuvato ai testi da Alex Child, utilizza molti degli stilemi classici del romanzo di formazione a volte, forse, in maniera troppo pedissequa che sembrano distanti dal mood dei racconti a cui l’autore britannico ha abituato i lettori. Non mancano chiaramente, i “guizzi” narrativi alla Morrison nei dialoghi, negli scambi di battute e, specialmente, nella caratterizzazione di alcuni villain. Complice lo spaccato socio-culturale dell’epoca raccontata nella storia, è forte la sensazione di un tempo passato, “mitico” e trasognante, un tempo di corto circuiti culturali e politici e di libertà tout court a volte svilita o fraintesa. Il Sogno Americano interpretato da due autori britannici si declina presto nell’orrorifico dietro le quinte dello stesso, delle fragilità di una società da sempre e spesso incapace di gestire le contraddizioni. E questa incapacità si riversa sulle nuove generazioni: le protagoniste di Proctor Valley Road sono outsider del proprio contesto, del normativo culturale opprimente e per questo si ritrovano invischiate nell’eccezionalità demoniaca del racconto.

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Nonostante la presenza di Morrison permette a una lettura a più livelli, i disegni di Naomi Franquiz palesano immediatamente la fascia d’età a cui il graphic novel è destinato in prima istanza: gli adolescenti. Inquadrature dal forte gusto cinematografico, vignette fortemente incentrate sui personaggi, graficizzazione quasi caricaturale degli stessi. Anche i colori di Tamra Bonvillain si assestano sulla medesima direttrice. Per quanto non manchino un pizzico di sangue, budella e carne in marcescenza, l’equilibrio tra disegno e colori non permette mai all’immagine di sfociare verso il Grand Guignol, consegnando la lettura al pubblico più giovane.

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Edito da Panini Comics nella collana 100% HD, il volume è un pregevole contenitore: copertina cartonata soft touch, grande qualità di stampa e cover gallery finale. Non il Morrison migliore e in grande spolvero, dunque, ma un tassello importante per la sua carriera artistica perché incursione in uno specifico tassello del genere fantastico e horror a cui, prima o poi, quasi tutti i grandi autori si sono cimentati. E lo ha fatto senza mai deviare dal suo percorso: ha solo imboccato una strada per lui ancora sconosciuta.

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