La ricerca di se stessi nella profondità dello spazio: intervista a Francesco Guarnaccia
- Scritto da Emanuele Amato
- Pubblicato in Interviste
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Francesco Guarnaccia è una promessa del fumetto italiano. Membro di spicco del collettivo Mammaiuto, ha già all’attivo un bel po' di pubblicazioni iniziate nel 2013, grazie all’autoproduzione, fino a From Here To Eternity per Shockdom. Esordisce con Bao Publishing con la sua spaziale, quanto profonda opera, Iperurania. Lo abbiamo intervistato durante il Napoli Comicon 2018, per ampliare un po’ la visione di questo meraviglioso fumetto.
Potete leggere la recensione di Iperurania qui.
Il tuo Iperurania è una storia fantascientifica, che però è un pretesto, per raccontare il superamento di paure. Quanto c’è di autobiografico dietro?
Di biografico c’è il 40%. Direi che non è una storia propriamente autobiografica ma prende spunto, neanche dai fatti reali, ma delle sensazioni che ho provato, che per me sono state passeggere. Non hanno minimamente influenzato la mia vita e il mio quotidiano, però, nel momento in cui mi è capitato di provarle le ho trovate interessanti per svilupparci una storia. Del buon materiale da approfondire, insomma. Quindi ho incominciato partendo dalla mia esperienza ad ingigantirla. Provare a capire se una situazione del genere, ovvero la sindrome dell’impostore, come poteva cambiare la vita nel momento in cui diventava pesante e opprimente. Comprendere quali potessero essere le conseguenze anche nei rapporti con le altre persone. Infatti poi nel libro si parla di amicizia, di rapporti con i colleghi e tutti i rapporti interpersonali, più o meno intimi. I rapporti più intimi, in questo caso, non hanno un riscontro effettivo 1 a 1, nel senso che nessuno dei personaggi del libro è il corrispettivo di un personaggio reale, però loro sono il sunto, il condensarsi di tutte le mie esperienze di amicizie che ho vissuto nella mia vita.
Hai dato voce alla situazione di tanti artisti, coinvolgendo vai ambiti dell’arte. Come credi che sia il panorama attuale del fumetto? E come lo stai vivendo?
Io, personalmente, la sto vivendo molto bene. Cerco di essere, allo stesso tempo, molto professionale e molto amichevole, diciamo. Se questo è il termine giusto. Quello a cui tengo, però, è non mescolare le due cose. Nel momento in cui si è ai festival e si hanno rapporti personali, per me è importante anche entrare in confidenza, in intimità, nel senso del conoscere chi si ha davanti come persona. Avere dei buoni rapporti. Quando è il momento di essere professionali, tutte le questioni personali devono restar fuori. Non devono influenzare ciò che è il lavoro. Ad esempio, io preferisco tenermi più alla larga possibile da polemiche, frecciatine etc. Ritengo che facciano veramente male all’ambiente lavorativo in primis e all’ambiente in generale, poi. Bisogna scindere le cose, per quanto sia possibile. E non condivido nemmeno l’idea che spesso capita di vedere, dell’avere una sorta di squadra di appartenenza. Come se gli autori dovessero essere divisi in scuderie o team, insomma. Questo introduce un elemento di competizione. Io ho lavorato con tante realtà e sono contento e fiero di aver messo le mani un po’ ovunque. È chiaro però, che a volte si trovano delle situazioni più stabili, un po’ per alchimia quasi. In questo momento sono molto soddisfatto del lavoro svolto con Bao e sicuramente collaborerò in futuro con loro, anche se non voglio precludermi niente. Soprattutto mi piace pensare che sia possibile lavorare insieme pur collaborando con realtà distanti, senza che l’una escluda l’altra. Tornando alla domanda principale, se l’ambiente lo si vive in modo sano, è veramente ricco e prospero. Non bisogna cadere prede di isterismi e critiche distruttive.
La sindrome dell’impostore, nel libro, assume due forme diverse, in contesti diversi. Mi spiego meglio. Uno all’interno proprio dell’ambiente di appartenenza, che sia settore della fotografia, fumetto o altri campi artistici, c’è dell’invidia da parte dei colleghi. C’è la competizione. Non quella sana ma quella malsana. Infatti quello che tento di dire nel libro è che la competitività in realtà può essere una cosa molto positiva se presa in un certo modo. Che ti spinge a migliorare.
Poi c’è un altro sentimento che è rivolto all’esterno dell’ambiente artistico. Riguarda quello che una persona, che fa un lavoro più tradizionale, prova per chi invece fa un qualcosa che ama. Questo anche in maniera contraria. Nel senso chi fa un lavoro che ama fare, si autoinnesca poi dei sensi di colpa. Per cui chi vive di un lavoro che reputa divertente, si può sentire in difetto verso persone che magari si spaccano la schiena. In realtà la soluzione dovrebbe essere quella di avere una serenità verso sé stessi. Inoltre, se fai un lavoro che ti piace e ti diverte, all’esterno non viene più percepito come un lavoro. Si ha un non riconoscimento di esso, perché non stai lì a soffrirne. Questo avviene più per autodifesa che per cattiveria, vorrei sottolinearlo.
Hai un metodo particolare di strutturazione della tavola. Ti ispiri a qualche artista in particolare? Quali sono le tue influenze artistiche?
Ovviamente la tavola e la messa in pagina sono asservite alla storia. È impossibile per me dire che le cose sono scisse. È chiaro che tutto ciò che voglio sperimentare e far entrare in pagina è funzionale alla storia. In generale resto sempre abbastanza sorpreso quando mi dicono che sono particolarmente sperimentale .A me non sembra, o quantomeno, le mie vignette sono regolari. Tutto il libro ha una continua dilatazione e decompressione delle vignette. È un gioco di avvicinamento e allontanamento. Quindi ci sono pagine super piene e tante splash-page e doppie splash. Mi piace questo metodo perché mi permette di dare tanto ritmo alla storia. Comprimere, decomprimere e, per me. la grandezza della vignetta è un segnale del soffermarsi, un’indicazione precisa, temporale direi, o comunque di importanza. In realtà sto dicendo delle cose abbastanza fondamentali, basiche oserei.
Per le ispirazioni, faccio molta fatica ad identificare quali sono le mie influenze per la scrittura e quelle per la messa in pagina. Per la regia delle storie, ecco. Per il riferimento stilistico invece devo citare Bryan Lee O’Malley, che non riesco a separarmene come assimilazione e, negli anni, la scena degli artisti indie inglese, quelli sotto l’ala della Nobrow Press. Tra i miei preferiti direi senz’altro Luke Pearson e Sam Brosnan. Uscendo invece dall’ambiente del fumetto, faccio molto riferimento al mondo dell’animazione. La recente scena dell’animazione 2D: Gravity Falls, Adventure time, sono tra quelle che più mi prendono.
Cosa dobbiamo aspettarci per il prossimo futuro?
Allora, con Bao per ora stiamo a vedere Iperurania e ancora dobbiamo parlare del futuro. Nell’immediato, invece, la mia preoccupazione è terminare Il Cavaliere e il Serpente. È una storia a cui tengo tantissimo e voglio assolutamente portare al termine. Dopodiché ho un paio di storie in serbo. Forse troppe, quindi sto cominciando a pensare all’idea di scrivere anche per altre persone e vedere come va. Lavorare con dei disegnatori per mettermi alla prova, perché nonostante io sia molto geloso delle mie storie, sono arrivato nel momento in cui forse alcune storie dovrei deciderle di non farle se dovessi disegnarle tutte io, quindi non mi va di accantonarle. Allora meglio affidarmi a qualcuno di cui mi possa fidare e farle venire alla luce.
Ultimissima. Il prodotto finito di Iperurania, come ti sembra? Te lo aspettavi in questo modo oppure c’è qualche appunto che avresti visto diversamente?
Allora io ho lavorato in digitale. Ho fatto una progettazione vera del libro. Prima di cominciare a lavorare alle tavole, avevo già perfettamente in mente le misure e il formato. Ciò nonostante, lavorare in digitale, ti provoca uno sfasamento totale dalla realtà. Tremendo. Per avere un minimo di corrispondenza mi son stampato le tavole in casa per comprendere come stesse venendo visivamente e come poteva apparire. Per avere un responso immediato, per controllare se ci fosse un particolare da modificare, tipo. Ma non è comunque sufficiente. Quando vedi il libro è altro. Quindi anche se sapevo in anticipo tutto, quale sarebbe stato l’aspetto del libro finito, non riuscivo a visualizzarlo fin quando non l’ho avuto tra le mani. Solo in quel momento ho avuto una visione chiara. Quando è capitato è stato veramente sorprendente. Il lavoro di stampa e tipografico è stato veramente eccezionale. Sono riusciti ad avere una corrispondenza tra i colori del mio schermo e quelli della carta, impressionante. Sono veramente soddisfatto della forma fisica di questo libro. Io all’università ho studiato design del prodotto, quindi anche questo mi ha regalato particolare attenzione sull’oggetto-libro e devo dire che Bao ha fatto un qualcosa di fantastico. Poi sono particolarmente feticista su questo aspetto, lo cerco e lo apprezzo in quello che compro. Non è neanche un valore aggiunto, ma un valore fondamentale che ogni libro dovrebbe avere. La progettualità del libro ha il potere di offuscare o massimizzare la bellezza di quello che è stato fatto.