Menu

V per Vendetta: recensione del film

“Quello che mi mancherà non è l’uomo, ma l’idea che vi era dietro”


Iniziare una recensione di V for Vendetta per una webzine dedicata al fumetto dicendo che la pellicola è tratta dall’omonima graphic novel di Alan Moore e David Lloyd non avrebbe senso, ma d’altronde è questo ciò che è.
Come molti sapranno, Alan Moore non ha voluto essere coinvolto nel progetto in alcun modo, anzi non ha voluto neanche essere nominato nei credits. David Lloyd invece ha creduto nell’adattamento cinematografico accettando di buon cuore il compenso riservatogli. Se però fino a ora l’atteggiamento di Moore nel voler proteggere le proprie opere da adattamenti inadeguati si era rivelato vincente, questa volta la “vittoria” sembra avere un retrogusto decisamente amaro. La trasposizione risulta abbastanza fedele, o perlomeno non può essere considerata uno stravolgimento delle idee alla base del fumetto. Ovviamente le differenze ci sono: alcune trascurabili, altre meno. Nel complesso la sceneggiatura risulta più che sufficiente e soprattutto convincente.
Tutti gli appassionati della nona arte leggendo il nome dei fratelli Wachowski avranno tremato al pensiero di vedere per l’ennesima volta un adattamento fiacco (From Hell) o sconcertante (La lega degli uomini straordinari) di un racconto di Moore. Mai pensiero fu più errato: V for Vendetta non è un film d’azione, ma un thriller a sfondo politico, con uno sviluppo lento della trama. L’unica scena che rende (purtroppo) riconoscibile lo zampino dei suddetti fratelli è una delle sequenze finali: la resa dei conti girata in bullet-time, tecnica introdotta da loro e portata all’esasperazione nella trilogia di Matrix. Il risultato è una stonatura all’interno del film, che viene ulteriormente amplificata dal fatto che fino a quel momento trovate del genere non avevano (fortunatamente) trovato spazio.
Fin dall’inizio è chiaro il messaggio “politico” che si vuole lanciare, mostrando chiaramente in quali errori può cadere la società senza neanche rendersene conto: vuole insomma essere un memento per non dimenticare gli errori (o orrori) del passato e un monito per il futuro. I temi trattati risultano attualissimi soprattutto in alcuni paesi occidentali. Nel film le tematiche sono un po’ più esasperate e attualizzate tralasciando invece il tono più cupo che caratterizzava la graphic novel.
Si potrebbe obiettare che la componente anarchica di V (intepretato da Hugo Weaving, l’agente Smith di Matrix) viene completamente abbandonata rischiando di renderlo un terrorista qualsiasi. Sicuramente il concetto poteva essere sviluppato maggiormente, ma è comunque presente anche se non in modo palese.
Forse l’introduzione della breve ma significativa scena, presente nel fumetto, in cui V fa saltare l’Old Bailey avrebbe potuto rendere al meglio la questione, ma queste sono mere considerazioni a posteriori.
E’ opinione di chi scrive che V, e nella sequenza del fumetto citata lo si può intuire, non sostiene un’anarchia “classica” come annullamento di qualsiasi forma di governo e/o di autorità, ma piuttosto una sua interpretazione in cui lo scopo è quello di sovvertire un regime totalitario che opprime l’individuo e lo priva delle libertà più semplici come quella di circolazione (difatti vi è il coprifuoco), ma solo perché venga ristabilito in un secondo momento uno stato democratico in cui regni la giustizia. Non bisogna dimenticare che V abbraccia l’Anarchia solo perché si sente tradito da Madama Giustizia.
I metodi di V, nel fumetto come nel film, potrebbero essere - a torto - paragonati a quelli del regime a cui si oppone, dato che in prima analisi pare che entrambi cerchino di imporre le proprie scelte e le proprie visioni e quindi di scegliere al posto dell’individuo. Tuttavia, non è cosi: V alla fine lascia la libertà di scegliere la strada da seguire; il suo compito si esaurisce nel momento in cui il sistema viene sovvertito e compromesso. E così il testimone viene passato a Evey (Natalie Portman), la nuova V, che viene lasciata libera di scegliere se compiere l’estremo gesto di distruggere o meno il Parlamento.
E’ proprio qui forse che il concetto che V sia un idea più che un uomo si rende più palese. Anche la scena finale in cui si vede un “esercito” di V non fa che rafforzare questa convinzione.
Una cosa da notare è l’assenza nel film del Fato. Il Fato è un supercomputer che gestisce tutto il paese e che parla alla nazione attraverso la radio del partito; e insieme a lui scompare il rapporto morboso,quasi sessuale che ha il leader Sutler (John Hurt) nei suoi confronti. Quello che manca del tutto nella pellicola infatti è la presenza di una sorta di religione non semplicemente interna alla dittatura, ma parte integrante di essa. Per il resto le differenze con la trasposizione sono minime e alcune abbastanza irrilevanti al fine della narrazione: Evey lavora presso uno studio televisivo invece che in un’industria militare e il suo ingresso nella Galleria delle Ombre avviene dopo “l’incursione televisiva di V” invece che subito dopo il suo salvataggio dai castigatori.
John Hurt grazie alla sua interpretazione riesce a rendere, se possibile, il dittatore Sutler più spietato e folle rispetto al fumetto. Intrigante il fatto che l’attore passi dal ruolo della vittima che aveva in 1984 (dal romanzo di Orwell, di cui V for vendetta riprende i temi molto da vicino), al ruolo di oppressore: una situazione decisamente particolare.
Natalie Portman ancora una volta dimostra di essere una brava e bella attrice, riuscendo a girare con assoluta adeguatezza alcune sequenze forti come quella della reclusione, e caricando le scene del dovuto pathos ma senza eccedere: sempre convincente.
Tutto il cast insomma risulta all’altezza, con una interpretazione magistrale di Hugo Weaving: non potendo mostrare alcuna mimica facciale, affida tutto alla modulazione e ai toni della voce nonché alla dizione per dare espressività ai dialoghi e ci riesce talmente bene che l’adattamento italiano, per quanto buono, non può che scomparire a confronto. Anche a causa di certe scelte infelici per quanto riguarda l’adattamento dei dialoghi, è altamente consigliata la visione in lingua originale.
La fotografia rende abbastanza bene le atmosfere e le ambientazioni a cui il film si ispira, creando un ambiente cupo e freddo di una Londra futuristica dominata dall’oppressione, anche se non riesce a raggiungere i livelli del fumetto.
In definitiva un esordio nella media per il regista James McTeigue che pur svolgendo un buon lavoro non sembra dare un taglio particolare al film, la cui forza rimane nella sceneggiatura.



Antonino Marsala





Carlo Del Grande
Torna in alto