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Andrea Fiamma

Andrea Fiamma

1001 fumetti da leggere prima di morire

L’enciclopedia è morta. L’enciclopedia resta morta. E noi l’abbiamo uccisa.
Le avvisaglie c’erano tutte sin dagli inizi degli anni duemila, quando nacque Wikipedia, croce e delizia di insegnanti sottoscolarizzati e alunni sovraimpigriti. Tuttavia, checchè ne possa pensare Nietzsche, la morte è solo una trasformazione di energie e l’invenzione illuminista non è davvero scomparsa, è solo mutata in qualcos’altro; infatti, più o meno negli stessi anni in cui Jimmy Wales dava vita al progetto che avrebbe decretato la morte, apparente o effettiva, della Britannica, della Treccani e della Brockhaus, i tipi della Quintessence Editions editarono 1001 film da guardare prima di morire, il primo di una lunga serie di enciclopedie tematiche, che non erano proprio enciclopedie, erano suggerimenti di visione, di ascolto, di assaggio, di lettura, basati sulle scelte di professionisti del settore. E dalla guida cinematografica (a tutt’oggi aggiornata annualmente) ci si è spinti verso i dischi, le canzoni, i cibi, i vini, i libri e i fumetti.

Arriva ora in Italia, grazie alla bolognese Atlante, la guida 1001 fumetti da leggere prima di morire, edita in origine nel 2011 e curata da Paul Gravett. Scansiamo da subito gli equivoci: per quanto propositivi siano gli intenti di Gravett, che nell’introduzione auspica al volume di diventare “uno dei rari tentativi di fissare un canone fumettistico internazionale”, 1001 non può essere considerato un canone. O, meglio, non uno da prendere realmente in considerazione. Nonostante ci sia una forza generalista che spinge il libro lontano dal suo centro gravitazionale per approcciarsi a un pubblico incolto, un vero canone dovrebbe prevedere autori maggiori e minori, correnti, periodizzazioni. Insomma, una struttura che esula dal template della serie 1001; qui non si fa nulla di ciò, tutti e 1001 i fumetti hanno uguale spazio, in una sorta di democratizzazione corrotta, e l’utente è lasciato privo di contesti a cui fare riferimento.

Un’operazione simile ha pochi precedenti; sfortuna vuole che uno di quei sparuti precedessori sia un caposaldo del genere, l’Enciclopedia mondiale del fumetto (pubblicata in Italia nel 1978), curata da Maurice Horn e che vedeva coinvolti nomi come Luciano Secchi, Maria Grazia Perini, Gianni Bono, Mark Evanier, Bill Blackbeard e Denis Gifford.
I paragoni sarebbero ingiusti e fuori luogo - la portata e gli obbiettivi sembrano agli antipodi - tuttavia è interessante mettere a confronto due prodotti di tipo divulgativo per vedere come i due periodi abbiano usato premura sulla nona arte. I nomi coinvolti sono, come lo erano per Horn, di buona caratura (per l’Italia, Matteo Stefanelli e Loris Cantarelli, qui in veste anche di supervisori dell’edizione nostrana), ma balza all’occhio una forzatura, una semplificazione dell’argomento che porta a una altalenanza qualitativa nella scrittura, tutta a scapito degli appassionati del mezzo. Al di là di una certa reverenzialità, che sfocia nell'inclusione di cinque titoli di Tintin e della quasi totalità dei lavori dell'inglese Alan Moore, tra cui i meno riusciti Sacco amniotico e Promethea, la manchevolezza più grave da parte di Gravett è il poco polso nella supervisione, con conseguente disomogeneità dei testi: alcuni si fanno carico, come sarebbe giusto immaginare, di spiegare la rilevanza dei soggetti (nella piccola prospettiva dell’ambiente o in quella gigante dell’immaginario collettivo), altri ne analizzano pregi artistici e accortezze di mestiere, altri ancora infiocchettano una sterile sinossi senza troppo trasporto.
Tanto per esemplificare la questione: la scheda dedicata alle 110 pillole di Magnus è un sunto chirurgico, per precisione e intenti, di trama, commento e contestualizzazione rispetto al corpus di opere dell’autore, ma di contro l’insipido trafiletto dedicato a Dragon Ball (scritto dal giapponese Tatsuya Seto), di cui vengono evidenziati i molteplici rivoli di merchandising della serie, arrivando a concludere il pezzo con “tra i migliori fumetti di tutti i tempi”, un rigurgito di retorica che non si prende nemmeno la briga di giustificare l’affermazione, nulla può contro l'analisi ponderata o la ficcante demolizione critica che subiscono molte delle voci nell’enciclopedia di Horn (si veda, su tutti, Doc Savage).
Quello del manga è un esempio replicato in molti casi, di cui il compilatore non sembra aver chiaro il nucleo contenutistico o le motivazioni che hanno permesso al testo di entrare nel tomo. C’è una sfocatura analitica, manca spesso una ragione, una spiegazione delle scelte (perché a un neofita dovrei suggerire, tra tutto Magnus, Necron, invece dell’arditissimo e più maturo, in senso artistico, Le femmine incantante? Dove risiede l’importanza di un Omega lo sconosciuto, di uno Sky Doll, della Saga del clone tratta da Ultimate Spider-Man?). Per ogni voce ben curata come Mia mamma (è in America, ha conosciuto Buffalo Bill) o Capire il fumetto, che illustrano con competenza i motivi della loro peculiarità nel panorama artistico, è presente la scheda di fumetti come Transmetropolitan e Mutts, ridotti a balbettanti starnazzi nello spazio di tre righe.

Si cerca una sorta di ipertestualità, mutuata dalle esperienze digitali - alla fine di alcune voci compare un riquadro con titoli simili o dello stesso autore, sia presenti sia assenti nel libro - ma l’impiego del volume, che andrebbe consultato di continuo, smontanto, riempito di segnalibri e post-it per segnare questo o quel fumetto che ancora non si ha letto, cozza con il formato editoriale scelto, un cubo rigido con una rilegatura non saldissima e una costa che tende a usurarsi dopo poche aperture. La versione italiana si discosta da quella inglese sia per grafica (l'originale offriva una versione con copertina morbida, più agile, ma il goffo Dredd stampato sopra è meno in palla dell'immagine realizzata da Claudio Villa) sia per contenuti: Stefanelli e Cantarelli hanno imbastito un sommario differenze dall’opera di Grevett, in cui l'esoscheletro era la Gran Bretagna, portando ai lettori una guida che mastica più italiano.

Il discorso si riduce ai suoi minimi termini: a chi serve e a cosa serve questa guida? Be', gli appassionati di fumetto qualche perla nascosta e mai letta la troveranno di certo nel marasma generale, ma è inevitabile che trarranno meno soddisfazione una volta chiuso il libro. Ecco dove falla di più Gravett: se lavori come quelli di Horn accompagnavano alla rassegna di nomi un consistente apparato critico (132 pagine, da cui basta estrapolare le poche righe sulla riattualizzazione della figura eroica nella seconda metà del XX secolo per rendersi conto della loro bontà), 1001 lascia il lettore più scafato parco di nuove conoscenze o spunti critici. L'obiezione sarebbe legittima: a che pro inserire un apparato critico in un'epoca in cui lo scibile umano sta nel palmo di una mano, in cui tutte le possibili strade sono state tracciate? Il baricentro della questione va spostato, qui non c’è del sapere incondizionato, qui c’è una selezione, attuata da persone competenti, una prospettiva della materia fumetto che esula da tutte le altre; non c’è, si diceva, un canone. C'è un parere, una serie di consigli. E allora, forse, il senso più alto di testi come 1001 fumetti da leggere prima di morire è proprio di indicare una delle possibili vie da percorrere, di dare un punto di partenza per lettori errabondi e fruitori casuali, che si preoccuperanno poi di scoprire, se lo vorranno, tutti gli altri percorsi rimasti inesplorati

Jim Lee e le lettere di rifiuto DC-Marvel

  • Pubblicato in News

rifiutojimleeNella carriera di un autore i rifiuti da parte delle case editrici sono all'ordine del giorno e spesso i giovani artisti che propongono i propri lavori si vedono chiudere la porta in faccia senza troppi formalismi. La leggenda, propulsa dallo stesso disegnatore, narra che Todd McFarlane abbia ricevuto 700 rifiuti prima di essere assunto dalla Marvel per la serie Coyote.

Jim Lee, rovistando tra le sue carte, ha trovato alcune delle lettere inviategli dagli editor Marvel e DC in risposta ai suoi lavori e le ha condivise con i suoi fan su Instagram. Le prime due lettere, pervenute dalla uffici della DC, riportano la firma di Dick Giordano, che lo rimbalza con un messaggio prestampato (nonostante nella seconda lo incoraggi di continuare a disegnare). Sul versante Marvel, i rifiuti si fanno più aspri: prima Eliot R. Brown, che gli scrive: "I tuoi lavori sembrano fatti da quattro persone diverse. Le tue cose migliori sono i primi piani, il resto delle tue matite è abbastanza debole, stesso dicasi per le chine" e conclude dicendogli di ricandidarsi "Quando avrai imparato a disegnare le mani".

Il successore di Brown, Howard Mackie, lo liquida con una lettera seccata, in cui afferma di "Aver guardato i tuoi lavori, come avevamo detto, e di aver constatato che il tuo stile non si adatta ai nostri particolari standard", per poi congedarsi dicendo "Sappiamo che per vedere dei progressi palpabili dovrai lavorare duro ed essere più critico con te stesso".

Il 22enne Lee chiede allora di essere più specifico sulle cose che non vanno nelle sue tavole; l'editor e sceneggiatore gli risponde: "Le figure tendono a essere rigide e poco realistiche, specie nelle tavole inchiostrate. Ti suggerisco di copiare da modelli dal vero, speciamente per la faccia, le mani, le proporzioni, e che impari a mettere le figure in prospettiva. Studia inoltre come si piegano e stropicciano i vestiti, come riflette il metallo, la lucentezza del cuoio... E poi travasali nei tuoi disegni. Hai di fronte a te un mucchio di lavoro prima di poter essere pronto a lavorare per una compagnia come la Marvel".

"Mi hanno assunto tre mesi dopo" ha commentato Lee, mostrando una missiva in cui Mackie gli affida il numero 51 di Alpha Flight, suo primo lavoro da professionista. "Morale della storia: mai arrendersi!".

Potete vedere le lettere nella galleria qui sotto.

Star Wars VII: i nomi della troupe

  • Pubblicato in Screen

A pochi mesi dall'inizio delle riprese di Star Wars VII, il sito ufficiale della saga ha diffuso un annuncio in cui viene rivelato il grosso del cast tecnico: la prima spiazzante notizia riguarda lo sceneggiatore Michael Arndt, rimpiazzato da Lawrence Kasdan e dal regista J. J. Abrams. Nel comunicato la produttrice Kathleen Kennedy afferma di essere "Entusiasta della storia ed emozionata nel sapere che Larry e J. J. ci stanno lavorando. Ci sono poche persone come Larry che capiscono come funzioni una storia di Guerre stellari" e ringrazia Arndt per "Averci portato fino a questo punto".

Se però il nome dell'ormai ex-sceneggiatore era noto da tempo, sulla troupe del film era calato il silenzio. Alcuni nomi erano stati annunciati, come i produttori (Kennedy, Abrams e Bryan Burk, con gli esecutivi Tommy Harper e Jason McGatlin), il direttore della fotografia Dan Mindel (che aveva confermato di voler girare il film su pellicola) e il costumista Michael Kaplan, entrambi collaboratori di Abrams, nonché il compositore John Williams, ma sul resto dei dipartimenti non erano mai stati fatti nomi certi.

Il gruppo è composto principalmente di nomi già noti ai fan della serie, ai quali si affiancano professionisti legati ai film di Abrams o alle produzioni della Kennedy. Nei reparti visivi sono stati ingaggiati il due volte premio Oscar Rick Carter (Avatar, Lincoln, Jurassic Park) sarà lo scenografo, al quale verrà affiancato l'art director Darren Gilford (Tron: Legacy, Oblivion), mentre Roger Guyett (Star Wars: Episodio III - La vendetta dei Sith, Into Darkness - Star Trek) supervisionerà gli effetti visivi. Colpisce la partecipazione di Chris Corbould, responsabile degli stunt e degli effetti fisici della saga di James Bond dal 1995, nonché della saga di Batman di Christopher Nolan, segno che la pellicola vedrà un uso ragguardevole di effetti realizzati dal vivo.

Anche il reparto sonoro vede schierarsi in campo un manipolo di pesi massimi: da Ben Burtt, sound designer di tutti i film della saga, di Indiana Jones e WALL-E, al supervisore del missaggio sonoro Gary Rydstrom (attivo con la Lucasfilm, Spielberg e la gran parte dei film Pixar) fino al montarore del suono Matthew Wood (i prequel di Guerre stellari, Il petroliere, Into Darkness - Star Trek).

Stranamente, il comunicato non nomina le due montatrici del film, Maryann Brandon e Mary Jo Markey (fedelissime di Abrams), che in un'intervista del maggio scorso a Studio Daily avevano confermato di aver firmato per partecipare allla pellicola.

Toy Story of Terror!: recensione

  • Pubblicato in Toon

Toy Story of Terror!, Il primo special televisivo targato Pixar, rimanda involontariamente agli albori della compagnia. All’inizio degli anni novanta, infatti, la Disney, prima di siglare l’accordo con il neonato studio d’animazione, concesse a Steve Jobs e John Lasseter di realizzare uno special televisivo a tema natalizio di mezz’ora, basato sui personaggi di Tin Toy. In questo modo, la transizione da cortometraggi di tre minuti a un film di novanta sarebbe stata più facile. Poco prima dell’inizio dei lavori, tuttavia, i vertici Disney fecero pressione affinché Lasseter e soci si mettessero subito al lavoro sul lungometraggio e dello special, di cui rimangono alcuni disegni concettuali e delle idee per la trama, non si fece più nulla.
In seguito, lo studio si sarebbe dedicato unicamente ai film, lasciando ai corti il compito di sperimentare con i nuovi talenti e software della casa. Ora, a vent’anni di distanza, la Pixar chiude il cerchio e mostra come le proprie capacità di racconto si adattino a ogni formato.

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Sulla strada per le vacanze, Molly e sua madre sono costrette a soggiornare una notte al Sleep Well Motel, a causa di una gomma forata. La bambina ha portato con sé alcuni dei suoi giocattoli, ma quando Mr. Potato scompare misteriosamente Woody e gli altri sono costretti a uscire dalla valigia di Molly e avventurarsi tra i meandri dello spettrale motel in cerca del loro amico.

Tutto si può dire di Toy Story of Terror!, che giochi sul sicuro, declinando nel contemporaneo gli spunti del passato - ancora una volta i giocattoli sono preda di un collezionista, che però vende direttamente su internet - che sia ruffiano (con l’effetto nostalgia dato da pezzi di storia come Combat Carl, il dispenser di caramella Pez, il Transitron, che strappa più di una risata) e innocuo, tranne che non sia un orologio narrativo calibrato fin nei minimi ingranaggi. Ogni scena, ogni inquadratura, ogni dialogo sono parte del flusso initinterrotto di informazioni che assolvono il duplice compito di intrattenere il pubblico e muovere in avanti la storia. Niente è lasciato al caso ed è da manuale il modo in cui vengono piantati dei semi tematici che germogliano e crescono nel corso del secondo e terzo atto.
Questa è la forza e al tempo stesso la debolezza del mediometraggio. Non c’è respiro, non c’è un attimo di contemplazione, tutto è talmente compresso da far sembrare che le scene ci passino tra le dita come sabbia, pur nella loro perfezione cristallina. Vero è che il regista Angus MacLane (già artefice dei corti BURN-E e Small Fry) qualche sequenza di vuoto nel primo atto se la concede, ma è fisiologica a creare il silenzio che precede il sussulto, non certo ad allentare il ritmo forsennato del prodotto.

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La cowgirl Jessie (Joan Cusack), le cui motivazioni si ricollegano con un’operazione di retro-continuity ai suoi trascorsi (viene infatti ricordato il lungo periodo passato dalla bambola in una scatola claustrofobica, anche se in Toy Story 2 non la si manifesta questa idiosincrasia, nonostante passi parte del film chiusa in una confezione), è la protagonista riluttante dello speciale, ma a rubare la scena, molto più di quanto facesse in Toy Story 3 è Mr. Pricklepants, impersonato dal timbro fermo e volutamente attoriale di Timothy Dalton, impegnato a commentare lo svolgersi degli avvenimenti in un buffo gioco postmoderno alla Rango.
Non si lesina sulle citazioni, sia dirette (il poster di The Good Dinosaur, i nomi dei personaggi della saga incisi sulle pietre tombali) sia indirette (Psyco, Buried, Kill Bill Vol. 2), financo agli omaggi al cinema della Hammer delle musiche incolore di Michael Giacchino, che si fa ricordare solo per il tema che accompagna i titoli di coda. Ma c’è poco da fare, i suoi lavori “brevi” su One Man Band o La luna erano tutta un’altra cosa.

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Toy Story of Terror!
è tanto televisivo quanto cinematografico. Si sente infatti la presenza invadente di rigidi parametri commerciali che non permettono ai realizzatori di sgarrare sul minutaggio: i ventuno minuti e trenta secondi sono costruiti intorno ai tre slot pubblicitari, che vanno a colmare i minuti restanti per raggiungere la mezz’ora, e il passaggio da un atto all’altro è reso evidente da cliffhanger scontati e poco ispirati, che fanno perdere di unità all’opera una volta vista in sequenza. A parte questa sbavatura, il lavoro di montaggio è come al solito curatissimo; su questo versante e su quello dell’impatto visivo, il mediometraggio si gioca tutta la sua cinematograficità: le angolature della macchina da presa virtuale sono drammatiche, al limite della stilizzazione (si veda lo scontro finale tra Jessie e Mr. Jones, montato alla perfezione, in cui i tagli obliqui del quadro costringono l’occhio a muoversi costantemente), pur mantenendo un gusto per la composizione più classica (l’inquadratura in cui l‘intrico di tubi e ferraglia sotto al lavandino che isolano e incorniciano Combat Carl e Jessie).

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Certo, per essere uno speciale di Halloween, la storia è abbastanza sui generis e tocca solo marginalmente l’universo horror o quello legato alla festività staunitense - e materiale su cui lavorare, smontando stilemi o parodiando la tradizione, ce n’era a iosa; le scene tensive non mancano, ma niente - nè le luci, i set o il design dei personaggi (si pensi all’iguana Mr. Jones, la cui pelle è renderizzata con una consistenza morbida e quasi priva di spigolosità visive) - concorre a creare un vero senso di paura, men che meno di terrore. In questo senso, era molto più inquietante l’ernstiana parata dei giocattoli di Sid, il teppista-antagonista del primo Toy Story.

Tirando le somme, il primo special tv Pixar offre intrattenimento di buona fattura e un mestiere solido, ma non tocca i livelli a cui lo studio di Emeryville ci ha abituati. Fosse stato trasmesso qualche anno addietro, i difetti di Toy Story of Terror! sarebbero passati inosservati; in un palinsesto televisivo così qualitativamente ricco come quello odierno, il mediometraggio - che pure ha registrato ascolti molto alti (poco più di dieci milioni di spettatori) - sconta alcune ingenuità e si rivela soltanto un onesto e buon prodotto.

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