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Le considerazioni filosofiche del gatto Sfar

«Le chat du rabbin c’est moi!» ovvero le considerazioni filosofiche del gatto Sfar

Tra fiaba e realtà

Accostarsi alla serie di Joann Sfar più apprezzata in Italia, Il Gatto del Rabbino, in un’ottica essenzialmente biografica e psicologica è senza dubbio affascinante. Ridurre però il puntiglioso lavoro dell’autore francese solo a questo elemento significherebbe sminuire la portata dell’opera, che travalica il genere del racconto biografico per affacciarsi nelle tortuosità del fiabesco e del realistico. Come queste due componenti ben si coniughino nei quattro volumi finora editi dalla Kappa Edizioni è presto detto. Joann Sfar rappresenta la nuova tendenza del fumetto moderno francese che gioca col lettore, stuzzica le sue conoscenze, ammicca di continuo al background in comune, lasciando intendere sempre che c’è molto altro da carpire. Ebbene, nella serie Il Gatto del Rabbino l’autore gioca d’anticipo sul lettore, lo conduce dentro i meandri di una storia che non gli appartiene, per poi farlo innamorare con una rara capacità affabulatoria.

Il Perturbante rivisto e corretto: il caso Sfar

Risale solo al 1919 la prima trattazione sistematica del perturbante in letteratura, ma bisogna anche aggiungere che gli artisti ne hanno da sempre precorso la portata nelle loro opere. Con questo termine Sigmund Freud, primo vero teorizzatore del concetto, volle indicare uno stato d’animo che può cogliere il lettore quando si trova davanti ad episodi sinistri e singolari che però gli sono, stranamente, familiari. La radice tedesca del termine, Unheimlich, porta racchiuso in sé il carattere anfibologico della parola: se Heim (da cui l’inglese Home) significa ‘casa’ e, per traslato, identifica tutto ciò che è familiare, perturbante (attraverso il prefisso negativo Um-) è tutto ciò che è stato rimosso, e quindi dimenticato, ma che un tempo era conosciuto e familiare, appunto. Un evento traumatico può bastare a relegare un oggetto o un tema nella sfera del perturbante.

Sfar, nutrito di letteratura e filosofia prima ancora che di fumetti, sembra muoversi sullo stesso terreno. In molte serie da lui ideate e create, la prima caratteristica che salta all’occhio del lettore è proprio la carica perturbante di molti suoi personaggi. Vampiri che coabitano in una strana simbiosi con gli umani, animali che parlano all’improvviso, bambole inquietanti che si rivelano madri dimenticate (ricordiamo, a questo proposito, che il racconto preso dal medico viennese a paradigma del perturbante sarà proprio la bambola Olimpia, nata dalla mente creatrice di E.T.A. Hoffmann nel suo “Der Sandmann”). Ma Sfar sa bene come dosare le giuste quantità. Le sue serie, ideate spesso con un occhio al pubblico a cui si rivolgeranno, nascono con elementi che affondano le loro radici nel mondo delle fiabe e del racconto popolare. L’originalità di questo autore sta però anche nel coniugare temi fiabeschi con una particolare ironia che gli deriva dalla continua pratica di scrittura e dai riferimenti al moderno. E allora il sinistro e il macabro, che potrebbero di diritto campeggiare nelle sue tavole, diventano improvvisamente, per tacito accordo col lettore, accettati e normali. Non ci si potrà dunque intimorire più dinanzi ad un gatto che parla, ad uno spettro che accompagna un detective nelle sue investigazioni, ad un vampiro o ad un Golem, con i suoi piccoli difetti e le sue piccole virtù.

Un gatto che inizia a parlare perché ha mangiato un pappagallo un po’ impertinente diventa, nella serie de Il Gatto del Rabbino, la voce che guida il lettore e il filo conduttore di una storia che affascina e stupisce. Già in passato i gatti sono stati eletti dalla letteratura a protagonisti di molte storie: i felini sono spesso protagonisti di favole e fiabe per bambini (penso al “Gatto con gli Stivali”, al celeberrimo gatto dal sorriso beffardo creato da Lewis Carroll, o a quello di Collodi, in primis) e lo stesso Hoffmann, già citato a proposito di “Der Sandmann”, ha dedicato ad un gatto un’intera opera per raccontarne la sua biografia (“Considerazioni filosofiche del gatto Murr” recita il titolo).

Qui però le cose sono diverse. In più occasioni, infatti, il nostro autore ha avuto modo di sottolineare la sua somiglianza col gatto, anzi il suo essere gatto (“Le chat c’est moi”, ha dichiarato flaubertianamente). Raffigurarsi come un felino e dargli le stesse fattezze del proprio gatto significa per noi cogliere aspetti della sua biografia che debbono essere evidenziati. Il gatto è infatti un animale domestico e come tale egli non decide niente in famiglia, ma vigila e fa da testimone alle vicende della casa. Joann Sfar ha invece ricordato in una recente intervista che buona parte delle sue scelte future, dalla passione per la musica a quella per il racconto, dall’interesse per la tragicità della vita a quello per la sua comicità, si legano indissolubilmente ad un episodio tragico della sua infanzia: la morte della madre.

All’indomani dell’evento si raccontò al piccolo che la donna era partita per un lungo viaggio. Come un gatto, allora, Sfar cominciò a sentirsi spettatore passivo degli eventi: al gatto non si parla, non occorre dire la verità, anche se vive con noi. Nasce da qui l’idea di raccontare una storia dal punto di vista dell’animale. Il gatto infatti parlerà, a lui si faranno confessioni ed egli diventerà, diversamente dalla realtà, elemento discriminante della storia. Per questo motivo, per poter interagire cioè con la famiglia d’adozione, egli inizia a parlare.

Sfar non nega quindi la potenziale portata perturbante dei suoi personaggi, ma ne corregge il tiro. Se il fantastico lo affascina, è però al realismo che punta. Non lo interessa, come ha spesso dichiarato, la pura metamorfosi che stupisce e rimane fine a se stessa, lo stuzzica l’idea di non allontanarsi da quella linea che secoli fa un fine conoscitore della natura umana, Aristotele, aveva tracciato nella sua Poetica. Le storie devono conservare il carattere di verosimiglianza, altrimenti rischiano di risultare assurde e incredibili, nel senso propriamente letterale dell’aggettivo. Per Sfar, se una storia rimanda ad un evento inverosimile, anche se realmente avvenuto, rischia di non produrre alcun effetto sul lettore. Il verosimile sarà allora il punto da non superare. Dietro all’apparente semplicità delle teorizzazioni dell’autore c’è dunque un’attenta riflessione per le strategie del racconto e una netta presa di posizione nei riguardi dei temi da trattare, nonché una forte polarizzazione verso il versante autobiografico.

Anche i gatti parlano

Il primo dei quattro volumi della serie finora pubblicati, Il Bar-Mitzvah (2002), è un’affascinante iniziazione alla cultura ebraica, alle leggi che ne governano la progressiva introduzione nella società, alle infinite speculazioni della Torah e della mistica ebraiche.

Figlia di un rabbino algerino, Zlabya, la protagonista della storia, trascorre le sue giornate tra le pareti mute della sua stanza, scrivendo su bianchi fogli di carta, accarezzando e parlando al proprio gatto per ore (gatto che ha le stesse fattezze di Imhotep, il fido compagno di Grande Vampiro, a cui Sfar ha dato nell’omonima serie lo stesso nome del suo gatto thailandese). Pur non strettamente autobiografico, il rimando al rabbino ci conduce al nonno del nostro autore, che intraprese in giovane età gli studi per diventarlo. Nella serie, inoltre, il vecchio genitore porta il cognome ‘Sfar’, a sottolineare ulteriormente che un legame con la famiglia paterna c’è. L’ambiente familiare in cui vive la giovane Zlabya è quello di un non troppo austero uomo religioso, la cui vita è rattristata dalla prematura scomparsa della moglie che lo ha costretto, pertanto, ad occuparsi dell’educazione della bella figlia.

Per un fortuito evento il gatto inizia a parlare e i pilastri della buona educazione di Zlabya cominciano a vacillare. Il suo sguardo lascivo, infatti, la corrompe e la seduce. Il rabbino, responsabilmente, decide di allontanare questa influenza nefasta, ma il gatto, dal canto suo, inizia a tormentarlo nella speranza di poter ritornare nelle stanze della ragazza a far le fusa. È allora che il genitore decide che il felino, corrotto dalla parola e dalla menzogna proprio come un essere umano, debba ritornare sulla retta via e imparare così gli insegnamenti ed i dettami della Torah, del Talmud, della Mishna e della Ghemara.

La disarmante logica dell’animale e le sue continue provocazioni mettono con le spalle al muro il già eccessivamente dubbioso rabbino. Se la contraddizione e la continua antitesi contraddistinguono la filosofia ebraica, le argomentazioni del gatto sembrano quasi smantellarne la solida e rigorosa impalcatura. Solo nei sogni la rassicurante certezza raziocinante del gatto viene meno. Tutta colpa della parola. Nella sua naturale afasia, il gatto era libero e mosso solo dall’istinto; in seguito all’acquisizione della parola, esso diviene infido e bugiardo, corrotto e contorto. Nei sogni dunque esso libera le sue pulsioni e svela, nell’apparente linearità dei contenuti manifesti, il travaglio e il rovello di un’anima non più ingenua e pura.

Anche i gatti sognano

Dal momento in cui la parola entra in scena le vicende si complicano. Nel sogno infatti la ragazza è morta e il rabbino racconta al gatto che è partita per un lungo viaggio. Quest’evento spingerà l’uomo a rinnegare la religione dei padri, avviando un vero e proprio processo di metamorfosi discendente (da uomo ad animale). La giusta punizione, Ovidio docet, per aver oltraggiato con la parola, col verbo appunto, la magnificenza divina. Il nome di Dio diviene dunque centrale per capire il sogno e la perdita successiva della parola del gatto (cfr. Il Gatto del Rabbino - Malka dei Leoni, vol. II, 2004). Ma nelle parole del rabbino e in quelle del felino fa capolino, non poi tanto timidamente, il punto di vista dell’autore: forte e deciso, al riguardo, assolutamente razionale e scettico nei confronti di ogni forma di credo religioso.

Alcuni personaggi sono dunque diretta emanazione dello scrittore. Rimasto orfano in tenerissima età, Sfar apprende della morte della propria madre esattamente come il gatto nell’episodio onirico inserito ad incastro nella storia. La sequenza tenerissima in cui il rabbino prende fra le braccia il felino per svelargli quello che va svelato, è difatti un ricordo d’infanzia dello scrittore e una delle più toccanti sequenze del volume. A cullarlo fra le braccia in realtà non sarà stato, evidentemente, un rabbino algerino, ma le tenere attenzioni della nonna o di uno zio. Incapace di capire del tutto ciò che stava succedendo, Sfar decide allora che è giunto il tempo di creare – come poi continuerà a fare in un episodio de “Le bambole di Gerusalemme” della serie Professor Bell (vol. II, Coconino press, 2005), in cui una delle bambole mantenute in vita dal diavolo è proprio una madre strappata all’affetto del piccolo Daoud –, una madre che si occupi di lui, che lo accudisca e che lo coccoli. Anche a prezzo di ripetere quest’atto esclusivamente nel mondo della finzione, come non smette mai di notare lo stesso autore. Far rivivere la propria madre attraverso il racconto diventa l’unico modo per continuare a vivere e a creare.

Se nella finzione onirica infatti Zlabya è morta e il rabbino consola il gatto dicendogli che è partita per un lungo viaggio, lasciandogli pregustare le gioie degli abbracci e dei regali, nella realtà, lo ricordiamo ancora, la madre di Sfar muore quando il piccolo ha appena compiuto i suoi tre anni. La bugia del viaggio improvviso e dell’imminente ritorno segnano l’autore a tal punto che diventerà decisivo per lui in futuro raccontare storie che rivelano tutta la tragi-comicità della vita. Anche nella serie, quindi, è evidente quanto questa bugia sia costata al nostro autore, data la centralità del sogno nel racconto. Dopo la descrizione onirica da parte del felino, il rabbino deciderà di donare nuovamente il gatto alla figlia. Il ricordo dell’assenza patita spinge l’autore a non far soffrire più, neppure in un’opera di fiction, uno dei suoi personaggi per un motivo simile. Il ‘gatto Sfar’, con orecchie appuntite e schiena curva, può di nuovo riprendere il proprio posto nella storia, accanto a Zlabya. Il torto dell’allontanamento viene ripagato con coccole e parole comprensive. Un simile evento traumatico spingerà, sia nell’opera che nella realtà, ad una profonda revisione della propria fede e del proprio credo. Il continuo confronto con la filosofia occidentale (Sfar si è laureato in Filosofia prima di entrare all’Association di Trondheim), le arzigogolate argomentazioni di quella ebraica, il conseguente ateismo («E il rabbino rinnega la religione. Non vuole più un Dio che gli ha preso la sua unica figlia. Non ci crede più.», vol. I, p. 32) sono solo alcuni degli specchi riflettenti di cui è disseminato il racconto. Elaborato il lutto, che in verità nell’economia della storia avviene solo nel sogno, sia il gatto che il rabbino possono dunque immaginare e accettare una nuova separazione, questa volta meno violenta dato che si tratta di trovare un marito alla ragazza.

Zlabya: la mamma-padrona

Le tante madri che, come abbiamo sottolineato, popolano l’universo di Sfar sono una prova dell’evento traumatico subito da bambino. Esse sono sempre affettuose, dolci e comprensive. Basti pensare alle tante figure femminili, e in primis materne, da lui tratteggiate nelle sue tavole. Pandora, ad esempio, la tenera madre di Piccolo vampiro, a cui Sfar ha prestato le fattezze della propria compagna (Piccolo Vampiro va a Scuola, Kappa Edizioni, 2004), è sempre così disposta a perdonare le magagne del figlio da indurre Michel, il piccolo protagonista della storia così sorprendentemente somigliante al nostro autore, a lasciare la propria casa (ricalcata su quella dei nonni a Nizza) e il proprio caldo letto durante la notte per godere dei privilegi di un vampiro che mette a soqquadro un castello senza incorrere in alcun rimprovero.

Per un verso o per un altro esse però si allontanano sempre, per poi sempre ritornare ad accudire i propri figli. Così accade, ad esempio, nell’episodio raccontato nella già citata serie Professor Bell, “Le bambole di Gerusalemme”, dove il piccolo Daoud è costretto a stare lontano dalla propria madre a causa di un sortilegio diabolico che la comanda a distanza e l’ha svuotata della memoria. Ritrovatala grazie all’abilità investigativa del Professore, il ragazzino ottiene dalla donna la promessa di non separarsi più da lui. E la mamma, com’è giusto che sia nella finzione, promette solennemente.

Ti chiamerai Sfar e scriverai!

In “Malka dei Leoni”, secondo volume della serie (2004), l’elemento più strettamente autobiografico ci porta all’analisi dell’etimologia del nome Sfar. L’autore si diverte infatti a giocare col proprio nome, riportandolo ad un’etimologia araba ed ebraica insieme. Il rabbino si reca ogni anno presso la tomba di Messaoud Sfar, suocero di suo nonno, per trovare conforto e consiglio ai problemi della vita. La radice ebraica ‘Sofer’ riconduce infatti il cognome, nomina numina!, alla sfera del pensiero e della scrittura (‘Sofer’ significa infatti ‘scrivere’). A controbattere un simile significato interviene un asino, l’asino di Mohammed Sfar, che invece sostiene l’origine araba del nome: ‘Sofer’ significherebbe ‘giallo’ e riporterebbe il cognome allo zolfo delle caldere. Mentre il gatto ebreo e l’asino arabo litigano per una disputa di cui, fortunatamente, i padroni ignorano il motivo, lo sceicco e il rabbino ballano e cantano euforici in un’armonia che il mondo reale, quello in cui viviamo, dovrebbe prendere ad esempio.

Il terzo volume della serie, “L’Esodo” (2005), ci conduce di gran trotto in Francia. Il rabbino ha ceduto alle insistenze di Jules, il giovane rabbino innamorato di Zlabya e, dopo le nozze, parte prepotentemente con i novelli sposi alla volta di Parigi, intenzionato a conoscere i genitori del genero. La città offre uno scenario diametralmente opposto a quello algerino. Gli ebrei parigini vivono all’occidentale, non rispettano lo Shabbat e frequentano donne cattoliche. Il rabbino, dapprima ritroso nell’accettare una visione della vita così diversa dalla sua, finisce per ritrovare nella musica una sorgente di pace e comprensione. Strumenti musicali dai nomi impronunciabili sfilano fra le mani del rabbino e del nipote, riflesso della passione dell’autore e di quella dei genitori (cfr. la serie Klezmer, inedita in Italia, e tutta la serie di carnets intitolati a vari strumenti musicali). La madre dell’autore era infatti una cantante e il padre, avvocato, suonava diversi strumenti ed era un vero appassionato di jazz. Dopo la morte della madre, al piccolo Sfar viene proibito di suonare e, in genere, si cercherà di abortire in lui ogni interesse per la musica. Una volta adulto egli si cimenterà con l’ukulele e il banjo, quest’ultimo, in particolare, diventerà suo fedele compagno di viaggio. Nel racconto, il potere magico della musica del nipote Rebibo finirà per convincere il rabbino ad incontrare i consuoceri, senza pregiudizi e chiavi di lettura precostituite.

Il quarto volume, “Il Paradiso Terrestre” (2006), si apre con una bella e sentita prefazione a firma di Jean Giraud, in arte Moebius. Merito di Sfar, scrive il prefatore, è quello di continuare a raccontare ciò che “gli avi gli hanno raccontato” e, se ancora sussistessero dubbi, Sfar dedica lo stesso volume a “Roman Gary, Hugo Pratt, Joseph Kessel” e, ciò che a noi importa di più in questa sede, al proprio “papà, che è un eroe”, aggiungendo alla dedica queste parole: “Gli aneddoti evocati in quest’opera sono rigorosamente esatti e mai esagerati perché è la mia nonnina che me li ha raccontati”. Per inciso, qui notiamo che quando Sfar parla di nonne usa sempre il vezzeggiativo ‘nonnina’, a sottolinearne così le cure e l’affetto con cui è stato allevato dai più diretti sostituti materni. Nella serie per i lettori più piccoli, Piccolo Vampiro va a Scuola, anche Michel ha una nonna a cui si rivolge con l’appellativo ‘nonnina’. La donna, così come nella realtà trascorreva buona parte del suo tempo col nipote, restìo a frequentare i coetanei, nella serie lo accudisce e pensa alla sua educazione. D’altra parte, anche Fernand, il Grande Vampiro protagonista dell’omonima serie (Grande vampiro. Cupido se ne frega, vol. I, Kappa Edizioni, 2005), riceve spesso le visite di una ‘nonnina’, una strega in verità, che non riceve alcuna attenzione da parte del vero nipote.

Raccontare e ascoltare

Volta per volta Sfar presta quindi la sua voce ai personaggi della serie: una volta (o sempre?) è il gatto, qualche volta il rabbino, altre volte Malka. Probabilmente quest’ultimo personaggio, protagonista assoluto delle vicende del quarto volume, rappresenta la volontà di raccontare e la magia dell’ascolto. Evocato nei racconti della nonna, Malka conserva tutto il fascino dell’uomo ‘macho’, che conquista e affascina. Seduto in mezzo a tanti fanciulli, Malka solletica la loro curiosità narrando delle sue innumerevoli imprese e raccontando di come morì e di come la tomba sia tuttora nel deserto, nascosta agli occhi dei non puri. Il fatto che Malka poi sia vivo e vegeto, mentre racconta della sua morte, non turba assolutamente i fanciulli, ormai totalmente rapiti dalla sua voce ammaliante. Negli sguardi attenti e interessati dei bambini pare riflettersi la curiosità con cui, stando alla dedica posta ad inizio di volume, il giovane Sfar ascoltava incantato i racconti e i ricordi dei nonni e dello zio. Nient’altro interessa l’autore. Raccontare è il primo comandamento a cui obbedire.

Raccontare significa però anche, per un autore come Sfar, continuare a scrivere storie ironiche e tragiche insieme, sempre cariche di emozioni e sentimenti da trasmettere al lettore. Si spiega anche così il tratto veloce, ai limiti dello schizzo, con cui il disegnatore tratteggia gli sfondi e i personaggi della serie. Non c’è tempo, non c’è quasi interesse per il tratto curato e preciso. La trasandatezza dello stile grafico è tutt’uno con la velocità e il ritmo del racconto. Quello che conta è la storia che, nelle sue intenzioni, deve intrattenere e incantare il lettore. Ma se è vero che il primo lettore è l’autore stesso, allora scrivere e raccontare assumeranno per Sfar un preciso significato catartico, teso a liberare le passioni e a incanalarle lungo un sentiero che tenta di sfuggire alla disperazione e all’illogicità degli eventi.

Se dunque Il Gatto del Rabbino non può, per evidenti motivi, essere incasellato tra le opere dichiaratamente autobiografiche dell’autore, è però altrettanto evidente come precisi spunti biografici siano tasselli importanti della serie. È pur vero infatti che Sfar non ha mai avuto un padre rabbino o abbia mai abitato in Algeria, ma è altrettanto chiaro come precise dinamiche agiscano sul nostro nella sua intera produzione, tanto da poter dichiarare che nessuna sua opera sfugge a questa regola, neppure la più lontana per temi o ispirazione. Le donne, specchi moltiplicanti della figura materna, la religione, l’io dell’autore sono elementi ossessivamente ripetuti e variati nelle sue opere al solo scopo di attingere all’immagine unica, se esiste, in grado di riappacificarlo con la vita, con la sua portata tragica e comica, crudele e ironica.



Nadia Rosso
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