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I 99 giorni di Matteo Casali

99_giorniQuanto sono lunghi novantanove giorni? Qualcuno potrebbe rispondere che durano esattamente novantanove giorni; qualcun altro potrebbe invece affermare che in certi casi il loro eco arrivi a protrarsi, nella memoria dell'interessato, per molto molto tempo.
Per Matteo Casali novantanove giorni hanno la durata di 174 pagine a fumetti, spazio che, grazie al potenziale metafisico del linguaggio, si espande fino a raccontare la storia di Antoine Boyd e dei suoi 99 giorni.

Prolifico sulla piazza italiana, anche nel ruolo di docente di sceneggiatura alla Scuola di fumetto di Reggio Emilia, Casali ha progressivamente corteggiato il mercato statunitense, raggiunto prima da Bonerest, creatura nata in casa Innocent Victim e poi esportata in Image Comics, poi da due storie autoconclusive scritte appositamente per Marvel Comics (una su What If? Astonishing X-Men e una per l'antologico Iron Man: Titanium).

Con la pubblicazione di 99 Days la sua presenza sul mercato americano viene ribadita proprio da Vertigo, musa ispiratrice del lavoro di Casali da prima della nascita di Innocent Victim, e che in qualche modo ora chiude un cerchio.
Affiancato da Kristian Donaldson alle matite, Casali realizza così una storia noir dalle linee piuttosto forti, pubblicata nella collana Vertigo Noir, e che Panini pubblicherà in Italia in concomitanza con Lucca Comics & Games 2011. In occasione dell'uscita italiana di 99 giorni, Comicus vi offre un'intervista in esclusiva a Matteo Casali e un'anteprima di quattro tavole dell'edizione italiana (per la quale si ringrazia Panini Comics e Leonello Di Fava).

Ciao Matteo, bentornato su Comicus! Uscirà a breve anche in Italia il tuo 99 giorni, graphic novel uscita negli States per la collana noir di DC, Vertigo Crime: cosa puoi dirci in merito?

È una storia dura, cattiva, dove la speranza è un lusso. Forse la cosa migliore che io abbia scritto, non so. Fa parte dell’ultimo “lotto” di uscite di Vertigo Crime, che comprende anche Return to Perdition, seguito del ben noto Road to Perdition (in Italia, il film con Tom Hanks e Paul Newman lo chiamarono Era Mio Padre... sigh...).
È la storia di un poliziotto di colore che, nella Los Angeles dei nostri giorni, si trova a indagare su una serie di omicidi compiuti a colpi di machete. Questo risveglierà in lui i ricordi dei suoi giorni vissuti da soldato bambino nel Rwanda del 1994, nei terribili tre mesi in cui ci fu una vera ecatombe etnica portata avanti a colpi di machete, appunto.
Il passato sembra volerlo riportare a quei giorni terribili, quei 99 giorni che forse non sono mai davvero finiti per lui.

Quale peso viene dato, all'interno della narrazione, alle tragiche vicende della guerra civile in Rwanda?

Riguardano il passato di Antoine, il protagonista, ma sono strettamente legate agli eventi del tempo reale della narrazione. C’è un caso da risolvere e un assassino da prendere, ma Antoine deve fare i conti con il suo passato e con gli orrori che riaffiorano nella sua memoria, in un delicato gioco di rimandi che non sembra – e non vuole – lasciare alcuno scampo.

Perché hai scelto di puntare l'attenzione proprio su questa problematica?

Ho giocherellato con l’idea per un po', prima che si presentasse l’occasione di proporla a Will Dennis per la neonata collana della Vertigo. Ricordo gli eventi del Rwanda in prima persona e ricordo come le notizie relative ai massacri, che continuarono con brutale metodicità per tre mesi, scendevano nelle liste di priorità di notiziari e quotidiani, fino a sparire quasi del tutto. Nel frattempo, ottocentomila persone, si dice anche un milione, vennero fatte a pezzi.
Credo che il massacro del Rwanda sia un esempio perfetto della ferocia umana, di orrori che credevamo relegati alla memoria della seconda guerra mondiale. Non ho scelto io di scrivere questa storia. Ho dovuto scriverla. Qualche scrittore sostiene che nel nostro lavoro non siamo altro che “servi” delle storie, che ci usano per essere raccontate. Forse 99 Days è qualcosa del genere...

Ultimamente il fumetto, e non solo quello USA, sta prestando parecchia attenzione ai problemi legati ai vari conflitti africani, presenti e passati. Penso non solo a 99 Days ma anche a titoli come Unknown Soldier (Vertigo) o l’italianissimo Etenesh di Paolo Castaldi (BeccoGiallo). Secondo te perché proprio adesso e non prima? Cosa è cambiato nella sensibilità degli autori e in quella dell’industria?

Credo che la risposta più semplice sia “maggiore consapevolezza”. Nel senso che fino a non troppo tempo fa l’Africa era un continente molto più lontano nella coscienza comune di quanto non lo fosse geograficamente parlando, se mi passi l’espressione. Perfino il massacro del Rwanda è stato in pratica dimenticato da (quasi) tutti, con l’eccezione delle organizzazioni umanitarie e di chi segue in modo più diretto i problemi di questo continente martoriato. Poi va detto anche che, fin dai tempi dei romanzi d’avventura di fine Ottocento, paesi misteriosi e lontani come “l’Africa nera” erano i luoghi principe dell’avventura.
Oggi che quelle distanze sono ridotte in più di un senso, il richiamo all’avventura diventa meno romantico, più realistico e ispirato ai drammi di cui diveniamo via via più consapevoli.
Quando non complici.

Pensi che possiamo affermare di trovarci di fronte a un Nord del mondo che cerca in qualche modo di fare ammenda per il suo ruolo in queste guerre, sia esso quello attivo di finanziatori o sostenitori, o quello passivo di chi volta lo sguardo o, come hai detto prima, se ne disinteressa gradualmente?

È proprio quello che dicevo un attimo fa.
Per certi versi, potremmo anche pensare che si sia una forma di “espiazione” catartica, in cui gli autori/artisti danno voce a una disperazione che spesso soffoca nel silenzio generale, per mettere in pace la coscienza collettiva del mondo ricco. Ma francamente mi parrebbe un po’ troppo.
Sono convinto che il ruolo di un autore sia, prima di tutto, quello di raccontare una storia bella, anche quando terribile, una che valga la pena essere letta. Se poi questa storia ha anche un valore informativo o artistico e magari anche educativo, be’, tanto meglio. Ma credo non debba mai essere il presupposto di partenza. Altrimenti diventerebbe artefatta, finta e pretenziosa, e probabilmente rivelerebbe una sua potenziale natura di “pezza” per una coscienza. Singola o collettiva che sia.

Una cosa che accomuna 99 DaysUnknown Soldier (guardacaso entrambe storie targate Vertigo) è la volatilità della nuova vita che i protagonisti ottengono una volta scampati al conflitto. Non c’è quindi la possibilità di un riscatto completo da simili orrori?

Eccome. Per fortuna, durante le settimane di ricerca per 99 Days, ho avuto modo di leggere storie di redenzione e di seconde possibilità. Le vicende umane più straordinarie sono segnate da drammi e orrori come quello ruandese, da cui nascono improvvise e impreviste occasioni di vera rinascita. Siamo noi stramaledetti fumettari che preferiamo raccontare storiacce cattive…

Cosa puoi dirci invece di Kristian Donaldson? Come è nata la vostra collaborazione?

Kristian mi venne proposto dal nostro editor, Will, dopo che un primo disegnatore aveva dovuto farsi da parte. Ed è stata una grandissima fortuna. Kris ha dato vita a 99 Days come nessun altro avrebbe potuto. Ha interpretato benissimo le mie notoriamente strette indicazioni di regia e lo ha fatto in modo magnifico. Credo senza ombra di dubbio di poter dire che 99 Days è tra i migliori volumi dell’intera collana Vertigo Crime.
Del resto, da uno che, giovanissimo, vanta già una candidatura al premio Eisner con Supermarket di Brian Wood, non ci si può aspettare niente di meno. A lavoro ultimato, Kris mi ha scritto una lettera davvero toccante dove ricordava come all’inizio fosse stato difficile lavorare sulla mia sceneggiatura perché gli specificavo molti dettagli su inquadrature e posizionamento della telecamera. Poi però si è lasciato andare, mi ha “seguito” e ha scritto di essersi divertito un sacco e di aver fatto cose che da solo non avrebbe fatto. Conto e spero di poter fare altro con lui – e a breve!

Una domanda un po’ più tecnica, ora. So che hai scritto 99 Days direttamente in inglese e che ne hai curato anche la traduzione in italiano. Che effetto ti ha fatto, per una volta, tradurre dall’inglese qualcosa di tuo? Quali problemi hai riscontrato e a quali compromessi sei dovuto scendere?

Mi sono odiato.
Ho usato tanto slang e diversi giochi di parole che mi sono risultati incredibilmente ostici da tradurre. A parte questo, però, è stata un’esperienza decisamente nuova. Lo era sicuramente per me, ma credo sia la prima volta (non so in quale storia… fumetto? editoria?) che un autore italiano traduce se stesso nella propria lingua natale da un’altra.
Ho dovuto inventarmi adattamenti che mi convincessero al 110% (cosa che solo i traduttori più maniacali fanno) e sostituissero inflessioni, gergo e carattere di tanti personaggi che appartenevano a etnie diverse e tutti con diversi livelli di istruzione.

Con la pubblicazione di 99 Days e l'imminente pubblicazione di Batman: Europa la tua presenza nel mercato statunitense si puà dire ufficialmente consolidata. Cosa vedi, quindi, per il tuo futuro? Nuove storie per Marvel e DC o qualcosa per il mercato europeo?

È ancora presto per parlarne, ma credo che l’uscita di Europa potrebbe cambiare qualche carta in tavola, e lo stesso vale per 99 Days. Possiamo dire che mi prudono le mani e ho voglia di prendere a schiaffi la tastiera per farle sputare tutto quello che sa e che ancora non mi ha detto. Vi terrò informati, ovviamente. Del resto, ho diverse storie e idee che attendono di essere sviluppate, oltreoceano come qui nella “cara vecchia” (Bat?) Europa. Ci sono alcune cose che bollono in pentola e potrebbero sorprendere anche qualche lettore nostrano, quindi la “morale” è sempre quella... stay tuned for more rock ‘n roll.

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