La tempesta. La lega degli straordinari gentlemen, recensione: la fine della saga di Alan Moore e Kevin O'Neill
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Chi, come noi, ha sempre ammirato il genio di Alan Moore, che lo ha costantemente appoggiato nei suoi eccessi contro Marvel e DC o nei suoi atteggiamenti un po’ altezzosi verso le major hollywoodiane, che ha accettato come semplici stramberie di un autore fuori dagli schemi la sua misantropia o il suo bizzarro interesse per magia e occultismo, un articolo del genere non avrebbe mai voluto scriverlo. Sapevamo che il momento prima o poi sarebbe arrivato, ma lo sconforto che in questi ultimi due anni ha seguito ogni annuncio di un ulteriore rinvio per l’uscita de La Tempesta (capitolo finale de La Lega degli Straordinari Gentlemen, la serie che può ormai essere considerata – almeno in ambito fumettistico – il testamento artistico dello scrittore inglese), veniva presto sostituito dal sollievo di sapere che sarebbe passato ancora del tempo prima di avere tra le mani il volume che avrebbe segnato l’addio definitivo del bardo di Northampton alla Nona Arte. Non ce ne vogliano i grandi maestri tuttora in attività, ma non possiamo fare a meno di pensare che, senza un gigante come Alan Moore, il nostro amato mondo delle nuvole parlanti non sarà più lo stesso.
Un’amarezza che ha accompagnato anche la lettura di questa saga conclusiva, dato che, fin dalle pagine iniziali, l’intenzione dell’autore britannico di voler tirare le fila alla sua lunga - e spesso travagliata - carriera, di esaltare i temi a lui cari e, soprattutto, di celebrare l’intero immaginario che ha contribuito in maniera determinante a influenzare il suo lavoro è apparsa più che evidente. E chi conosce la cura maniacale per i dettagli con cui Moore ha sempre caratterizzato la sua scrittura, comprenderà facilmente come, con un preambolo di questo tipo e con poche righe a disposizione, pensare di arrivare a un’analisi accurata de La Tempesta sia un’impresa destinata al sicuro fallimento. Siamo altrettanto certi, tuttavia, che pure una semplice descrizione dei suoi tratti essenziali sia perfettamente in grado di fare emergere la grande ricchezza di contenuti del testo. Un’affermazione che trova immediato riscontro nella trama – al solito acuta e raffinata - che riprende esattamente dal punto in cui si era interrotta nel finale di Century, il precedente capitolo della serie. Vediamo, infatti, Mina Murray, Orlando ed Emma Night giungere a Kor, in Uganda, e immergersi nella sorgente di Ayesha, grazie alla quale l’ormai anziana Night recupera la sua giovinezza e acquisisce il dono dell’immortalità, come successo parecchi anni prima alla stessa Murray. La scena si sposta, quindi, a We nel 2996, dove la soldatessa geneticamente modificata Satin Astro riesce a fuggire nel passato, nel tentativo di impedire gli eventi che hanno portato al suo distopico futuro. E mentre a Londra l’autoproclamato M dei servizi segreti si mette sulle tracce della latitante Night, questa assieme alle sue due nuove compagne prova a trovare rifugio presso l’Isola Lincoln, governata dal pirata Jack Dakkar, pronipote del leggendario Capitano Nemo.
A coloro che conoscono la Lega degli Straordinari Gentlemen per sommi capi, magari solo per aver visto il (brutto) film che la 20th Century Fox le ha dedicato nel 2003 o a chi si è appassionato alla serie televisiva Penny Dreadful, che riprende alcuni meccanismi narrativi del fumetto, questo breve accenno alla storia raccontata nel volume potrebbe far credere di essere di fronte a qualcosa di simile. In effetti, quando la collana fu concepita nel 1999, come parte del progetto America’s Best Comics, per la Wildstorm di Jim Lee, la premessa sembrava essere proprio quella. All’epoca, Moore, ispirandosi nel nome al film inglese The League of Gentlemen del 1960 - conosciuto in Italia con il titolo Un colpo da otto - e nei contenuti alla Wold Newton Family di Philip José Farmer, ideò un brillante mix tra il fumetto supereroistico (non sfuggirà l’utilizzo del termine “league” come probabile riferimento alla Justice League della DC) e la letteratura di fine Ottocento, immaginando che l’Impero Britannico, per recuperare la preziosissima cavorite (fittizia sostanza in grado di far volare le macchine, menzionata per la prima volta nel romanzo I primi uomini sulla Luna di H. G. Wells), avesse deciso di riunire un gruppo di individui dotati di abilità fuori dal comune. Della formazione facevano parte Mina Murray (ex moglie di Jonathan Harker, uno dei protagonisti del Dracula di Bram Stoker), l’esploratore e abilissimo cacciatore Allan Quatermain (un personaggio di Henry Rider Haggard), il Capitano Nemo (il noto comandante del Nautilus, apparso in Ventimila leghe sotto i mari), il mostruoso Edward Hyde (alter-ego del Dott. Henry Jekill, dal racconto di Robert Louis Stevenson) e Hawley Griffin (l’uomo invisibile dell’omonimo romanzo di H.G. Wells). In altre parole, lo scrittore di Watchmen suggeriva che il concetto di superuomo, diventato popolarissimo negli Stati Uniti alla fine degli anni Trenta, ma già intravisto qualche anno prima in alcuni degli eroi dei pulp magazine, discendesse da una naturale tendenza dell’uomo a immaginare esseri eccezionali, che in un’intervista per CBR del 2007, l’autore ha fatto addirittura risalire alla mitologia greca.
Questa convinzione ha trovato via via sempre maggiore spazio all’interno della serie, cominciando a concretizzarsi nel Black Dossier, sorta di intermezzo tra la seconda avventura della Lega (quella che si rifà alla Guerra dei mondi di Wells) e Century, in cui Moore, libero dalle restrizioni della DC - dove, nel frattempo, si era accasata la Wildstorm - in seguito all’ennesimo litigio con i suoi vertici, allargò di molto il campo delle sue fonti, iniziando a includere pure il teatro, il cinema, la televisione e il fumetto stesso, attraverso una prosa più cervellotica e una narrazione, a tratti, davvero difficile da seguire. Inoltre, anche la sua caustica irriverenza, tenuta parzialmente a freno nei primi due capitoli, cominciò a manifestarsi con forza, fino a esplodere proprio nel finale di Century, nel quale il campione della cultura pop di allora, il maghetto Harry Potter, veniva trasformato nientemeno che nell’Anticristo, destinato, per giunta, a soccombere per mano di una manifestazione di Dio con le fattezze di Mary Poppins.
Ed eccoci, infine, a La Tempesta, dove l’inno che l’autore inglese ha scelto di comporre per glorificare la fantasia dell’uomo raggiunge il suo apice. La vicenda è, se possibile, ancora più complessa e stravolge del tutto l’assunto di base della serie, abbattendo definitivamente la già esile barriera che separava realtà e finzione, tanto che, dopo poche pagine cominciamo a vedere le opere di William Shakespeare condividere lo spazio con semplici filastrocche per bambini, i romanzi di Virginia Woolf mescolati alle canzoni dei Beatles, il feuilleton di fine Ottocento trasfigurato nelle avventure di misconosciuti supereroi britannici del secondo dopoguerra, i protagonisti dei viaggi straordinari di Jules Verne confondersi con gli alieni di Star Trek e avanti così fino al deflagrante finale, certi di aver perso chissà quanti altri dettagli o riferimenti nascosti. Ciò nonostante, quello che lascia davvero stupefatti, non è l’enorme numero di personaggi coinvolti o tutti gli scenari messi in campo, ma il fatto che Moore riesca sempre a rimanere saldamente ancorato alla trama, senza dare mai l’impressione di perdersi in divagazioni fini a sé stesse. Ogni rimando, omaggio, allusione mostra costantemente di avere una sua ragion d’essere, pur essendo parte di una fantasmagorica allegoria, dove le tavole liberty di Little Nemo si uniscono alle scenografie in 3D del Mondo Fiammeggiante o dove le patinate immagini dei fotoromanzi arrivano a convivere con l’umorismo scorretto di strip inglesi ormai dimenticate.
E in questa magnificazione della creatività, perfino la crescente disillusione dello scrittore nei confronti del fumetto contemporaneo sembra attenuarsi, relegando il suo livore verso la cupidigia dei grandi editori al ricordo di alcuni cartoonist britannici finiti nell’oblio (ai quali è dedicata una rubrica all’inizio di ogni episodio), mentre il suo sarcasmo e il suo gusto per lo scherno vengono dirottati nell’esilarante finta pagina della posta che chiude ogni albo, in cui Moore prende amabilmente in giro le improbabili missive dei giovani lettori di una volta. L’autore inglese, tuttavia, non resiste alla tentazione di mostrare cosa pensi dell’utilizzo continuo di tematiche strabusate o dell’eterno sfruttamento dei soliti character, così come non esita a evidenziare con enfasi a quali personaggi vadano le sue preferenze, sulla base di quanto aveva già fatto trasparire nel Black Dossier. Esemplare, in proposito, è lo scontro finale tra James Bond (mai chiamato con il suo nome per intero, per ovvi motivi di copyright, ma solo Sir James o Jimmy) ed Emma Night (ovvero la Emma Peel di Agente Speciale), dove è la seconda a prevalere e a cui Moore fa dire: “Jimmy… hai avuto una bella vita, ma è finita da tempo”, lasciando intendere di non gradire affatto il continuo apparire di nuove incarnazioni dell’agente 007, tanto da spingersi a ridicolizzare platealmente i sei attori che finora ne hanno vestito i panni al cinema. Alla fine, però, è il richiamo nostalgico a predominare su tutto, nella consapevolezza che il fumetto che lui ha tanto amato e con il quale è cresciuto non esiste più. Da qui le copertine degli albi che omaggiano alcune storiche testate inglesi (similmente a quello che lo scrittore britannico aveva già fatto con i comic book in Tom Strong – di cui La Tempesta ne raccoglie e ne espande le intenzioni – e ancora prima con la stravagante miniserie 1963) o le schede in stile Who’s Who dedicate ai membri dei Seven Stars, poste nella quarta di copertina di ogni numero. Fino ad arrivare alle battute conclusive, dove, con le nozze tra Capitan Universo ed Electro-Girl, Moore cita apertamente uno dei più noti matrimoni di casa Marvel, quello tra Mr. Fantastic e la Donna Invisibile, riproponendo la celebre gag meta-fumettistica nella quale a Stan Lee e Jack Kirby non veniva permesso di partecipare ai festeggiamenti.
Ci sarebbe ancora moltissimo da dire sulla sceneggiatura, ma così facendo, rischieremmo di non dare la giusta importanza ai disegni di Kevin O'Neill, pure lui all’ultimo lavoro importante della sua carriera con La Tempesta (dopo la quale si è limitato a realizzare qualche copertina e a illustrare alcune pagine del libro di magia che, nel frattempo, il buon Alan ha realizzato in coppia con Steve Moore), alla cui riuscita, è bene sottolinearlo, il suo contributo è risultato più che determinante. Se, infatti, nei primi due capitoli, pur continuando a rappresentare i personaggi attraverso le sue tipiche figure oblunghe, distorte e spigolose - con un occhio inevitabilmente rivolto anche all’iconografia vittoriana -, le tavole abbracciavano distintamente le atmosfere steampunk volute da Moore, già nel Black Dossier e ancora di più in Century, avevamo assistito a un progressivo mutamento del suo stile, per adattarlo al nuovo assetto deciso dallo scrittore per la serie. Ne La Tempesta la metamorfosi giunge a compimento e O’Neill recupera del tutto la sua propensione per il grottesco e per la caricatura. Inoltre, le vignette si riempiono di dettagli surreali, improbabili geometrie, effetti a metà tra il cubismo e l’espressionismo (e per quanto riguarda questo aspetto, complimenti ai grafici della Bao Publishing per essere riusciti nel non facile compito di mantenere nell’edizione italiana le suggestioni dell’opera originale), e il tratto del disegnatore di Marshal Law si trasforma spesso in maniera radicale, pur di emulare quello dei numerosissimi autori evocati dal suo partner creativo, preda, come detto, di un furore citazionista senza limiti. Un cambiamento che di frequente diventa così repentino e vorticoso, da rendere inevitabile la presenza di alcune incertezze e semplificazioni nei personaggi, di cui a farne le spese sono soprattutto le tre protagoniste, le quali, a volte, se non fosse per i diversi abiti che indossano, sarebbero quasi indistinguibili. Un’approssimazione che ci sentiamo tranquillamente di perdonargli, anche perché non influenza minimamente la qualità complessiva del suo lavoro, dove, peraltro, è evidente il divertimento con cui l’artista britannico ha assecondato ogni idea balzana passata per la testa di Moore. Anzi, a volte si ha persino l’impressione che O’Neill ci abbia messo molto del suo. Basti vedere, per esempio, la vignetta che mostra l’emergere del Signore di Marte, nella quale si riconoscono tutti i più importanti “marziani” della fiction, compresi quelli delle figurine di Mars Attacks!, riportati in auge da Tim Burton nel film omonimo del 1996.
E con quest’ultima annotazione è giunto anche per noi il momento di calare il sipario. Inutile dire che sarà difficile, per qualche tempo, non provare un pizzico di malinconia ogni volta che vedremo i fumetti di Moore spuntare dalla nostra libreria, oppure resistere all’impulso di rileggere qualche pagina di V for vendetta all’apparire della maschera di Guy Fawkes dopo l’ennesimo attacco informatico messo a segno da Anonymous. Eppure – lo confessiamo – ancora più arduo sarà, in entrambi i casi, riuscire a trattenerci dal rivolgere gli occhi verso il cielo, sperando di poter arrivare con lo sguardo fino alla Nube di Oort e di scorgere Edward Hyde e Mina Murray impegnati nel loro ballo senza fine.