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Final Crisis come together

Attenzione: le righe che seguono contengono spoiler su Final Crisis #1-7

Quando, quasi due anni fa, comparve in rete il primo teaser di Final Crisis, molti erano incerti su cosa aspettarsi. L’immagine pubblicitaria – realizzata da J. G. Jones – che venne usata (pare all’insaputa di Grant Morrison) era estremamente generica: una semplice foto di gruppo della JLA, con un cielo stellato dall’aria vagamente kirbyana alle spalle. Anche la tagline voleva dire tutto e niente: “Heroes die. Legends live forever”. Per di più il teaser di Final Crisis compariva in uno dei massimi momenti di sfiducia nei confronti della DC degli ultimi anni, quando cioè – a causa tanto di vicissitudini interne quanto del settimanale 52 che aveva completamente assorbito tutti i principali scrittori – la casa di Superman era funestata da ritardi nelle uscite, cambi di storyline in corsa e in generale da tutti i problemi che concorrono ad uccidere l’entusiasmo per una lettura supereroistica. Dulcis in fundo, lo stesso accenno alle “Crisi” non era di buon auspicio: molti erano rimasti scottati dall’esito di Infinite Crisis e probabilmente non avevano voglia di tornare a rimestare con terre parallele e Monitor vari.

Si può dire che praticamente l’unica cosa che accendesse un minimo di entusiasmo per questo lavoro era il nome dello scrittore, quel Morrison che allora stava producendo quella pietra miliare che è All Star Superman (e, in secondo luogo, destreggiandosi con i misteri di Batman pre-R.I.P.) e che per molti – compreso il sottoscritto – pareva l’unico in grado di districarsi in un groviglio narrativo che pareva ormai esaurito o quasi. Un po’ di entusiasmo – ma direi assai più contenuto – probabilmente lo suscitava anche il disegnatore designato, J. G. Jones, in ascesa fra i DC-fan grazie alle splendide copertine di 52.

Final Crisis è finita il 28 gennaio. Qual è il bilancio, a caldo? Difficile dirlo. Final Crisis sembra uno di quei lavori fatti apposta per indispettire i fan, ed infatti le reazioni da parte dei lettori, a quanto si può raccogliere in giro per la rete, sono quantomeno divise. Abituati al formato classico degli eventoni estivi, tipo Secret Invasion o Infinite Crisis, storie cioè molto più lineari pensate per accontentare il maggior numero possibile di persone, una storia come FC, piena di ambizioni autoriali e narrazioni anticonvenzionali, può lasciare interdetti. Più che negative, le reazioni di coloro che non hanno apprezzato la storia sono sconcertate: sembra che nessuno riesca ad inquadrare la saga in un ambito preciso, o anche solo a capire se ci sia una logica dietro la follia di certi snodi narrativi. L’altra faccia, della medaglia, tuttavia, è che Final Crisis sembra aver raccolto un apprezzamento molto più ampio fra gli addetti ai lavori, recensori e studiosi del fumetto (l’ultimo albo ha raccolto parecchie recensioni positive e anche entusiaste su siti popolari come Newsarama e Comicbook Resources), e soprattutto – cosa quasi impossibile per un eventone mainstream, ossia “commerciale” – sta ispirando analisi e disamine della poetica della storia: veri e propri piccoli saggi che mirano ad approfondire dettagli e sfumature della storia, in rapporto alla poetica morrisoniana e della storia del fumetto (alcuni link li trovate in fondo a questo scritto).

Si può dire, in definitiva, che così come ci era stato promesso Morrison (e non una crisi “classica”), così ci è stato dato; e non il Morrison più commerciale di JLA, ma quello cerebrale ed ambizioso di Seven Soldiers. Tenendo quindi anche conto dei suoi lavori precedenti, della sua poetica, e delle interviste rilasciate in merito alla saga, si tenterà, nelle prossime righe, di analizzare i vari aspetti di Final Crisis e di fornirne una panoramica, se non completa, almeno sufficientemente abbozzata. Tenendo conto però di una regola fondamentale: praticamente ogni sequenza della storia, e moltissime singole vignette, hanno almeno due livelli di lettura, passando da quello meramente narrativo a quello simbolico, o metafumettistico.
 
Il bene e il male

Insomma, di cosa parla questa Final Crisis? A grandi linee, è la ripresa di una vecchia trama della JLA, e precisamente Rock of Ages, in cui i personaggi finivano su una Terra alternativa dominata dal dio del male Darkseid (una classica creazione DC, per chi non lo sapesse, di Jack Kirby). In Final Crisis succede praticamente la stessa cosa, ma nel DC Universe “reale”: Darkseid, grazie alla diffusione dell’equazione dell’antivita (una sorta di formula verbale che annulla la volontà) riesce a conquistare la Terra, corrompendo parte degli eroi e costringendone altri a combattere un’isolata e disperata battaglia contro le forze del male. Oltre a ciò, l’avvento di Darkseid ha provocato una frattura nello spazio tempo, e il Multiverso DC (ricreatosi alla fine di 52 in una struttura conica rovesciata che comprende le 52 terre, di cui il vertice è la Terra Zero, ossia quella principale) sta collassando su se stesso. Gli eroi dovranno quindi anche trovare il modo di salvare la struttura delle terre alternative. In mezzo a tutto ciò, c’è spazio per diversi lutti eccellenti e il ritorno del Flash storico, Barry Allen.

Questo in linea di massima. Ma già nella connotazione dei principi in campo, Morrison si prende delle libertà. Nella saga del Quarto Mondo di Kirby, i malvagi dèi del pianeta infernale Apokolips e quelli benevoli di Nuova Genesi erano sostanzialmente degli alieni molto potenti, più che degli dèi: qualcosa, per dare l’idea, di paragonabile ai vecchi Masters of Universe e agli scontri fra He-Man e Skeletor (un vecchio e pessimo film su He-man del 1987, in effetti, era nato proprio da una vecchia sceneggiatura sui New Gods poi rimaneggiata). In Final Crisis, come già in Seven Soldiers (di cui fa parte il quasi-prologo alla saga, la storia in quattro parti su Mister Miracle), Morrison ricrea la mitologia kirbyana, mostrando degli dèi veramente “divini”, che hanno influenzato il corso della razza umana e la sua evoluzione fin dagli albori. Final Crisis si apre e chiude su Anthro, il “primo ragazzo sulla Terra”, un vecchissimo personaggio DC Comics, che riceve in dono da Metron, il dio della conoscenza, il fuoco, un po’ come le scimmie con il monolito nero di 2001; ma c’è anche un’ovvia citazione del mito di Prometeo e – come evidenziato nella settima puntata – della rivelazione a Mosè attraverso il roveto ardente (oltre a ciò, Metron compie miracoli; nello specifico, permetterà alla materia bruta – un cubo di Rubik – di diventare una macchina divina – che poi è ciò che fa la scienza). Inoltre, Morrison tende ad assottigliare il confine che esiste fra uomini e dèi. Più volte nel corso della saga viene sottolineato che Darkseid è presente in tutti noi, e la scena di Metron che dona il fuoco può essere anche interpretata come un passo fatidico di un’evoluzione già presente nel DNA del personaggio (e dell’uomo in generale). Gli dèi di Morrison sono per certi versi simili agli Eterni di Neil Gaiman, ossia l’incarnazione di impulsi ancestrali (sia positivi che negativi) presenti in tutti gli esseri umani. Quando Wonder Woman viene invasata dalle Furie femminili, non è semplicemente posseduta: diventa una versione sfrenata di se stessa, priva di impulsi inibitori, molto simile (e tale connotazione è confermata da Morrison in persona) alle classiche Baccanti (sia nell’ebbrezza della guerra, sia in alcuni riferimenti sessuali). In una recente intervista, l’autore ha confessato di aver creato la Wonder Woman di FC a partire da certe connotazioni distorte (comprese le scene di bondage) presenti nella versione classica del personaggio. Così per Mary Marvel, la cui “possessione” è infatti totalmente differente da quella subita da Diana; dove quest’ultima è una sorta di macchina da guerra, l’altra è una specie di versione ipermaliziosa di se stessa, quasi buffa nei suoi atteggiamenti loliteschi e sadici (Morrison l’ha interpretata come una versione distorta di Paris Hilton); il che è appunto una variante disinibita della classica connotazione da “bambina” del personaggio. In entrambi i casi, la volontà di Wonder Woman e quella di Mary Marvel non sono così distinte da quelle degli dèi che le hanno invasate; potrebbe essere tanto la volontà degli dèi che piega quella dei personaggi, ma anche che i personaggi abbiano dato la stura ai loro atteggiamenti più istintivi e segreti (ma, appunto, strettamente personali). Come viene detto chiaramente nell’epilogo dell’albo n.7, vediamo cosa succede quando “il peggio che è in noi viene liberato”.

Cos’è il bene per Morrison? Anthro, il primo ragazzo sulla Terra, una volta ricevuto il fuoco (il primo “superpotere”, a detta di Morrison), lo usa per battere Vandal Savage (un classico nemico della JSA, un malvagio immortale nato all’età della pietra). Il primo “supereroe” contro il primo “supercattivo”. Tuttavia, tale scena viene immediatamente controbilanciata da un monologo interiore di Dan Turpin, in cui successivamente si incarnerà lo stesso Darkseid, in cui il fuoco viene descritto come un portatore di morte e distruzione. Poter creare la fiamma è quindi un potere, e spetta all’uomo decidere se usarlo bene o male (ovvero, se lasciarsi invasare da Darkseid o dagli dèi “buoni”). Per Anthro, però, nello specifico, il fuoco non è solo un’arma. Nel finale, gli ultimi pensieri dell’anziano cavernicolo si riferiscono proprio alla fornace della propria mente, dove sono stati “accesi” nuovi pensieri (non a caso, le didascalie che descrivono le sue azioni sono ora scritte con una grammatica corretta, mentre alla sua prima apparizione tutto era muto o inintelleggibile). Il fuoco ha quindi anche un valore simbolico, è l’evoluzione positiva dello spirito umano, l’atto di creazione di nuovi concetti nella propria mente e la possibilità, di conseguenza, di realizzare tali concetti. In Final Crisis #7, Superman utilizzerà il fuoco del trono di Metron (un’altra scena prometeica) per poter accendere la Macchina dei Miracoli che riporterà in vita il mondo. Inoltre la Macchina viene descritta da Darkseid come una sorta di prototipo imperfetto delle scatole madri (“a cargo cult mother box”), che sono un attributo degli dèi; e nel momento in cui Superman la accende, sotto la sua mano compare appunto una galassia, a rieccheggiare un’immagine classica della creazione del mondo che risale alla vecchia Crisi sulle Terre Infinite. Usare il fuoco degli dèi significa contemporaneamente: evolversi; quindi accendere nella propria mente dei nuovi concetti; quindi realizzarli (il desiderio della Macchina dei Miracoli), diventando sempre più simili agli dèi. C’è insomma una sorta di linea evolutiva continua che porta da Anthro a Superman fino agli dèi, che inizia con il fuoco nel roveto, fino alla Macchina dei Miracoli e, molto tempo dopo, alle scatole madri, in una sorta di progressivo “sgrezzamento” di se stessi e della propria mente. Evolversi significa diventare sempre più simili agli dèi; e gli dèi non sono altro che la versione “pura”, totalmente evoluta e sgrezzata, degli esseri umani.

Oltre a ciò, Anthro utilizza due simboli sacri: un sigillo che rappresenta, stilizzata, la macchina degli dèi (e che gli permette temporaneamente di avere una visione profetica di Kamandi nell’albo n.1, come se il solo simbolo assumesse in sé un po’ del potere della macchina vera e propria), e un segno sul volto che, come scopriranno gli eroi nel corso della saga, garantisce una parziale immunità all’antivita. Simbolicamente, quindi, oltre all’evoluzione (dal fuoco alla Macchina alla scatola madre), il bene è anche libertà dai vincoli; l’evoluzione non deve essere “costretta” entro termini rigidi, ed è anche la conquista di un’individualità; quindi un progresso libero, sano e creativo (il fuoco degli dèi può assumere qualunque forma, dice Superman) dell’umanità. Da notare che entrambi i simboli sono presenti sulla tuta di Metron, all’altezza della testa e del cuore; che sono peraltro gli stessi punti dove Batman viene colpito dai raggi Omega di Darkseid.

Di conseguenza, il male sarà un regresso distruttivo e omologatore, come effettivamente dimostrano gli accoliti di Darkseid, che sono divisibili in tre gruppi distinti. Il primo sono i già citati invasati, coloro cioè che si lasciano soverchiare dai loro impulsi più bestiali e dannosi (Wonder Woman, le Furie, Mary Marvel). Gli altri sono le persone sottomesse dall’antivita, cioè dall’aspetto omologatore del male. I soldati di Darkseid, i Justifiers, non hanno un volto né una volontà, sono sostanzialmente delle creature amorfe; nell’albo 4, la città in mano a Darkseid è una sorta di incubo orwelliano, con televisori e altoparlanti che riprendono lo slogan dell’antivita. Da notare, inoltre, che Darkseid è fin dall’inizio della storia un dio morente che continua a cercare di sopravvivere (è stato ferito da Orion, e appare con le gambe malferme o semiparalizzate per tutta la durata della storia, e continua a persistere, sia pure come un’essenza indebolita, anche dopo la distruzione del suo corpo fisico), e rappresenta, a detta di Morrison stesso, il simbolo della stagnazione e della non accettazione del cambiamento.

Ci sono infine i liberi, cioè coloro che volgono deliberatamente il proprio credo a Darkseid. Il campione di essi è naturalmente Libra, un mediocre criminale che diventa un fanatico seguace del Signore di Apokolips e che impiega il proprio tempo a cooptare gli altri supercriminali del DC Universe. I supercriminali servono sia a fornire “carne da cannone” dotata di superpoteri per l’esercito di Darkseid (Giganta, per esempio, diventa una delle Furie; così come nell’esercito di Darkseid entrano Human Flame, Killer Croc, e negli one-shot e nelle miniserie di contorno vediamo tra i Justifiers anche Grodd), sia come complici nel piano iniziale di Libra per mettere fuori gioco i supereroi (Clayface, per esempio, contribuirà a mettere fuori combattimento Superman piazzando una bomba nel Daily Planet, mentre nella miniserie Rogues’ Revenge Libra cerca di convincere i nemici di Flash a venire dalla parte di Darkseid per poter controbattere l’imminente ritorno di Flash). Ma oltre a Libra, tutti i supercriminali di “peso” (Luthor, Sivana, Calculator, Vandal Savage e Ocean Master) scelgono deliberatamente il male; qualcuno per sete di potere resterà dalla parte di Darkseid (nel finale Ocean Master combatte l’insorgenza di Aquaman), mentre i più individualisti ed umani all’ultimo momento andranno dall’altro lato della barricata, contribuendo in maniera sostanziale alla vittoria dei buoni. Per loro, come per Anthro, che per tutta la vita ha disegnato i simboli di libertà in giro per il mondo, l’importante è che “il fuoco continui a bruciare” (e non è un caso che l’erede di Anthro sia proprio colui che meglio di tutti ha rappresentato la vittoria dello spirito umano sui suoi istinti più deteriori, ossia Batman).

Channel-zapping comics!

L’aspetto che più di tutti ha turbato i lettori di Final Crisis, tuttavia, è la peculiarissima tecnica di narrazione adottata da Morrison per la saga. Che non solo è mostruosamente compressa, ma adotta una serie di bizzarri “salti” da una scena all’altra, apparentemente senza alcuna logica (Channel-zapping comics, come lo stesso Morrison la definisce). In realtà la tecnica non è – ovviamente – casuale, ma accuratamente studiata per portare al lettore le informazioni che servono, sia pure in una maniera insolita (e naturalmente se non si è disposti ad accettarla, a stare “al gioco”, probabilmente è meglio non iniziare nemmeno a leggere la storia).

Il problema storico di eventoni come Infinite Crisis o Secret Invasion sta proprio nel loro sovraffollamento. Costretti a giocare con almeno una quarantina di personaggi (alcuni dei quali in ruoli minimi, praticamente dei camei), gli autori spesso non riescono (o, nel caso peggiore, non ci provano nemmeno) a dare a ciascuno il giusto spazio. Il risultato è una sorta di depersonalizzazione della storia, in cui i personaggi si muovono come figurine senza troppo senso (un segnale d’allarme, in questi casi, è che tutti i personaggi nei dialoghi cominciano a chiamarsi continuamente per nome anche senza che ce ne sia motivo...“Come va, Batman?” “Bene, Superman. E tu, Question, tutto bene?””Ah, tutto ok, vero Wonder Woman?”, e via dicendo). Ad una prima occhiata, Final Crisis sembra rientrare nel numero. Tuttavia, con un minimo di attenzione, ci si accorge che ogni singola vignetta è letteralmente stracolma di particolari o di sfumature, nei dettagli nei disegni o nei dialoghi, ed ognuno di essi è portatore di un’informazione importante sul personaggio o sul mood della storia. Che, in pratica, non va letta linearmente, ma soffermandosi sul singolo passaggio, ricostruendo nella propria mente la successione degli eventi e facendo combaciare la sequenza con altre già viste. Il che, ovviamente, comporta un tempo di lettura infinitamente più lungo della media.

Un esempio concreto. C'è una vignetta, nel numero 3, che raffigura Supergirl mentre dà l'addio al suo gatto prima di recarsi ad una riunione con gli altri supereroi. La vignetta è decisamente minore rispetto alla storia nel suo insieme, ma è densissima di particolari interessanti e indizi su chi raffigura. Non c'è nulla di lasciato al caso. L’appartamento di Supergirl è ricolmo di tavolozze, progetti di costumi alternativi, muri color pastello, una macchina da cucire, il gatto. In pratica nella singola vignetta c'è tutto il vissuto di Supergirl, la sua personalità. Una singola vignetta, ma così incredibilmente espressiva da lasciare di stucco.

Ed è così per tutta la serie; l’approccio non è tanto quello della lettura tipica di questo genere di storie, ma è più come esaminare una galleria d'arte in cui da ogni quadro bisogna cogliere tutti i retroscena dei personaggi raffigurati. Sequenze di questo tipo, densissime e ricche di informazioni, sono praticamente la regola. Nel n.6, in due vignette, quando Renée Montoya, l’attuale Question, viene presentata al supercomputer Lord Eye dell’organizzazione segreta Checkmate, abbiamo in un colpo solo: la creazione del Global Peace Corps, l'arruolamento di Renée, il piano del Black Gambit, e persino dettagli sulla sorte finale di Maxwell Lord due anni dopo Infinite Crisis. Potenzialmente, la cosa coinvolge enormemente proprio per il fatto che il lettore è costretto ad assumere un ruolo attivo all'interno della storia, non a subirla.

È probabile che la cosa abbia anche una necessità tecnica. Costretto entro i rigidi confini di una miniserie-eventone con una storia dalla portata così enorme, Morrison ha quasi sicuramente cercato di arrivare ad un giusto compromesso sintetizzando il maggior numero di informazioni possibili nel relativamente poco spazio a disposizione; e benché alcuni snodi narrativi siano sacrificati (ma 9 volte su 10 sono comunque deducibili dal resto della storia), la miniserie, letta nella chiave giusta, è straordinariamente espressiva, specialmente in alcuni momenti culminanti.
L’esito finale della vignetta supercompressa è che i personaggi vengono fissati in scene "mitiche", nel senso che, se anche non comparissero più nel corso della storia, potrebbero essere ricordati per sempre, cristallizzati in un'immagine carica di simbolismi. Ercole che combatte l'Idra è un'immagine da libro fantasy, ma è anche qualcosa di carico di significato e di simboli (l'ordine che sottomette il caos, il significato storico del mito greco, e così via). Qui molti personaggi sono caricati di una specie di eternizzazione. Nella sequenza in cui Batman dà il via alla sconfitta di Darkseid sparandogli un proiettile teotossico si trova sintetizzata non solo la morale della saga (lo spirito umano – Batman è il più umano degli eroi – che sottomette il divino), ma anche tutta l’esistenza di Batman (creato dal male con un proiettile, uccide il male sparandogli, cioè rendendogli la pariglia). C’è spazio pure per una provocazione, visto che Batman di fatto infrange entrambi i voti su cui si regge la sua missione, ossia non uccidere e non usare mai armi da fuoco. E così via per altri eroi: Flash vince la corsa con la morte (simbolicamente e concretamente), Superman ridà la vita a Lois con un bacio, Aquaman risorge dalla tomba come da profezia per proteggere il suo popolo (con ovvio riferimento alla leggenda di Re Artù). Sembra cioè che, se da un lato la storia faccia incarnare gli dèi negli uomini, dall'altro permetta agli uomini di ascendere ad una dimensione mitica, da dèi, o almeno da eroi greci.

L’apice di questa narrazione è probabilmente l’incredibile albo finale, in cui praticamente tutti gli snodi (ad eccezione di quelli strettamente legati alla sconfitta di Darkseid) vengono riassunti in una fiaba che gli ultimi superstiti della catastrofe raccontano ai loro bambini. C’è in sostanza un “balzo”, che porta a sacrificare gli aspetti più strettamente narrativi trasformando la storia in una sorta di mito o leggenda immortale; quello che è avvenuto per il singolo personaggio negli albi precedenti, avviene per la storia nel suo insieme nel finale, perdendoci in linearità, ma guadagnandoci in forza evocativa.

Oltre a ciò, la trama presenta anche alcuni salti temporali compiuti dai personaggi, che necessitano per forza di cose di essere tenuti a mente, con tutto l’impegno del caso, in attesa di essere ripresi più avanti. Un caso abbastanza evidente è l’ingegnosa questione del proiettile magico. Nel numero 2 scopriamo che la pallottola teotossica che ha ucciso Orion nel numero 1 è stata sparata da un punto e un momento imprecisato nel futuro. Il trono di Metron è stato usato per creare un varco fra l’arrivo – Orion, nel porto di Metropolis – e la partenza, che scopriremo essere Bludhaven, dopo la reincarnazione di Darkseid. Barry Allen viene colto mentre attraversa il varco a tutta velocità, cercando di fermare il proiettile che sta per colpire Metron, inseguito dall’incarnazione della morte, il Black Racer. Nel numero 7, che nell’universo DC equivale ad un mese più tardi, il varco si apre a Bludhaven, Darkseid spara il proiettile che va nel passato; ma nel frattempo Barry Allen ha attirato su di sé il Black Racer e lo conduce a Darkseid, portandolo alla sconfitta. In pratica Darkseid evoca il Black Racer sparando ad Orion, ma una frazione di secondo dopo viene atterrato dal medesimo Black Racer, di ritorno dal passato! O come le Lanterne Verdi, che rimangono bloccate in un loop temporale attorno alla terra per un tempo imprecisato in attesa di essere salvate, sempre nel prefinale…

Forse con più spazio molti aspetti avrebbero potuto essere sciorinati meglio; ma c’è da chiedersi se realisticamente una maxiserie sarebbe stata concepibile commercialmente alla DC. Generalmente, per progetti di questo tipo, il formato ideale sono maxiserie da 12 albi che si dipanino nell’arco di un anno; ma anche così, nelle sue componenti essenziali (vale a dire la mini e i tie-in scritti da Morrison in persona) Final Crisis consta di 12 albi, quasi tutti oversize. Il formato perfetto, forse, sarebbe stato quello del progetto Seven Soldiers (che era composto di 30 albi), ma evidentemente non è stata presa in considerazione come opzione (ammesso che sia stata mai proposta).
 
Cura editoriale

Molto più che la storia in sé, tuttavia, su Final Crisis ha influito negativamente la veste nella quale è stata proposta. Un tipico eventone estivo comporta cioè nei lettori un certo tipo di aspettative; raramente gli eventoni si propongono in maniera così anticonvenzionale e sono perlopiù qualcosa di paragonabile a certi film blockbuster americani, fatti apposta per accontentare il grosso pubblico senza grosse ambizioni autoriali (come sembra sarà l’imminente Blackest Night di Geoff Johns). Ovvio quindi che, come già detto, Final Crisis abbia lasciato di stucco gran parte del pubblico che l’ha avvicinato. Ma al di là di questo problema, che comunque ha un’importanza relativa, la preparazione all’evento da parte della DC – non di Morrison – è stata comunque francamente disastrosa, e ha attirato sulla miniserie molte antipatie di “riflesso”.

In teoria, Final Crisis avrebbe dovuto essere introdotta dal settimanale Countdown, che ha preso il posto di 52 alla sua conclusione. Countdown, che comprendeva tra gli autori giovani e promettenti talenti DC riuniti sotto la supervisione del grande Paul Dini, si proponeva come una sorta di introduzione al multiverso e ai concept appena creati alla conclusione di 52. Nei fatti, è stato forse uno dei peggiori lavori mai prodotti dalla DC: pessimo, confusionario, mal scritto e mal disegnato (gli autori erano praticamente ridotti al rango di esecutori degli ordini della casa editrice, senza alcuna possibilità di esprimersi liberamente), ha sciupato moltissime idee potenzialmente formidabili. Senza contare la spesa economica: oltre a Countdown (che equivale in sostanza a 4 mensili), dalla serie principali si sono dipanate una valanga di miniserie, alcune pessime (The Search for Ray Palmer), altre discrete (Salvation Run), con qualche gemma nascosta (Countdown to Mystery, con l’ultimo lavoro del grande Steve Gerber). Dulcis in fundo, Final Crisis – che peraltro è un lavoro estremamente contenuto in termini di spesa – riprende solo vagamente le idee di Countdown (da cui Morrison ha preso pubblicamente le distanze), e anzi in buona parte le contraddice.
La dirigenza DC ha comunque avuto una pessima riuscita anche sul fronte grafico. J. G. Jones, il disegnatore designato inizialmente, è estremamente lento, e proprio al fine di evitare ritardi o cambi di disegnatore in corsa, le uscite degli albi della saga erano state programmate in modo tale da permettere un mese di pausa tra il numero 3 e il 4. Questo, tuttavia, non è riuscito ad impedire che a partire dal numero 4 intervenisse come aiuto disegnatore Carlos Pacheco, a cui si è affiancato dal numero 5 Marco Rudy, per finire col numero 7, totalmente in mano a Doug Mahnke (già disegnatore del tie-in Requiem e della mini di due Superman Beyond) e al suo inker Tom Nguyen. Naturalmente la ridda dei disegnatori ospiti ha suscitato una vera e propria tempesta sulla testa dell’Editor in Chief della DC, Dan DiDio, il che ha dato il via ad una serie di dichiarazioni pubbliche di scuse sia da parte di Jones che da parte di DiDio stesso. Bizzarramente, la media grafica resta sempre fra il sufficiente e l’ottimo, nonostante gli evidenti cambi di stile; Jones è eccellente all’inizio, ma via via più frettoloso; Rudy è un perfetto imitatore dello stile di Jones (in certi momenti è praticamente impossibile capire dove finisca l’uno e inizi l’altro); Mahnke è eccellente nei tie-in, ma il gran numero di inker intervenuti sulla mini regolare penalizza in gran parte il suo lavoro, che resta al di sotto dei suoi standard; inqualificabile Pacheco, svogliatissimo e già con il pensiero alla Marvel, alla quale è attualmente in forze.

A peggiorare la cattiva fama della mini, infine, ci si sono messe alcune voci di corridoio, nate in parte dal gossiparo dei comics Rich Johnston e in parte da Valerie d’Orazio, una ex editor DC con una fortissima acredine verso DiDio (acredine anche giustificata da vecchie ruggini di lavoro). In entrambi i casi, si è parlato di riscritture in corsa della mini, finali imposti, e persino di un progetto inizialmente diverso (incentrato sull’ascensione a Nuovi Dèi dei principali eroi DC) poi rimaneggiato per esigenze editoriali. Benché tutte le voci siano state smentite pubblicamente (ed energicamente) dai diretti interessati, compreso Morrison (la cui notorietà e forza all’interno della DC è tale che difficilmente può subire vere e proprie imposizioni a muso duro), tanto da costringere Johnston ad un brusco dietrofront, hanno finito con il prendere piede nel fandom e a pregiudicare ulteriormente l’accoglienza della storia.
 
Un universo di possibilità

D’altra parte, la riuscita in assoluto più felice di Final Crisis è potenzialmente anche quella più ricca di possibilità creative e commerciali per la DC, ossia la ridefinizione del Multiverso. Praticamente ogni sequenza dedicata ai Monitor e alle terre alternative è perfetta. Nell’arco di una manciata di pagine (nella mini Superman Beyond), Morrison riesce a creare una nuova, biblica origine del mondo per gli eroi DC, sposandola con il meglio di passate variazioni sul tema (il Bleed, creato da Warren Ellis nei suoi lavori Wildstorm) e riuscendo anche a dare una convincente sfumatura metafumettistica. Oltre a riprendere alcuni lavori mai realizzati: uno dei cardini del progetto sull’Ipertempo, creato da Morrison alla fine degli anni ’90, era di rendere i veri “dèi” dell’Universo DC i lettori, nella cui mente avvenivano le storie e che dunque erano in grado di passare disinvoltamente da una storia all’altra, “viaggiando” nel tempo e nello spazio. Questa idea, rielaborata, trova la sua strada anche in Final Crisis, dove la connotazione di fruitori delle storie (ma qui, dice Morrison apertamente in una recentissima intervista, si tratta specificatamente di narratori) spetta ai Monitor (nel finale del n. 5, il Monitor rinato Nix Uotan si ritrova la testa circondata da una sfera entro cui si svolgono le vignette della storia appena svoltosi; così nel n. 6 lo si vede osservare la griglia della pagina da una prospettiva esterna; peraltro i nomi dei Monitor derivano da quelli di dèi scrittori di pantheon preesistenti, il celtico Ogma, il babilonese Nabu, e così via). Inoltre, Morrison riprende la vecchia idea, già stabilita in Seven Soldiers, dell’universo come di un essere vivente, inconcepibilmente grande, nella cui mente galleggiano le terre come pensieri. Le terre sono separate dal Bleed, lo spazio fra gli universi (e tra una vignetta e l’altra), che è anche letteralmente il sangue di dio, che si identifica con l’Universo, ovvero il primo, onnisciente Monitor/lettore/narratore, la cui mente a sua volta si identifica con la pagina bianca su cui vengono scritte le storie. Inizialmente, dice Morrison, c’era soltanto la pagina bianca; quando è nata la realtà (ossia le storie), il dio/Monitor ne è stato coinvolto, e ne ha subito a sua volta il dinamismo e la varietà, finendo quindi successivamente scisso e differenziato in una serie di Monitor individuali, che hanno creato una civiltà il cui compito è osservare (leggere?) le terre. Il primo Monitor dotato di individualità, Dax Novu il “radioso” (una figura luciferina, essendo protagonista della versione morrisoniana della ribellione degli angeli, così come Darkseid, che nel n.7 precipita sul fondo della creazione come il diavolo della Divina Commedia), finì infine corrotto e diventò una sorta di parassita delle storie, Mandrakk, un vampiro che succhia il Bleed e la cui principale ambizione è metafumettisticamente il ritorno alla pagina bianca. Darkseid vuole assoggettare l’universo; Mandrakk vuole semplicemente che non esista più, il ritorno alla purezza. È, letteralmente e metaforicamente, la fine della storia, quando sembra che in nessun modo si possa continuare e l’unica cosa da fare sia chiudere il libro; significativamente avvicina Superman dopo la sconfitta di Darkseid, nell’ora della “mezzanotte cosmica”, quando effettivamente sembra che la storia sia esaurita (lo stesso nome Mandrakk è, per alcuni critici, un riferimento ad un’epoca ormai tramontata del mondo dei comics, quella antecedente all’era dei supereroi, quando l’unico eroe dotato di superpoteri era il mago Mandrake; non a caso, il suo rapporto con il giovane Monitor Nix Uotan è di tipo padre/figlio). La sconfitta di Mandrakk avviene, oltre che con le armi del caso, con il ribadimento che il racconto non è finito; l’esercito dei Superman che si schiera contro Mandrakk nel finale è soprattutto una dichiarazione di potenziale narrativo (la storia di Superman, dice la Monitrix Zillo Valla, è più forte e duratura delle altre storie). Un ribadimento nei fatti che la narrazione continua, come dice la lapide dove è sepolto l’archetipo supermaniano del mondo dei Monitor (Morrison, da anni acerrimo nemico delle storie di supereroi cupe e delle decostruzioni degli anni ’80, si permette anche una critica fra le righe quando nel finale dichiara che la terra cui era preposto Ogama – la seconda incarnazione di Mandrakk – è Terra 31, quella dove ha luogo Dark Knight Returns…). L’atteggiamento generale degli altri Monitor è sostanzialmente diviso tra un ritorno alla pagina vuota (che Mandrakk sia in primis l’incarnazione di un atteggiamento è ribadito in Superman Beyond 2, dove Zillo Valla dice che è qualcosa che è stato creato in quanto pensato, o creduto; inoltre, la parola più frequente nel mondo dei Monitor – che si chiama Nil – è “nulla”) e una sorta di interesse per il dinamismo vitale che li ha continuati (la Monitrix Weeja Dell non vuole “perdere le cose belle che esistono”). Nel finale, quando la storia è “ripresa”, i Monitor decidono di lasciare libere le terre di svilupparsi, senza monitorarle più, ed anzi di incarnarsi in esseri umani; si arrendono cioè al dinamismo della storia divenendone parte, dove ovviamente dinamismo – conformemente alla concezione di Anthro – è la varietà, il potenziale, in definitiva tutto ciò che per Morrison rappresenta la vita (la stessa vita che rinasce sulla 51esima terra, quella devastata prima ancora che Final Crisis iniziasse, l’”universo cimitero”, per diventare la nuova abitazione degli dèi positivi oltre che degli esuli kirbyani della Terra 0, quella principale).

Oltre alla storia dei Monitor in sé, comunque, la concezione del Multiverso introdotta da Morrison è veramente una miniera di spunti narrativi e trovate. Il problema fondamentale delle terre alternative, quelle su cui vengono ambientate What if ed Elseworlds, sta in generale proprio nella loro scarsa personalità. Si tratta spesso di storie di poco conto, che si limitano a calare i personaggi in luoghi e tempi diversi (Superman nel medioevo, Batman nel futuro e così via), il cui fascino principale è data dalla diversa declinazione del medesimo concept su uno sfondo “esotico”. Morrison, pur contraddicendo apertamente alcuni dettami del Multiverso introdotti dopo 52 (ma quasi tutti i concept suggeriti sono stati da allora stravolti e contraddetti almeno una volta, anche da altri autori), riesce a dare un’idea di un Multiverso in cui ogni terra ha la sua storia personale, la sua diversa evoluzione, una personalità ben distinta che non è praticamente mai la riproposizione pari pari né dell’antico Multiverso pre-Crisi sulle Terre Infinite, né una semplice “variazione sul tema” della Terra principale.

Un esempio fondamentale è dato sempre in Superman Beyond, dove in rappresentanza di Terra 4 (quella dove tradizionalmente vivono i personaggi Charlton, gli stessi che hanno ispirato Watchmen) c’è Capitan Atom, che però è profondamente diverso sia dal personaggio come è stato concepito originariamente, sia dal Capitan Atom di Terra 0, quella principale. Questi è piuttosto un Superman quantistico, o meglio un melange del personaggio originale (creato da Joe Gill e Steve Ditko) e della sua più celebre evoluzione, il dottor Manhattan (curiosamente, tutta la mini di Superman Beyond contiene omaggi ad Alan Moore – c’è anche il Superman ammiccante che chiude Whatever Happened to the Man of Tomorrow – tanto che alcuni l’hanno visto come una fine della polemica fra le poetiche dei due autori). Dà insomma veramente la sensazione che dietro di lui ci sia un intero mondo dai toni noir e cyberpunk, in attesa solo di essere sfruttato adeguatamente in una storia. Così per tutte le terre che vengono menzionate nel corso della saga, dalla Terra 20 dai tratti pulp (ispirata a Doc Savage) fino alla Terra 13, dai toni simil-Vertigo, dove il principale eroe è Demon (incarnato nel figlio di un predicatore). Morrison stesso, alla fine di 52, dichiarò che l’intento principale era di creare vere e proprie linee editoriali con protagonisti i personaggi dei mondi paralleli, un po’ come la Vertigo; forse la cosa in parte verrà realizzata con il prossimo progetto dello scrittore, a quanto pare in arrivo a fine 2009 e incentrato sul Multiverso.
 
L’ultimo mistero

In definitiva, con i suoi problemi, Final Crisis resta una storia buona e spesso ottima, piuttosto longeva (molte sfumature e passaggi vengono colti dopo diverse riletture) il cui merito maggiore sta soprattutto nell’enorme fascino dei suoi concept, nell’evocatività e poesia dei passaggi (certe descrizioni delle terre parallele sembrano quasi degli haiku), e anche nel fatto che in una categoria come quella degli eventoni estivi, dove la mediocrità abbonda, è una boccata di aria fresca e anticonvenzionale.

Nonostante l’impegnativa chiave di lettura, inoltre, il 99% della trama è ricostruibile “unendo i puntini” fra le varie storie. L’1% è dato dai passaggi che per un motivo o per l’altro non è quasi possibile inserire in un quadro perfettamente coerente (per esempio le apparizioni di Kamandi, che restano abbastanza criptiche comunque le si esamini), e soprattutto dal più grande mistero aperto nella storia e mai concluso: chi è l’essere scimmiesco che traffica con fogli di carta e che nella cella di Nix Uotan gli parla come se fosse la sua voce interiore per poi scomparire? Che sia la scimmia scrittrice creata da Morrison in Animal Man, quella che ha scritto tutte le storie del DC Universe, e in Superman Beyond vediamo raccolte nell’infinito, borgesiano, Libro del Limbo?

Un grazie ad erbass, Luther, Kal, Preacher, Clint, Count Zero, topastro, Snake Plissken, Raven, Hieronimus, Janos, nightwing, Uomo che Ride, Fabrizio, Triumph, Murdock, darkhawk, Randall, hithchhiker, Satrum, Spiderpork, Fumetto, tetsuya, Barone Rosso, frengo, gala81, Slum King, Raistlin, ror, uomoragno.org, felipecayetano, Zapman, Jim Corrigan, Andrea Gadaldi, Swish, Zotnam, Winter Soldier, last weapon, Go, reed, drum13, Charlie Brown, Xelakakoji, e tutti quelli (inclusi coloro che ho sicuramente dimenticato, cui chiedo scusa) che si sono sciroppati, hanno seguito e soprattutto sostenuto tutte le mie disquisizioni e deliri su Final Crisis fin dall’inizio del topic “Morrisoniana”, e a fiocotram per aver suggerito il titolo di questa analisi.

Altri commenti e note della storia, vignetta per vignetta, possono essere trovate nei fondamentali e splendidi blog Funnybook Babylon e Final Crisis Annotation. Altri commenti sul forum di Barbelith, il sito Comic Book Resources, e i blog Geniusboy e Thoughts on Stuff.


Davide Giurlando
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