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Qualche semplice segno: conversazione con Stefano Simeone

Intervista a cura di Raffaele Caporaso e Andrea Fiamma.

Stefano Simeone la fa semplice. Classe 1985, l'autore romano ha all'attivo due graphic novel, diverse collaborazioni e un gruppo di lavoro, il Michael Kane Studio, insieme a Gabriele Dell'Otto, Werther Dell'Edera, Giorgio Pontrelli e Antonio Fuso. Roberto Recchioni, affiliato allo Studio, ha scritto di lui che "Sa disegnare e colorare piuttosto bene, specie quando fa le cose sue, non è geloso e scrive in maniera interessante. E ha un talento naturale per Angry Birds".

Dopo il suo primo lavoro come autore completo, Semplice, la storia di Mario, un ragazzo che divide il proprio tempo tra la monotonia rassicurante della vita quotidiana (casa-lavoro-amici e ritorno) e le fantasticherie offerte dalla sua immaginazione sconfinata, Simeone ha prestato la propria arte a Long Wei, come disegnatore, e Orfani, come colorista, per poi cimentarsi nella sua seconda opera, Ogni piccolo pezzo, in cui racconta le vite intrecciate di un gruppo di amici con piglio scanzonato e struggente allo stesso tempo.

Stefano, oltre a parlarci della sua ultima opera e dei suoi prossimi progetti, ci ha mostrato due tavole scartate e alcuni layout inediti di Ogni piccolo pezzo, che potete vedere a corredo dell'intervista.

Ogni piccolo pezzo (qui la nostra recensione) si inserisce nella collana “Le città viste dall’alto”, sotto cui cadono anche Un lavoro vero di Madrigal e Fermo di  Sualzo. Secondo te come dialoga il tuo fumetto con le altre due opere? Senti una particolare costrizione a essere inserito in una collana tematica?
Nessuna costrizione, sono loro ad essere chiusi lì dentro con me. Con Sualzo e Madrigal condivido una bella differenza: di linguaggio, di contenuti, di ritmo e di intenti. Nonostante tutto questo, credo che ci sia un dialogo tra i tre libri. Un dialogo allargato, non ancora pienamente evidente, la cui identità sarà più chiara con il proseguo della collana. Per ora, quello che è evidente è che sono tre storie che parlano di luoghi, presunti o reali, e di come interagiscono con le persone che ci vivono.

Ogni piccolo pezzo ha una narrazione molto cinematografica, composta da più linee temporali che si intersecano fra loro: quanto ti piace il cinema e quanto questo media influenza il tuo lavoro?
Il cinema è stato il mio primo amore: l’ho studiato, ho desiderato farlo e poi me ne sono allontanato. In particolare il montaggio: come nel fumetto, nel cinema un particolare tipo di supporto ha portato una varietà di tecniche specifiche. Mi piace moltissimo utilizzare la grammatica specifica del fumetto, mi sembra ovvio sfruttare il linguaggio proprio di un media. Altrimenti, tanto varrebbe fare un film, o un cartone animato. Voglio che una storia sia in un certo modo proprio perché è raccontata con un certo mezzo. Tornando alle influenze del cinema, non è una cosa pienamente consapevole, credo sia un retaggio che mi porto dietro.

Quanto c'è di autobiografico in Ogni piccolo pezzo? Ti riconosci in un personaggio del racconto in particolare? Come è nata nella tua mente l'ispirazione per la storia? Quanto tempo di lavoro ha richiesto?
L’elemento autobiografico fondamentale è la geografia del luogo, che si rifà a quella del mio paese natale. Avevo un bisogno forte di sapere dove fossero esattamente i personaggi in ogni momento, la strada che percorrevano, il tempo che avrebbero impiegato per arrivare in un dato punto, la traiettoria del volo degli uccelli, i metri che li dividevano o i centimetri che li avvicinavano. Anche se molte cose, ovviamente, non si vedono, tutto ciò mi serviva per ritmare la storia, per renderla plausibile. Anche se le persone e le cose che accadono sono invenzioni, si muovono nel luogo per me più reale possibile, e questo li definisce e li rende un po’ più credibili. Ogni piccolo pezzo è nato da delle sensazioni e da un paio di immagini, da dei personaggi inseriti in un contesto e dall’ossessione di conoscere i loro rapporti interpersonali nell’arco di un tempo lungo, almeno venti anni. La lavorazione, in totale, tolti gli intermezzi, ha richiesto circa cinque mesi belli pieni pieni.

opp79A proposito dell'autobiografismo, in molti criticano questa tendenza da parte degli artisti di rifugiarsi nel racconto autobiografico per mancanza di un messaggio o di un valore da comunicare da parte o per colmare le loro lacune da narratori dall'altra. Credi siano accuse legittime o soltanto pretesti per fomentare una discussione?
La seconda che hai detto. Mi sembra davvero una polemica sterile. Non vedo come raccontare un’esperienza di vita personale possa denotare una “mancanza di un messaggio” o una inabilità di narrazione. Non ne sento molte di critiche del genere, ma, così ad occhio, mi sembrano dettate da una profonda ignoranza. Se fosse vero, qualsiasi storia totalmente inventata (e, anche qui, strano che la personalità o l’esperienza del narratore non influiscano in alcun modo sulla narrazione), sarebbe tendenzialmente pregna di significati e narrata in modo impeccabile, quindi?

Angel Martin ha parlato di "sottoprodotti della cultura del narcisismo" e Ratigher si è scagliato contro questa tendenza scrivendo che "decidere di dedicarsi nel nuovo millennio all’autobiografia significa contribuire, a mio parere, a ciò che più ci rende schiavi: il culto della persona". Certamente c’è un distinguo tra parlare di sé – che è il nodo della questione per i critici di questo atteggiamento - e usare spunti personali per costruire una vicenda, ma molti autori trovano deprecabile questo auto-referenzialismo. È un’ignoranza verso cosa, secondo te?
Non si tratta di ignoranza verso cosa, credo che il punto sia: è una storia buona? Racconta bene? Per me il discorso si ferma qui, il resto sono polemiche inutili, a mio avviso, per fomentare una discussione sterile. Ciascuno è libero di raccontare cosa meglio crede. Il mio modo si affrontare un evento futile può essere diverso dal tuo. Il mio approccio più o meno sensibile, più o meno “pulp” a una qualsiasi vicenda, personale o meno, è il fondamento della questione. È il narratore. Puoi anche parlare di una bustina di zucchero. Può anche essere la bustina di zucchero dell’autore. E’ una storia autobiografica, e allora? Se mi trasmette emozioni e quest’esperienza diviene (in parte) universale, non ne vedo il problema. I miei libri non sono autobiografici, ma potrebbero esserlo, quale sarebbe la differenza? Li farei forse più facilmente, ma subentrerebbe la mediazione della narrazione. Sceglierei cosa far vedere e cosa no, come farlo vedere. Selezionerei delle frasi, dei momenti. L’autobiografismo puro (peraltro nemmeno da criticare, perché?) sarebbe un documentario pedissequo degli eventi, non mi sembra che sia il genere dominante nella graphic novel contemporanea. Se poi qualcuno è infastidito da tutto questo, allora pazienza.

Parte del tuo percorso lavorativo ha coinvolto anche il progetto MKS, il collettivo indipendente che vedeva coinvolti anche Werther Dell'Edera, Gabriele Dell'Otto, Antonio Fuso e Giorgio Pontrelli; come valuti quell'esperienza? Può dirsi conclusa?
È stato bellissimo, abbiamo fatto delle grandi partite a calcetto, ci siamo abbracciati forte forte e abbiamo ideato e realizzato progetti insieme. Abbiamo scoperto un nuovo modo di lavorare, i pro e i contro di questa cosa. Se può dirsi un’esperienza conclusa? Puoi rifarmi la stessa domanda tra un paio di mesi?

Quanto cambia il tuo modo di lavorare come autore completo? Come costruisci la tua storia e come la fissi su pagina?
Quando lavoro ad una storia mia, la lavorazione è quantomeno caotica. Scrivo un po’, metto un dialogo, poi disegno una pagina, ne coloro un’altra, mi faccio venire delle idee, insomma. Questo almeno per la prima fase del lavoro. Poi, se sono fortunato, capisco dove sta andando la storia subito, e mi impongo una lavorazione più sistematica e organizzata, per quanto possibile, però mi rendo conto che, a volte, improvvisare mi aiuta parecchio.

opp109Guardando a Ogni piccolo pezzo, il colore è un vero e proprio protagonista del racconto: che tecnica utilizzi? Quanto sono importanti i colori per te, non solo da un punto di vista visivo, ma anche narrativo?
I colori ci devono essere se c’è necessità. Mettere una luce, una controluce e un’ombra che non aggiungono niente alla fruizione di una vignetta equivale a versare un buon vino in un bicchiere di cristallo. Il vino resta comunque buono, e mi rendo conto che comunque anche il bicchiere ha la propria importanza. Quello che cerco di fare, quando mi riesce e quando posso farlo, è di mettere una cannuccia nel vino, ovvero cambiarne (senza stravolgere) la fruizione. Arricchire quell’esperienza. Il colore, secondo me, dovrebbe fare questo. Ora tutti i sommelier mi odieranno e probabilmente compreranno per tutta la vita fumetti in bianco e nero, però più o meno il senso è questo.
In Ogni piccolo pezzo, il colore serve soprattutto ad aiutare il racconto, che si sposta senza preavviso in tempi e luoghi lontanissimi. E poi, ovviamente, ad unire quando deve unire o il contrario.

Dei membri del MKS, Dell'Otto è quello che ha prestato la sua arte a molti eroi Marvel. Se tu lo potessi fare, quale personaggio vorresti illustrare? E con quale sceneggiatore?
Gabriele, tra tutti i personaggi Marvel, mi suggerisce Batman. Ha un sorriso strano, mentre lo dice, non capisco.

Hai appena terminato Long Wei, hai già altri incarichi all'orizzonte, sia su commissione sia per quanto riguarda progetti più personali? Sappiamo che il rapporto tra te e BAO Publishing continuerà: cosa puoi anticiparci del prossimo progetto, che si preannuncia molto interessante?
Ho alcuni lavori di colorazione in corso. Avendo appena terminato Long Wei, ho bisogno di riprendere un po’ il fiato, fare delle cose per me, studiare, guardare tanto e pensare per un po’ solo al libro nuovo. Sarà un libro più lungo stavolta, di circa 300 pagine e l’uscita è prevista per il 2015. Vorrei tornare a diluire la narrazione e concentrarmi sui silenzi, sugli sguardi e sul disegno, più che sul colore. Penso che racconterò pochissime cose in un arco di tempo lunghissimo. Vedremo.

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