unaintervista: Gipi, autobiografismo e processo creativo
- Scritto da Andrea Fiamma
- Pubblicato in Interviste
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Prima di Gipi c'era Gianni Pacinotti, art director in un'agenzia pubblicitaria a cui andava solo di disegnare. Nel 1994, finalmente, Gianni inizia a "disegnare male". E quei disegni abbozzati, fatti in rapidità e appiccicati a fianco a pensieri e frasi ispirate dal momento, vennero pubblicati da Cuore, la rivista satirica di Michele Serra, con il nome di Gipi. Da lì, l'artista toscano iniziò le più svariate collaborazioni, disegnando per libri, quotidiani e album musicali.
Da Appunti per una storia di guerra a La mia vita disegnata male, Gipi si è imposto come uno dei più importanti autori italiani in un'ascesa culminata con unastoria. Quest'ultimo lavoro, oltre a costituire il ritorno del fumettista sulle scene dopo un lungo iato (durante il quale ha debuttato come regista con il film L'ultimo terrestre), lo ha fatto conoscere al pubblico generalista e gli è valso una candidatura al premio Strega.
Asciutto come le sue figure su carta, Gipi ci ha parlato di cos'è un fumetto, dell'autobiografismo delle sue opere e di come, alla fin fine, non gli interessi nulla di tutto ciò.
Ciao Gipi e bentornato su Comicus. Partiamo dalla fine, unastoria. Ora che è passato un po' di tempo, che giudizio ne hai? Come lo valuti nel contesto della tua produzione?
È la chiusura di qualcosa. È finito qualcosa. I nuovi progetti sui quali sto lavorando, ad esempio, sono tutti di fiction.
L'esperienza autobiografica è una delle fonti primarie, ci sembra di capire, per il tuo lavoro; abbiamo visto lati molto intimi e privati in opere come La mia vista disegnata male, S, Esterno Notte, unastoria stessa. Come procedi nella filtrazione ed elaborazione del materiale autobiografico? Più in generale, qual è il tuo rapporto con la memoria privata?
Diciamo che inizio a raccontare della mia memoria privata solo quando non mi sembra più mia. Infatti, stupidamente forse, non ho mai avuto la percezione di fare lavoro autobiografico. La distanza nel tempo o la trasfigurazione che avviene con il disegno e la struttura del racconto fa sempre in modo che non abbia la sensazione di fare autobiografia. E quando quella sensazione ce l’ho non mi piace.
La componente autobiografica, come dicevamo, nei tuoi lavori è sempre molto presente. Sei dell'idea che un'opera vada fruita senza alcun contesto o credi che fornire delle coordinate al lettore, prima o dopo la lettura, lo aiuti a vivere un'esperienza di lettura migliore?
No, credo che se il lavoro è fatto bene deve stare in piedi senza premesse o la necessità di conoscenze aggiuntive.
Per unastoria il tuo processo creativo è cambiato? Hai steso una sceneggiatura dettagliata o ti sei lasciato andare a un flusso di coscienza visivo?
Mai come in unastoria mi sono sentito perduto nel lavoro. Non avevo una riga, non avevo neppure un’idea se si escludono un paio di immagini che mi ossessionavano e una speranza di ritorno per il protagonista che vive la prima guerra mondiale. Tutto il libro è stato fatto così, pensando sempre di essere fregato, di aver sbagliato, e maledicendomi per non aver iniziato una storia strutturata.
Hai affermato di aver re-imparato a disegnare prima di metterti al lavoro su unastoria, studiando le tecniche su internet. Cosa hai imparato che prima non sapevi?
Ho studiato alcune tecniche di acquarello. Roba da pittori, come l’uso dei pennelli grandi, piatti, per l’acquarello.
Dei tuoi altri lavori che idea ti sei fatto? Ti capita mai di ripensarci e dire "Qui non va bene, avrei potuto fare diversamente" o "Questa parte ora non saprei farla altrettanto bene"?
Sì, diciamo sempre. Vedo sempre le due cose: errori che non rifarei ed energie che non ritroverei.
Secondo te cosa definisce un fumetto? Le nuvolette, le gabbie (torna alla mente l'esclusione di Muttererde al premio Guinigi)? Perché spesso questa demarcazione si fa labile.
Non mi sono mai posto questa domanda. Definisco, ora, il fumetto come un racconto fatto di immagini e parole dove il tempo sia scandito da delle inquadrature, o vignette. Credo che sia la scansione del tempo che lo differenzia da un libro illustrato, per esempio.
I tuoi fumetti si distinguono per i fitti testi delle tavole, spesso incastonati come camei. Da qui l'idea di una prosa lavorata dalle parti del romanzo. L'idea di scrivere un libro senza il supporto delle immagini ti è mai passata per la testa?
Sì. Ma poi lascio sempre perdere, per quanto abbia ricevuto offerte per fare “un libro vero” come usano chiamarlo gli editori di letteratura. Ma poi non ho mai concretizzato niente. I disegni, quando non ci sono, mi mancano e non credo che la mia scrittura sia di una qualità sufficiente a sostenere un romanzo.
Hai lasciato le tue impronte ovunque, tra cinema e fumetto. Come sai qual è il mezzo giusto per raccontare una storia quando ti si presenta davanti? E di solito il processo prevede prima la scelta dalla storia e poi del mezzo o viceversa?
Di solito quando arriva il desiderio di raccontare qualcosa viene immediatamente seguito anche dal mezzo scelto. Come se fosse un pacchetto che contiene già tutto quanto. A volte mi è capitato di scrivere un racconto e poi pensare di tradurlo in fumetto ma di solito il risultato non è stato buono. Le cose migliori arrivano già con il proprio vestito.
Il processo creativo è fatto spesso di rimuginamenti e cambi decisionali, di progetti iniziati ma mai conclusi. Forse non tutti sanno tempo addietro c'è stata la possibilità di vedere su carta una tua collaborazione con Roberto Saviano. Ci racconti questa storia?
Dovevamo fare un libro a quattro mani. Ho lavorato per alcuni mesi, poi mi sono fermato.
Hai acquisito una certa reputazione agli occhi del pubblico generalista che ti vede come un'anomalia rispetto al mondo del fumetto, un qualcosa di più del fumetto. Ne sei conscio, è una cosa che cerchi di combattere o con cui convivi? Credi che la tua casa editrice abbia in qualche modo sfruttato questa caratteristica per importi sul mercato generalista?
Non mi occupo di questi aspetti. Potrei morirne. Cerco di lavorare con sincerità e al meglio delle mie possibilità artistiche. Tutte le questioni che vengono dopo, prima o intorno, non mi riguardano. Anche se a volte alcune discussioni mi fanno incazzare quando sono al tavolino a lavorare ci sono io e c’è la storia. Non altro. Non mi chiedo mai per chi lavoro, se faccio fumetti o graphic novel per intellettualoidi. Non me ne importa nulla.
Il tuo nome è circolato come un potenziale autore ospite di Dylan Dog. Ragionando in astratto, pensi che il tuo modo di lavorare, come sceneggiatore o disegnatore, cambierebbe su un personaggio d'altri?
Penso che non sarei adatto. Mi ha lusingato la richiesta ma non credo che il mio modo di lavorare anarchico si possa adattare ad un personaggio già esistente. Credo che farei del male al personaggio.
Hai in cantiere un film animato. Sappiamo che non puoi rivelare dettagli in merito. Sei un appassionato del mezzo? Perché hai deciso di sperimentare con questo tipo di narrazione?
C’è questa idea nell’aria. Vorrei sperimentare perché nell’animazione ci sono tutte le cose che mi piacciono: i disegni, il ritmo, il sonoro, la musica. Mi sembra un passo naturale, ma non so se riuscirò a concretizzare la cosa.