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Jan Dix: Carlo Ambrosini

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Intervista a cura di Francesco Borgoglio, Gennaro Costanzo e Giovanni La Mantia.

Ciao Carlo, benvenuto su Comicus.

Nico MacchiaPartiamo subito da un tuo “vecchio” personaggio. Qualche mese fa Comma 22 ha riproposto, in un bella edizione, Nico Macchia. Che sensazioni hai riguardo a questo progetto autoriale?
Abbiamo la sensazione che molte storie potrebbero ancora essere raccontate. Hai in programma una ripresa delle avventure, compatibilmente con gli impegni già in essere?

Purtroppo al momento no, anche se credo come te che i personaggi di quella storia avrebbero potuto e potrebbero aver certamente uno sviluppo. Negli anni Ottanta mi sono occupato con passione del medioevo e continuo tuttora a conservare per quel periodo storico, sia per l’aspetto letterario che quello iconografico una forte curiosità.

Ken Parker, Dylan Dog, Napoleone e adesso Jan Dix, sfaccettature differenti e diverse attitudini nel vivere le avventure. Artisticamente cosa ti ha colpito dei primi due, facendone poi tesoro nella realizzazione delle storie dell'albergatore-entomologo svizzero prima e del dinamico consulente artistico successivamente?

Soprattutto che si sforzavano di essere “personaggi”, prima che prodotti editoriali. Nascevano anzitutto dalle istanze creative dei loro autori, autori che avevano grande caratura professionale e per quanto riguarda Tiziano Sclavi anche genio artistico. Dylan e Ken pur essendo molto diversi fra loro hanno proposto tipologie inedite e piuttosto innovative negli stereotipi bonelliani. Ti risparmio una lunga dissertazione sulla figura dell’antieroe che oggi è piuttosto frequentata, ma allora non era per niente scontato che il protagonista di una serie esibisse le proprie fragilità.

Quali sono le cause che hanno determinato la svolta per un nuovo personaggio come Jan Dix, lo avevi già in "grembo" da molto?
Ci sono dei punti di comunione o il tuo approccio è totalmente diverso rispetto a Napoleone?

Non si è trattato affatto di una svolta. Da un punto di vista creativo Dix e Napoleone si compensano. Dix è meno romantico e meno preoccupato della sua condotta morale, ma in fondo l’approccio nell’affrontare le incognite dell’esistenza hanno la stessa base problematica che è la questione filosofica del “senso”: il senso delle cose del mondo e dell’essere nel mondo. Dix legge il mondo in chiave estetica, Napoleone attraverso quella psicanalitica. E poi avevo voglia di parlare di pittura e di pittori.

Come è stata accolta la serie dai lettori? Ad un anno di distanza è possibile avere un riscontro più preciso?

Jan Dix 3Pur avendo un taglio popolare siamo destinati ad avere una collocazione di nicchia, una nicchia nutritissima ed estremamente lusinghiera per me.

Indubbiamente il mondo dell'arte è molto affascinante e risulta particolare la scelta di abbinarlo ad un giallo. Se da un lato questa scelta apre nuove prospettive al genere, dall'altra sembra rischiosa perché ci si domanda, poi, quanto possa risultare innovativa alla lunga questa ambientazione. Cosa ci dovremo aspettare nei prossimi numeri della serie?

Il taglio dei prodotti bonelliani soprattutto per i personaggi di serie, e lo sono tutti a parte qualche eccezione, prevede delle regole dalle quali è difficile derogare. Vincoli di struttura e di linguaggio sono piuttosto stringenti e tuttavia offrono l’opportunità di organizzare impianti narrativi fruibili a più livelli. Il giallo per me è quasi sempre un pretesto. Quello che più mi preme raccontare e che si coglie forse meglio leggendo fra le righe è la contraddittorietà e l’inafferrabilità delle cose: il modo in cui prendono o perdono significato e lo spaesamento al quale sono sottoposti i personaggi.

Leggendo alcune commenti in rete, parte della critica vorrebbe una serie meno investigativa/tradizionale e più autoriale. In compenso, c'è un equilibrio nella serie fra questi due elementi che garantisce una lettura fruibile a diverse tipologie di lettori. Cosa rispondi a queste critiche?

Qualsiasi tipo di critica dovrebbe sempre tenere conto del prodotto che ha fra le mani. Chi si aspetta delle rivoluzioni nel mondo bonelliano non può che rimanere deluso. Tuttavia un critico che non sappia cogliere le aperture e la peculiarità degli autori che pur lavorano in questo contesto, oggettivamente tradizionale, rischia di non capire cosa significhi produrre fumetti in modo professionale in Italia. Naturalmente c’è chi pensa, e ne ha tutto il diritto, che il fumetto non debba essere “professionale” ma strumento di espressione poetica. Idea nobilissima, basta mettere in conto che l’affermarsi di una tale idea ridurrebbe il pubblico che consuma fumetti grossomodo alla nicchia dei lettori che frequenta la poesia nel nostro paese. Sarebbe un bene o un male per il fumetto? Non lo so. Io continuo ad augurarmi che come per il Cinema coesistano entrambi le dimensioni: quella industriale dello spettacolo ricreativo e quella più sperimentale e di ricerca e che magari possano contaminarsi scambiandosi valore. In fondo questo è quello che cerco di fare con il mio lavoro. Non vorrei sembrare troppo ecumenico e detesto le schematizzazioni, però non escludo a priori che anche in produzioni cosiddette commerciali, si possa ravvisare della qualità; tanto più che la civetteria del ritenersi ”artista” nel mondo del fumetto denuncia una sorta di snobismo culturale, provinciale e piuttosto patetico. Direi che la cosa essenziale è confidare nella qualità del lavoro: la grande scoperta poetica o artistica così come quella scientifica, spesso e volentieri è un incidente, un incidente che non può prescindere dal lavoro.

Il volto di Dix è ispirato a Jeremy Irons e quello della sua fidanzata Annika a Julia Roberts. Non è la prima volta che il volto di un protagonista di fumetti è preso in prestito dal cinema, basti pensare a Dylan Dog e Dampyr; a parte questi famosi precedenti in casa Bonelli, quali sono state le motivazioni che ti hanno suggerito o ispirato queste somiglianze?

I due attori sono riferimenti di massima dei quali mi sono servito per orientare i disegnatori della serie. Una questione i comodità e tutto sommato i due non sono malaccio. Lei soprattutto.

Il primo numero ti ha visto come autore unico, avremo altre occasioni di rivederti alle matite sulla serie? Come cambia il tuo approccio alla sceneggiatura in questo caso? Le sceneggiature, poi, vengono scritte già conoscendo il disegnatore, in modo da offrire un racconto a lui più consono?

Allora, sono due domande. Alla seconda rispondo di sì. Assolutamente sì almeno finché ho la possibilità di disporre di disegnatori che stimo e dei quali conosco e apprezzo le peculiarità.
Alla prima rispondo dicendo che disegnerò l’ultimo episodio della serie, il numero 14, quindi avrò disegnato il primo e l’ultimo. Per quanto riguarda il mio approccio alla sceneggiatura il discorso è un po’ più complesso. Fatto salvo quanto ho detto sopra, pur conoscendo il disegnatore e avendo chiara la foliazione e le caratteristiche del prodotto, quello che elaboro nella stesura del soggetto e della sceneggiatura è un’idea che non si preoccupa granché del testo e della sua destinazione. Cerco di spiegarmi. Mentre sviluppo mentalmente l’idea, che in qualche modo ho circoscritta, si attua una sorta di dialogo interiore: ho un discorso da fare e lo propongo ai personaggi e io scrittore sono uno fra i personaggi, sono sul loro piano ma fuori e dentro di loro in modo piuttosto schizofrenico. Prima ancora di come dovrà formalizzarsi, il racconto è condizionato dal discorso… il discorso è: ci interessa quello che stiamo facendo? È necessario? È possibile mettere ordine in questo caos? (Il caos dell’esistenza intendo). I grandi artisti come Jackson Pollock, Jan Vermeer, Hans Hartung, attraverso il loro lavoro, la loro biografia ci aiutano in questa impresa? E quanto concerne tutto questo al nostro Dix , quanto può servire e appassionare i nostri protagonisti il nostro scrittore (che sarei io) e i suoi lettori? Se troviamo un accordo (e ci tocca trovarlo), il racconto parte. Alla fine quando ho concluso la sceneggiatura metto la consueta dicitura. Fine dell’episodio, il fumetto è finito. Ho visto e vissuto ogni immagine, ogni singola inquadratura, ogni stacco e ho sperimentato tutte le emozioni. Non è finita una fase del lavoro, è proprio finito il fumetto perché come tale è stato pensato. Quello che facciamo dopo sia io che gli altri disegnatori, sulla base di questo testo, è un'altra storia, comincia un altro discorso, i tempi le emozioni e i pensieri sono ulteriori e quello che accade pur avendo tesi, tematiche e conclusioni prestabilite, può essere molto diverso. Un altro fumetto. Sembra strano ma io non ho maggior vantaggio degli altri come disegnatore.

L'arte, e soprattutto la pittura, evocano potentemente il concetto di colore. Per ovvi motivi la testata è in bianco e nero, credi che in Jan Dix l'assenza di colore sia pesante e che, magari, potrebbe essere spunto per nuovi racconti?

Il bianco e nero, anche quello della tv della mia infanzia, non è un’assenza di colore ma è il rimando a un’idea di colore, forse meno esplicita ma più intima e soggettiva. Il colore è una cognizione che il cervello apprende sulla base di come viene utilizzato. Ho scritto una storia dedicandola al concetto di colore e a Claude Monet che dipinse nell’ultima fase della sua vita in enormi e coloratissimi quadri le ninfee nello stagno di casa, praticamente cieco.

Puoi anticiparci se c’è qualche progetto o lavoro prossimo-futuro al di fuori di Jan Dix?

Lo farei volentieri ma al momento non ho niente di preciso in testa, è tutto ancora allo stato di ipotesi.

Ultima domanda: attualmente, in ambito fumettistico, quale sono le letture che hanno suscitato il tuo interesse?

Di recente ho letto volentieri cose di Jiro Taniguchi, Christophe Blain e Joann Sfar ma anche una lavoro molto divertente di Richard Corben su Hellboy il personaggio di Mike Mignola. Sono un lettore di fumetti molto poco sistematico. Le cose a volte mi devono capitare sotto il naso.

Grazie Carlo per la tua cordialità e a presto ancora qui su Comicus.


Redazione Comicus
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