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Andrea Fiamma

Andrea Fiamma

Lucrezia e Alice a quel paese

Per leggere l'intervista a Silvia Ziche, clicca qui.

Dato: di Silvia Ziche è difficile parlare senza dire le solite ovvietà. Disneyana ma anche autrice completa di personaggio originali, capace di maneggiare serio e faceto con uguale destrezza, artista di punta nel panorama italiano per la malleabilità dei mezzi. E il cielo è blu e gli uccellini fanno cip cip.
Dato: Silvia Ziche ha dato alle stampe Lucrezia e Alice a quel paese, cross-over tra Alice a quel paese, creatura degli anni novanta scongelata dal cattivo di turno, ingenua e idealista come solo i ventenni sanno essere, e Lucrezia, quarant’anni, una sfilza di relazioni più o meno insoddisfacenti, disillusa a tal punto da adottare Oliver, un cane che faccia da palliativo alle sue delusioni amorose, ma alla fin fine sempre legata a quel corollario di atteggiamenti tipicamente femminili.
Problema: come parlare di Lucrezia e Alice a quel paese senza scadere nel banale?

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Be’, forse la soluzione sta scritta nel manuale d’istruzioni invocato a gran voce in più punti della storia: Alice nasce con un bisogno disperato di regole e suggerimenti su come comportarsi - metafora che descriveva lo spaesamento della Ziche alla fine degli anni ottanta, arrivata dalla provincia veneta nella caotica Milano - ed è con un decalogo su come rimboccarsi le maniche che il libro si chiude. Tanto Alice quanto Lucrezia - e noi lettori con loro - hanno bisogno di norme, dettami regolatori che mettano ordine alle loro vite. E questo ordine Silvia Ziche lo trova mettendo nero su bianco i dubbi, le ansie e le angosce comuni.
Perché Alice, la controparte idealista dell’autrice, ha l’angoscia che già avevano Calvin o Linus verso il futuro, un’identità ancora da scoprire e una realtà che invece si è scoperta fin troppo ottusa, buona solo a controllare il meteo dal cellulare o la pagina dei licheni siberiani su Wikipedia. Proprio contro il web e i mezzi di comunicazione digitale l’autrice si scaglia con veemenza. Non solo Alice non si fida della rete - a ragione, visto che ne rimane invischiata - per diffondere il suo messaggio di ribellione, ma addirittura la usa per screditare il cattivo. Una visuale pessimistica di internet come strumento disinteressato alle rivoluzioni ma rapito dal gossip più becero. Insomma, per quanto abbozzata con fin troppa schematicità e mai realmente strumento di ficcante satira, la società ritratta dalla fumettista non è delle migliori e il finale, con quel colpo di coda amarognolo che attenua lo stucchevole senso di speranza, ne è l’ennesimo esempio.
Le riflessioni amorose di Lucrezia vengono qui mischiate all’universo della politica, dove il vincente è un generico “Cattivo” ripulito alla buona per buttarsi nella mischia dei partiti, proclamandosi “uno di noi” e ottenendo largo consenso grazie a promesse come l’autorizzazione a far pesare i propri traumi passati o il programma di secessione individuale dell’umanità; in questo caso le battute sono meno a fuoco rispetto alle situazioni di vita quotidiana, nelle quali la Ziche sa essere sferzante come al solito, ma la cura per gli aspetti formali vale più delle parole (la barba sfatta, l’abito spiegazzato, il nodo alla cravatta allentato, il bottone scucito).
Immutate restano le sue doti di cantastorie navigata; la trama si fa meccanismo impeccabile, conciliando ogni svolta narrativa con una battuta e ogni sketch finisce per diventare un tassello che fa avanzare la storia, intrattiene e informa. L’autrice consolida una struttura già usata in altre opere ma raramente adoperato da altri: pagine autoconclusive nella tradizione delle comic strip statunitensi alternate a splash page, vignette di formato unico. Quest’ultime, come alla fine di un percorso, riassumono la gag e la rilanciano, coagulando il nucleo tematico delle pagine precedenti in un’unica immagine, portatrice del senso ultimo.

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A livello stilistico, avere le due creazioni nello stesso volume è anche riprova dell’evoluzione del tratto, la cui unica costante è quella di un design esagerato e iconico: se Alice, labbra enormi e occhietti neri, è debitrice dello stile di Giorgio Cavazzano, nume tutelare dell’autrice vicentina, Lucrezia, con il suo naso oblungo, è creatura zichiana per gusto ed espressività.
Le tavole sono segnate dal pennino caricaturale, comunicativo nella sua estrema essenzialità, nonché dal guizzo per i momenti puramente visivi (il giornale che riduce via via lo spazio dedicato alla scomparsa di Alice, la linea di demarcazione della vignetta che prende vita e diventa l’indice zigzagante dei mercati). Quello della Ziche è un lavoro a sottrazione. Il ritmo della pagina è lento, statico, sospeso nel tempo, per poi chiudersi di botto con la battuta finale, e tutto si basa sullo scarto minimale tra vignetta e vignetta, sulla sottigliezze delle pose. Così, mente Alice legge i giornali del presente, i due piccoli punti neri che ha per occhi sono l’unica cosa che differenzia l’immagine successiva, in cui la ragazza si ritrova due cerchi strabuzzanti.

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Pur con qualche sfocatura, Lucrezia e Alice a quel paese confermano i pregi di Silvia Ziche come artista completa, che in potenza potrebbe toccare vette ancora più alte: è vero che l’inconsistenza degli sfondi ha il pregio di far concentrare l’occhio del lettore sui dialoghi e le espressioni dei personaggi, ma è un peccato che una matita così estrosa sia confinata e svilita a scapito dell’effetto comico, perché una sintesi tra comicità e valore estetico della pagina è possibile (lo dimostrano le domenicali di Calvin & Hobbes e Mutts, o Asterix, che fa un uso smodato della comicità in campo lungo, o la stessa Ziche, che in San Francisco e santa pazienza aveva raggiunto risultati simili).

Lucrezia e Alice a quel paese: conversazione con Silvia Ziche

Intervista a cura di Andrea Fiamma.

"Lucrezia c'est moi" potrebbe scrivere Silvia Ziche, parafrasando Flaubert.
Non a caso, forse, sulla copertina del suo nuovo lavoro Lucrezia e Alice a quel paese la prima è ritratta con in mano "Madame Bovary". Ma il nuovo lavoro di Silvia Ziche, raffinata penna umoristica nonché fumettista totale, riporta in scena un altro suo alter ego, la giovane idealista Alice apparsa sulle pagine di Comix negli anni novanta.

Vicentina, Silvia Ziche sbarca a Milano negli atti ottanta per studiare all'Istituto di design: sarà quel senso di alienazione e mancanza di coordinate che la ispireranno a creare il personaggio di Alice a quel paese. Debutta su Linus, per poi apparire, tra le altre, su Cuore e Comix; è però Topolino a darle la possibilità di dimostrare le sue abilità di narratrice ad ampio respiro, grazie a saghe come Il papero del mistero e Il grande splash (riproposto in edicola alcune settimane fa).
Negli anni duemila, oltre a collaborare a vari progetti con autori come Tito Faraci e Vicenzo Cerami, scrive e disegna Amore mio, opera in cui compare per la prima volta il personaggio di Lucrezia, che nel 2006 diventerà presenza fissa sulle pagine di Donna Moderna.

Lucrezia e Alice a quel paese, edito da Rizzoli-Lizard, rappresenta l'incursione dell'autrice in un territorio nuovo, quello del commento sociale e politico, mettendo in secondo piano lo sferzante umorismo sulle relazioni amorose e le idiosincrasie della vita quotidiana.

Abbiamo avuto l'occasione di discuterne con lei, parlando della sua ultima fatica, di Facebook, Twitter e dell'insostenibile leggerezza di essere autori.

Per leggere la recensione di Lucrezia e Alice a quel paese, clicca qui.

lucreziaealiceLucrezia e Alice a quel paese è ormai sedimentato nelle menti dei lettori. Come giudichi il lavoro? Riesci a essere obbiettiva nei confronti dei tuoi fumetti od occorre un periodo di distacco per poterti giudicare?
Deve passare almeno un anno prima che io possa capire che cosa ho fatto. Prima, affogo nella più totale insicurezza. Quindi al momento non riesco a giudicare il mio lavoro. Mi fido del fatto che l'idea iniziale, quando si è affacciata, mi sembrava funzionare.

Quindi delle tue opere passate (penso a Due o San Francisco e santa pazienza) hai un giudizio più obbiettivo, ora?
Sì, ora sì. Vedo ancora i difetti, ma vedo anche le cose che funzionano. E quando vedo le cose che funzionano, penso anche che non sarò mai più in grado di fare cose come quelle. Quindi sono più obiettiva, ma altrettanto insicura, purtroppo.

Stefano Feltri sul Fatto Quotidiano ha citato Silvio Berlusconi come fonte d'ispirazione per il cattivo del libro (portando come prova il "ventennio" in cui Alice resta congelata), un paragone che non avevo voluto prendere in considerazione durante la lettura - nonostante la fisionomia sia quella. È un parallelo che trova riscontro nelle tue intenzioni?
Posso dissentire? Non trovo che la fisionomia sia quella. Non è alto, ma a parte questo non mi sembra che gli somigli. L'innominato cattivo del mio libro è cialtrone, arruffato, spiegazzato. Non è ricco, all'inizio si vede il suo antro, e non è certo una villa. Dove assomiglierebbe al signore che viene citato a modello? Non è lui a cui mi sono ispirata. Non do un nome al personaggio apposta: non è nessuno, è una categoria. Volevo raccontare la deriva tragica che sta prendendo la politica nel nostro paese. E la politica, negli ultimi vent'anni, è stata condizionata sicuramente da quel signore, ma anche da chi intorno a lui ha cercato visibilità e potere, e da chi non è riuscito in nessun modo a contrastarlo.

Nel libro si legge una critica unilaterale alle nuove tecnologie. Aggiorni spesso il tuo sito ufficiale e sei presente su Facebook - ma non su Twitter; che rapporto hai con internet?
Capisco che tutto va in quella direzione per cui, con un ritardo che mi porto dietro da sempre di almeno cinque anni, mi adeguo anch'io. Faccio fumetti, racconto storie. Se i lettori si rifugiano più sul web che sulla carta stampata, mi tocca andarli a cercare lì. Ma la virtualità e l'immediatezza del web mi affaticano un po'.

Non sembra, visto che sei molto attiva, rispondendo a ogni commento. Il meno “social” Twitter, invece, è una realtà che sembra più adatta per il tuo stile di scrittura, dove con 140 caratteri la sintesi e la capacità di concentrare il pensiero sono tutto. Non ti attira?
Ammetto che conosco poco Twitter. Ma per quanto sia abituata alla sintesi, visto che faccio vignette, non sono convinta che in 140 caratteri si possa esprimere un'idea complessa. Soprattutto se si twitta ogni 10 minuti. Non so, forse sono io che non sono in grado di concentrare il mio pensiero. Ma magari, con i miei soliti 5 anni di ritardo, arriverò anche a quello.

Il termine graphic novel viene spesso usato per nobilitare opere considerate adulte o con tematiche forti (molti giornalisti hanno parlato di graphic novel anche per Lucrezia e Alice). Roberto Recchioni, sull’Unità, lo ha definito: «Un'etichetta utile per vendere fumetti a chi si vergogna di leggerli». Lucrezia e Alice a un certo punto della storia si propongono di realizzarne uno, per sensibilizzare le coscienze. Qual è la tua opinione in materia?
I (o le, secondo le diverse scuole di pensiero) graphic novel sono fumetti. C'è poco altro da dire. Magari è una definizione politicamente corretta, ma il concetto rimane quello.

In una recente intervista a Tizzoni d'Inferno, hai parlato con Tito Faraci di un paradosso alla Woody Allen secondo cui l'autore è legato ma schiavizzato allo stesso tempo dal lettore, che non vi vorrebbe vedere fuori dalla vostra zona di sicurezza. Lucrezia e Alice a quel paese affonda le radici nel commento allargato alla società, alla politica. È un territorio che ti piacerebbe ripercorrere in futuro?
Quello che volevo dire è che non voglio sentirmi legata a un genere che ci si aspetta da me. Negli ultimi anni ho lavorato sempre sui rapporti tra le persone, sui cortocircuiti della vita sentimentale e affettiva. In questo momento non riuscivo a parlare solo di quello, perché la realtà sta condizionando pesantemente le nostre vite in tutti gli aspetti. Penso che continuerò comunque con quello che ho sempre fatto, che credo rientri nella satira sociale, più o meno. La satira politica non mi attira.

Topolino è passato alla Panini. Quando l'hai saputo, cosa ne hai pensato? Credi che il cambio di editore possa influenzare la direzione artistica delle storie?
Sinceramente non lo so. Ho trovato al momento molto entusiasmo, e l'entusiasmo è contagioso. Sto a vedere, come tutti credo, quello che succederà.

ziche2013Autori come Tito Faraci e Giorgio Cavazzano, che ben conosci, hanno avuto l'occasione di sperimentare con personaggi statunitensi (l'Uomo Ragno, Capitan America, Devil). Ti piacerebbe lavorare su una proprietà extra-Disney?
Non ci ho mai pensato. Davvero.

Nel numero lucchese di Topolino è apparso una tua divertente riflessione sulle idiosincrasie della mostra. Innanzitutto, ti piace andarci come autrice? E come giudichi l'evoluzione, più lenta negli scorsi anni, rapidissima da qualche tempo a questa parte, della fiera (in termini di crescita di pubblico e commistione tra fumetti, giochi e film)?
Sì, mi piace molto andarci. Il mio è un lavoro che tende a isolare un po' dal mondo. Si lavora da soli, si perde il contatto con la realtà. È bello quindi, ogni tanto, incontrare chi legge i miei fumetti, e vedere che effetto fanno. Mi aiuta ad andare avanti. Non so spiegare il rapido successo. Mi rendo conto che prima c'era tanta gente, e adesso ce n'è tantissima. Prima non c'erano i cosplay, e adesso sì. Ma non so il perché.

In molte interviste ti sei definita una lettrice onnivora, quali sono state le ultime letture (fumettistiche e non) che vorresti consigliare ai lettori di Comicus?
Fumettisticamente parlando, ho letto Zerocalcare. Lo consiglio, tutto. Per il resto, ho letto alcuni saggi che mi servono per un prossimo lavoro, e parecchi romanzi non del tutto degni di nota. Ho una memoria pessima, tendo a rimuovere tutto, ma l'ultimo romanzo che mi ha lascito una traccia nella memoria è 22/11/63 di Stephen King.

Puoi svelarci qualcosa dei tuoi prossimi lavori?
Sto disegnando una storia per Topolino, su testi miei. Per il resto, sono ancora in alto mare, e in questa fase tendo a essere un po' scaramantica, preferisco non parlarne.

Star Wars VII: parla lo scenografo, aggiornamenti sul cast

  • Pubblicato in Screen

Parlando con il sito Coming Soon, lo scenografo Rick Carter ammette di aver proposto di persona la propria candidatura alla produttrice: "Ho offerto i miei servizi a Kathy Kennedy, che conosco da molto tempo. Le dissi che se era coinvolta in un progetto per portare Guerre stellari alle nuove generazioni, avrei apprezzato essere parte del dialogo e aiutare. A gennaio ha accolto la mia richiesta e da allora lavoro al film. Poi è arrivato J.J. e ci siamo subito trovati sulla stessa lunghezza d'onda".

La produzione ha poi affiancato a Carter il giovane designer Darren Gilford, che svolgerà con il premio Oscar il ruolo di scenografo: "Lavoriamo alla scenografia del film come un team" ha spiegato Carter "per fornire a J.J. il meglio delle due generazioni, la nuova con Darren e la mia, in grado di riportare il film agli anni settanta, quando ho iniziato a lavorare e si facevano i film alla vecchia maniera".

Nel frattempo, Superhero Hype riporta che Jason Flemyng, già al centro di rumor riguardo a una sua partecipazione al film, quando il regista non era ancora stato annunciato e sembrava possibile che Matthew Vaughn potesse dirigerlo, ha postato su Instagram un'immagine, poi eliminata, della sceneggiatura. L'attore ha poi dovuto chiarire la situazione, spiegando che si trattava di un'audizione.

Se quindi la presenza di Flemyng è tutt'altro che certa, la Lucasfilm ha comunicato che R2-D2 comparirà nel film, pubbblicando una foto del robottino insieme al regista, la produttrice e i due tecnici incaricati di costruirlo, ai Pinewood Studios.

Lee Towersey e Oliver Steeples sono i due inglese che Kennedy ha personalmente scelto dopo aver constato le loro capacità ingegneristiche durante la Celebration tenutasi in Germania la scorsa estate: "Kathleen Kennedy era passata nella zona espositiva dei costruttori di R2-D2, ha posato per le foto, guardato i droidi e fatto molti complimenti. Scherzando, le abbiamo detto che, in qualità di membri inglesi del club ufficiale dei costruttori di R2-D2, eravamo disponibili a lavorare. Quando poi ci ha contattato Jason McGatlin [il produttore esecutivo], ci ha detto che eravamo stati raccomandati da lei".

Cronache Texiane: conversazione con Fabio Civitelli

Intervista realizzata da Andrea Fiamma (con la collaborazione di Giovanni La Mantia).

"Io sono monogamo: c’ho una moglie e un personaggio!" così Fabio Civitelli, cordiale e affabile matita di Tex, definisce il suo rapporto quasi trentennale con l’eroe Bonelli, che lo ha consacrato tra le più importanti personalità del fumetto italiano.

Nell'ambito dell'iniziativa ArtePadova, che vede raccolti sotto lo stesso tetto le maggiori realtà galleristiche dell'arte contemporanea, approda nella città veneta, dopo aver fatto tappa in vari capoluoghi italiani, la mostra curata dalla galleria Ca’ Di Fra’ sul Tex di Civitelli. Presenti gli originali del Texone La cavalcata del morto, nonché i dipinti su tela realizzati dall’artista toscano.
Un’anomalia, la definisce Civitelli: un artista di fumetti accostato a Rabarama e Schifani, i panorami di Tex tra le estroflessioni di Castellani e i tagli di Fontana. Eppure, in un panorama culturale dove il fumetto sembra essersi sdoganato dagli stereotipi che lo riducevano a intrattenimento per bambini o, alla meglio, svago per illetterati, la linea di confine tra arte elitaria e fumetto si sta via via sfumando. Se, come ha affermato Civitelli, certi autori del passato si vergognavano di fare fumetti e dichiaravano di essere prima di tutto Artisti o Pittori, ora definirsi fumettisti non rappresenta più un'onta, una cosa da nascondere o di cui parlare con riserbo.

Civitelli, che nel pomeriggio ha partecipato a una tavola rotonda sul fumetto insieme a Giancarlo Soldi, autore del documentario Come Tex nessuno mai, il critico d'arte Italo Marucci, Sergio Pignatone, editore di Little Nemo Art Gallery, e Manuela Composti, della galleria Cà di Frà, ci ha gentilmente accolto allo stand di ArtePadova per parlare del fumetto come arte, della segregazione del primo nei confronti della seconda, del nuovo corso di Dylan Dog e... delle caffettiere nell'ottocento!

Quest’anno è stato a Lucca? Come l’ha trovata?
civ1Sì, ci sono stato quattro giorni, ospite dell’organizzazione perché ero nella giuria [del premio Guigini]. Non riesco a vedere molto perché quando sono a Lucca lavoro, però le esposizioni al palazzo Ducale erano belle, soprattutto quella di Hermann.

E questa mostra, invece?
Be’, è una cosa abbastanza anomala avere uno spazio di una mostra di arte contemporanea, tanto che ho sentito che qualche gallerista non è contento; sai, mischiarmi con De Chirico o Fontana... [ride] Dopo che ho fatto la personale di Ca’ di Fra’ a Milano di illustrazioni texane e di tavole, che è andata molto bene, dove ho presentato il Texone, è nata l’esigenza anche di lavorare sulle tele: ho cominciato con i quadri su cui ho riportato quello che è il mondo di Tex, il mio stile, il bianco e nero e la galleria ha cominciato a portare a tutte le mostre le tele che ho fatto: Bologna, Roma contemporanea al Testaccio, Verona, Genova l’anno scorso, quest’anno rifarò Bologna arte fiera. È un circuito completamente diverso da quello del fumetto.

Come spiega questa commistione, apparentemente blasfema agli occhi degli appassionati d’arte contemporanea?
Si spiega perché il mio gallerista crede molto in me, lui fa mostre dove espone fotografia, illustrazione, è attento a questi tipi di linguaggi. È nato tutto dalla collaborazione di Composti e Pignatone. Pignatone ha portato in mostra Pazienza nel 2012, ora Manara. Credono molto nella qualità del mio tipo lavoro, pensano che, in quanto artisti, sia giusto che i nostri lavori siano all’interno del mondo dell'arte, che vengano fatte conoscere a un pubblico nuovo, che è quello del collezionista d’arte contemporanea.

Come valuta la diatriba tra fumetto e graphic novel, che spesso è solo un’etichetta per elevare un certo tipo di fumetto?
Bisogna far conoscere il lavoro, i bei lavori, perché ci sono graphic novel brutte e fumetto popolare molto bello. Non farei la distinzione, non credo che il mio personaggio che vende 200.000 copie sia roba da poco e invece quello che vende in libreria 500 sia bello per forza. Io penso che molto viene dall’impegno e dal tipo di lavoro che si fa all’interno di un prodotto. Tex è un fumetto popolare ma non è un fumetto fatto male, abbiamo signori sceneggiatori, per cui è la qualità intrinseca che fa il prodotto, non bisogna fermarsi al fatto che il prodotto sia popolare o no.

Quindi Tex in una mostra di arte contemporanea non stona?
Il fatto che sia un’icona aiuta, noi ci aspettiamo un pubblico che non è solo quell’arte contemporanea, e le due cose si aiutano. Infatti questi signori che sono venuti da me frequentano il mondo dei fumetti, però sono venuti a vederla. L’intento dell’organizzazione è aprire questo tipo di fiere al pubblico del fumetto e in più fare conoscere questo tipo di prodotto al mondo dell’arte contemporanea, cioè avvicinare. Speriamo che funzioni.
Poi, sai, nell’arte contemporanea c’è di tutto e di più. Ma la gente ha voglia di vedere cose ben disegnate: il disegno si è perso nel corso degli anni, tanti artisti fanno altre cose, fanno astrazioni, videoarte, per cui noi, gli artigiani, che abbiamo una qualità tecnica assodata - altrimenti non potremmo lavorare - facciamo un prodotto che alla gente piace. È comprensibile per il pubblico, che solitamente davanti a una tela tutta blu rimane interdetto.

E in un periodo in cui il western, in ogni sua forma narrativa, non è di moda, come fa Tex a essere ancora così popolare?
Tex è più avanti, è qualcosa di più rispetto al genere western, è un raccoglitore dell’avventura. Sto facendo una storia col ritorno di Yama, il figlio di Mefisto [mostra le tavole della storia portate in mostra]. Questa certamente è una storia da Dylan Dog, cioè basta vedere [una tavola presenta uno spettro muoversi tra le vignette, interamente realizzato con l’effetto puntinato], diventa un contenitore, perché questa è prettamente una storia horror, pur stando all’interno di una storia western non è più western, è una commistione. Su Tex abbiamo avuto una storia con gli extra terresti, una di magia, gialli, noir, c’è di tutto all’interno di questo universo. È trasversale. E vale per il genere ma anche per i lettori: io vedo il primario d’ospedale che legge Tex e l’operaio che legge Tex e tutti e due lo apprezzano allo stesso modo. Vedo Umberto Eco che ama Tex e il quasi analfabeta che legge solo Tex e mi stupisco. È incredibile. Siamo popolari in questo senso qui, raggiungiamo tante fasce di pubblico. Se invece “popolare” significa tirato via e fatto da poco, allora no, non è più popolare.

civ2Sappiamo che è coinvolto in una storia di Dylan Dog, in uscita nel Color Fest del 2014.
Sì, ad aprile c’è il Color Fest di Dylan dedicato a l’incontro con altri personaggi Bonelli, Martir Mystere, Tex, Napoleone... E mi hanno chiesto di fare la parte di Mister No anche perché si vede Ananga, che ho fatto con Sclavi, per cui non ho potuto dire di no. Ho fatto le prime sei pagine.

Proprio parlando di Dylan Dog, cosa ne pensa del rinnovamento del personaggio e della nuova gestione di Roberto Recchioni?
Conosco Recchioni, è una bravissima persona, a me Orfani è piaciuto molto. Ho visto delle cose in anteprima che mi fatto vedere e devo dire che è la persona giusta, ha idee nuove e un ragazzo tecnicamente competente e potrà fare un ottimo lavoro; inoltre è coadiuvato da Paola Barbato e altri autori. Secondo me lì si sentiva il bisogno di un certo aggiustamento, di un rinnovamento.
Ho fiducia in Roberto, mi ha parlato delle sue idee, del suo orientamento e vedremo delle belle cose. Ancora non le vediamo, ovviamente, anche se lui ha cercato di mettere mano alle storie già in lavorazione ma più di tanto non si può modificare, mentre dall’anno prossimo vedremo i veri effetti della gestione: ho parlato con Brindisi, che sta facendo la storia con il pensionamento di Bloch, che sparirà dalle storie ma continuerà ad avere un ruolo diverso, paradossalmente più importante. Al suo posto ci sarà un altro personaggio che avevamo già visto in passato; e poi ci sarà l’ingresso della tecnologia, quindi cellulari, il computer, tutte cose che Dylan Dog si rifiuterà di usare!

Esperienza accumulata a parte, come è cambiato il tuo approccio al disegno da Mister No a Tex?
Quando sono stato chiamato a disegnare Tex ho cambiato l’approccio perché ho dovuto accostarmi con umiltà al personaggio. Tex è un personaggio difficile, chiede tanto al disegnatore anche solo a livello di caratterizzazione perché non ha poi delle caratteristiche così particolari che lo rendono riconoscibile. Centrarlo è difficile, io mi sono basato molto sul modello di Ticci; da lì sono partito e alla fine penso di aver trovato un modello mio che si può situare tra quello di Ticci e quello di Villa.
A parte questo, il western richiede tanta ricerca, documentazione, è un mondo che non c’è più, negli anni mi sono costruito un archivio dove vado a vedere i vestiti e l’oggettistica. Oggi abbiamo internet, però ogni volta che fai un minimo oggetto devi pensare a com’era nell’ottocento. Per dire, come era fatta una caffettiera? Ti devi documentare. Per esempio, ho fatto una storia per il Color Tex dell’anno prossimo, “Delta Queen”, tutta ambientata in un battello a ruota a vapore e c’erano queste dame eleganti - adesso si dice “dame eleganti” [ride] - ho ricostruito queste dame tutte belline, imbellettate, gli uomini col cappello a cilindro, ben vestiti; per cui ogni volta devi comunque studiare. Inoltre, Tex varia molto, non è sempre stato in Arizona, una volta hai i messicani e i peones, la volta dopo un altro posto. Il lavoro si rinnova sempre, è anche questo il suo fascino.

In un’intervista ha dichiarato che i lavori su tela sono ispirati alle foto paesaggistiche del fotografo staunitense Ansel Adams. In che modo l’ha influenzata?
Ansel Adams è stato una fonte d’ispirazione perché, essendo io stesso un fotografo, seppur in maniera più amatoriale, mi interessava lo studio della luce che Adams faceva, che poi è il punto chiave delle mie tavole, la luce. I paesaggi del West di Adams sono, se vuoi, una semplificazione estetica, ma comunque molto forte, degli ambienti di Tex. Ora voglio continuare a sperimentare in quel territorio, mi interessano i fotografi paesaggisti americani, voglio provare a trasporre quello stile lì.

Il cui marchio di fabbrica, a vedere dalle tavole esposte, rimane sempre il meticoloso uso del puntinato.
Io ho sviluppato il mio stile, il puntinato, proprio per superare le esigenze tecniche della stampa, che metteva i neri sui bianchi e per i grigi usava il retino, ma io volevo andare oltre e il puntinato mi ha permesso di creare questo grigio, questa ombra. Se guardi quello [indica Monument Valley, una matita e china di Tex con le tipiche asperità dell’Arizona sullo sfondo] vedi che la montagna fa ombra anche sulla nuvola stessa e questo con il bianco e nero non l’avrei potuto ottenere.

civ3Ormai può fregiarsi del titolo di autore di un Texone. Tra i suoi predecessori quale preferisce?
Magnus, su tutti. È un artista immenso, che seguivo fin dalle origini, da Alan Ford a Satanik. Ho amato e amo il suo lavoro moltissimo. Lo continuano a ristampare perché vende sempre (all’epoca della sua uscita ricordo che vendette uno sfracelo di copie). Io quel suo Texone ce l’ho in tutte le versioni, persino la ristampa a colori della Repubblica, da quanto mi piace.
Poi  il fatto che abbiano scelto me è stato come vincere un Oscar! Non solo per il lavoro in sé, ma anche perché mettere uno degli autori ordinari di Tex è un ulteriore onore. Solo Galeppini, Ticci e io ci siamo riusciti. Sono cresciuto con Tex, con quel tipo di personaggi, poi ho scoperto i supereroi, Marvel soprattutto, e anche lì ci sono dei miei miti personali, Jack Kirky, John Romita Sr., John Buscema.
Per il Texone mi scelse Sergio Bonelli in persona e, ripeto, è stato un grande onore. Mi spiace solo che non abbia potuto vedere le tavole finite, quello è il mio unico rammarico.

Penso sia stata una perdita molta dura da metabolizzare per il gruppo, e per l’industria in generale.
È stato un brutto colpo, per davvero. Mi ricordo che facemmo delle presentazioni insieme in estate, poi non lo vidi più. E a settembre mi dissero che era morto. È stata veramente una brutta notizia. Le sue scelte si ripercuotono ancora adesso, nonostante la gestione ora sia in mano a Davide Bonelli e Mauro Marcheselli; si diceva non andasse matto per il fantasy, ma, per esempio, Dragonero l’ha approvato lui.

Nel 2000 firmò il soggetto de “Il presagio”, una storia di Tex poi sceneggiata da Claudio Nizzi. Ripeterebbe l’esperienze?
È capitato che offrissi dei soggetti, delle idee a Nizzi, ma è stato anche grazie all’esperienza maturata dagli anni su Tex, agli inizi sarebbe stato impensabile.

Perché, quando si è più giovani non si ha il coraggio di proporre idee?
Si è più intimoriti, hai di fronte gli sceneggiatori e magari ti freni. Io ho firmato altri tre soggetti, uno accreditato, gli altri due no. L’anno prossimo uscirà un Color Fest di Tex e sto pensando a qualche idea, ma il tempo non c’è mai, essendo impegnato a disegnare, quindi vedremo.

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