Menu

Intervista a Joann Sfar

A cura di Nadia Rosso e Fabio Maglione

Vorresti raccontare ai lettori di ComicUs il tuo primo incontro con il fumetto?

L’incontro risale alla mia infanzia. Sin da piccolo ho iniziato a leggere fumetti, soprattutto gli autori americani come Jack Kirby e i suoi Fantastici Quattro o Steve Ditko ed il suo Spider-Man. Ne ero a tal punto affascinato che quando a scuola mi chiesero che cosa avessi voluto fare da grande risposi, in maniera assolutamente incoerente, che mi sarebbe piaciuto fare il pompiere o lavorare nel mondo dei fumetti.
A quindici anni ho iniziato ad inviare alcuni progetti agli editori, che però non hanno mai risposto. Ho continuato testardamente lo stesso a scrivere e disegnare e, alla fine, la mia prima pubblicazione è avvenuta quando avevo già 23 o 24 anni.

Hai lavorato per alcuni anni all’Association di Stanislas, Trondheim, David B., J.C. Menu. Cosa ti ha spinto a collaborare a questo grande progetto fondato nel ‘90?

All’epoca studiavo al Beaux-Arts di Parigi e cercavo uno studio in cui poter lavorare tranquillamente ai miei fumetti. Mi dissero che alcune persone lavoravano lì insieme e che nel gruppo c’era ancora un posto libero. Sono andato da loro, ci siamo incontrati e ci siamo subito intesi a meraviglia.
Per quanto mi riguarda, però, è importante aggiungere che non ho iniziato come autore underground per approdare al mainstream. Sin dall’inizio ho scritto contemporaneamente per l’Association, per Dargaud e per Delcourt e i miei lavori sono stati da subito caratterizzati dal mainstream e dallo sperimentalismo.

È vero che hai abbandonato da circa un anno l’Association? Per quale motivo?

Sì, è assolutamente vero. L’ho lasciata perché anche Lewis Trondheim e David B. l’hanno lasciata. David è andato via nel 2005, Lewis nel 2006. Eravamo partiti insieme in quest’avventura. L’Association era nata sotto l’impulso di sei artisti con diversi poteri. Uno di questi è, ad esempio, Jean Christophe Menu, che amo e che rispetto molto anche se non ne condivido le stesse idee teoriche. Ho l’impressione, infatti, che lui faccia della BD soprattutto d’avanguardia.
I due autori che mi somigliavano di più erano invece Lewis e David, perciò quando sono andati via loro, anche io li ho seguiti. Nostro interesse era (ed è) produrre dei lavori letterari; siamo interessati cioè al versante ‘romanzesco’ del fumetto.
Non appena Lewis si mise a pubblicare i suoi lavori da Shampooing, la collana di Delcourt, anche io continuai i miei carnets autobiografici presso questo stesso editore.

Pascin è la tua prima opera lunga e importante pubblicata presso le edizioni dell’Association. Si tratta di un’opera in sette volumi, i primi sei dei quali in bianco e nero, ancora inedita in Italia. Perché ti sei interessato proprio a questo pittore?

Perché lo adoro. Perché ne sono stato affascinato sin da adolescente, cioè a partire da una fase della mia crescita e della mia formazione molto importante. Pascin è stato un personaggio formidabile. Inoltre mi permette di parlare di tutto ciò che mi interessa. Mi permette di trattare di pittura, della vita parigina di quegli anni, di sessualità e di tristezza.

È un artista che ti somiglia?

No! Non mi somiglia affatto! Sono un uomo che ama le donne, io! [ride] Ma devo dire che anche io, come lui, ho conosciuto l’atmosfera delle belle arti, le modelle…

Quando nasce un’idea per una nuova serie che destino ha? Viene lasciata maturare? Ti butti a capofitto nel lavoro per svilupparla subito? Come ti organizzi?

Quando ho una nuova idea mi comporto come se fossi un semplice lettore di fumetti. Lavoro perciò alla storia caso dopo caso, episodio dopo episodio, mi interessa solo quello che viene dopo e dopo ancora.

Quando lavori sei assolutamente libero di esprimere la tua creatività o sottostai a delle costrizioni, dettate dal lavoro su commissione?

Non lavoro più su commissione da anni, ma non c’è mai libertà assoluta, soprattutto se collaboro con uno sceneggiatore e il mio lavoro deve iniziare da un soggetto già dato. Quando invece i ruoli si ribaltano sono io, ovviamente, a spingere il progetto verso una direzione. E le cose cambiano ancora quando si lavora ad una serie.

Come ti trovi a lavorare come sceneggiatore e disegnatore per altri?

Mi piace molto lavorare ad uno stesso progetto insieme ad altre persone. Mi piace anche l’idea di dover lavorare fisicamente nello stesso atèlier. È estremamente stimolante. In passato ho avuto occasione di lavorare chiuso nello stesso studio con altri autori, visto che a casa mia è impossibile perché ho dei bambini.

In Sardina dello Spazio hai disegnato su testi di Guibert. Raccontaci un po’ che grado di libertà ti è stata concessa.

Nessuna! Emmanuel mi metteva davanti degli storyboards e io dovevo attenermi a quel che diceva lui. Ha fatto tutto lui, ma sono contento lo stesso!

Sei un artista assolutamente completo, ma non ti dedichi mai, o quasi mai, alla colorazione delle tue opere. È forse un modo per risparmiare del tempo?

No. In verità succede perché uso il computer solo per inviare le e-mail! Invece, nel caso di opere particolari come la serie Klezmer e il volume di Pascin intitolato La Java Bleue mi sono occupato personalmente dei colori, lavorando direttamente sulle tavole.

E veniamo adesso alla tua serie forse più conosciuta in Italia, Il Gatto del Rabbino. Quanto di autobiografico c’è in questa opera?

Nulla. Il Gatto del Rabbino non è un’opera autobiografica, non in senso stretto almeno. Si tratta di impressioni che provengono dalla mia famiglia, che non potrei definire però ‘ricordi’. Il rabbino non somiglia a mio padre, né a mio nonno. Non tutto però è immaginario, nel senso che qui vengono dipinti i pensieri e il paese da cui viene mio padre.

Si potrebbe parlare allora di un modo di recuperare la memoria storica del tuo popolo, le tue stesse radici…

Sì, forse sì. Ma l’intento principale è sempre quello di raccontare delle storie. Forse quando un giorno concluderò la serie si potranno intravedere dei significati pedagogici.

Parli di conclusioni? Allora hai già pensato come e quando chiuderai la serie?

No. In verità, ancora non ho pensato a come concludere. Ripeto: quando scrivo l’unico mio interesse è raccontare delle storie.

Ritroviamo spesso i tuoi personaggi come protagonisti di altre storie, protagonisti di altre vicende. Crei, per così dire, un universo-Sfar in cui ogni personaggio è legato all’altro. Cosa ti spinge a fare così?

Tratto i miei personaggi come se fossero degli attori veri, in carne ed ossa, che recitano in film diversi.

Nelle tue storie spesso si assiste alla metamorfosi di alcuni personaggi: un animale comincia a parlare, un fantasma o un golem diventa protagonista di vicende dal sapore tutto umano. Racconti l’amore, l’amicizia, il sesso utilizzando personaggi che sarebbero di diritto, nel mondo reale o sotto la penna di altri scrittori, ‘perturbanti’. Nelle tue storie invece quello che potenzialmente ha una carica sinistra diventa, come ha detto Todorov, fantastico, meraviglioso. Il lettore lo accetta e non ne viene turbato.

Sì, esatto. Freud parla di ‘perturbante’, di ‘inquietante stranezza’ e usa un termine intraducibile in francese così come in italiano: Unheimlich. In effetti, nel mio caso, credo che tutto abbia inizio nell’infanzia. Mia madre è morta quando avevo tre anni e la mia famiglia mi disse che i morti non potevano parlare, non potevano ritornare a vivere con i vivi, che facevano paura, etc…
Pensare che potesse succedere il contrario era assolutamente irrazionale e illogico. Mi misi allora a pensare che questo poteva e doveva succedere. Lo volevo con tutte le mie forze. Volevo che i morti avessero un’altra possibilità per tornare tra i vivi e parlare.

Tra le tante attività che hai svolto, c’è anche quella non indifferente di direttore di collana. Come definiresti questa esperienza, dapprima con Brèal Jeunesse e poi con Bayou per la Gallimard? Quali sono i tuoi criteri di scelta editoriale?

Beh, quest’esperienza è assolutamente appassionante. Anche se con le debite differenze, Brèal Jeunesse e Bayou hanno significato tanto per me. Brèal Jeunesse è stato infatti, purtroppo, un fallimento finanziario. Avevamo poco pubblico ma c’erano molte opere da pubblicare. Ho continuato perciò nel 2005 con Bayou e qui, alla Gallimard, le cose vanno per il meglio.
È un lavoro che mi piace molto perché mi costringe a diventare ‘generoso’, mi spinge all’interesse per il lavoro degli altri, a leggere fumetti, a recensirli, in un certo senso. Finisco così per lavorare sul lavoro degli altri, ad esaminarne la sceneggiatura.

In questa collana hai pubblicato opere che hanno poi ricevuto un ampio consenso di pubblico e di critica. Aya de Youpougon di Marguerite Abouet e Clément Oubrerie è stato premiato nel 2006 ad Angoulême e Questa è la stanza di Gipi è stato premiato col Micheluzzi in Italia nel 2005. Ci sono altre opere italiane, oltre Le local di Gipi, in lista d’attesa?

In verità non si è presentato ancora nessuno. Sto lavorando per ora con opere giapponesi, americane, ma al momento nessuna opera italiana.

Parliamo adesso dei cartoni animati di Piccolo Vampiro. Che ruolo hai avuto nella loro realizzazione?

Ne ero sceneggiatore e regista. Ho lavorato dunque con i disegnatori e i musicisti ma non li ho realizzati io.

Dopo questa esperienza, hai pensato ad ulteriori trasposizioni delle tue opere?

Sì. Sto lavorando ad un cartone animato lungo, ma non posso dire altro per ora. Posso dirvi invece che ci sono in cantiere due progetti per il cinema. Uno di questi si realizzerà con un cartone animato, l’altro con attori veri.
[Durante la preparazione di questo speciale, ci è giunta notizia – prontamente riportata nel nostro sito – dell’annuncio ufficiale della lavorazione di un lungometraggio animato tratto dalla serie de Il gatto del rabbino. Il film sarà girato in animazione tradizionale, senza quindi l’utilizzo della tecnica 3D, e vedrà coinvolti, oltre allo stesso Sfar, anche Clement Oubrerie e Antoine Delesvaux. Nrd.]

E veniamo ora al versante musica. Ne sei un grande appassionato e sei un musicista tu stesso. Questa passione è evidente in molte tue opere.

Credo di sì. Nel fumetto su cui sto lavorando, Klezmer, i personaggi, ad esempio, suonano degli strumenti. C’è una festa e loro devono suonare per tutta la notte, stringendo un bel legame d’amicizia. La musica dunque ha qui una parte non indifferente. Da vero appassionato, ho comprato tutti gli strumenti che i protagonisti suonano perché devo sapere come si suona un violino o una chitarra se voglio rappresentarlo su carta.

Anche in Italia è arrivata l’eco della tua partecipazione indiretta al Processo «Charlie Hebdo», processo in cui tra le due parti, il mondo islamico e il giornale satirico su cui anche tu hai pubblicato in passato, si giocava in tutto e per tutto il problema della libertà d’espressione e della censura. Che cosa è successo in verità?

Credo che la partecipazione a questo processo sia stata molto importante perché bisognava necessariamente dire come erano andate le cose. Nessuno, infatti, ha potuto assistere alle udienze, che si sono tenute in due sole giornate dentro una saletta minuscola.
Ho allora assistito a tutto il processo e per due giorni interi ho preso nota di tutto, ho documentato ogni minima parola o espressione. Alla fine, vincere o perdere non era la cosa che contava di più, dato che era chiaro che «Hebdo» avrebbe vinto. Per me, importante è stato esserci e rispondere a «Charlie Hebdo» quando mi ha chiesto di documentare l’intera vicenda attraverso questo carnet, Greffier.

Grazie per la gentilezza e per il tempo che ci hai concesso qui alla Napoli Comicon. Buona fortuna per il futuro!

Grazie a voi, piuttosto. E buona fortuna!



Gennaro Costanzo
Torna in alto